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14 – Diario di Viaggio Cagliari

Cagliari

La sera scivola lenta tra i vicoli di Cagliari, con il cielo che conserva ancora un riflesso dorato mentre l’aria inizia a farsi più fresca. Abbiamo scelto una trattoria fuori dal centro turistico, in una piazza poco illuminata, dove il tempo sembra dilatarsi. Pochi tavoli, luci calde e tovaglie consumate dal tempo: tutto suggerisce che qui la gente viene per mangiare davvero, non per fare fotografie.

L’oste ci accoglie con uno sguardo rapido e profondo, il tipo di sguardo che ti inquadra in un istante. Non dice subito niente, ci lascia sistemare, ci porta l’acqua e un menù scritto a mano, poi torna con un sorriso di quelli veri, senza mestiere. Si ferma accanto al tavolo, osserva Skippy che, curiosa ma composta, si sistema sulla sedia tra me e Veronika.

«Non siete turisti» dice all’improvviso, quasi tra sé e sé.

Ci scambiamo un’occhiata. Veronika sorride. «No, in effetti. Stiamo viaggiando ma non nel senso classico.»

L’oste annuisce, si appoggia allo schienale di una sedia vuota e poi si siede. Il locale è quasi vuoto e il profumo che viene dalla cucina è quello di qualcosa che cuoce piano. «Lo si vede dallo sguardo. I turisti guardano. I viaggiatori cercano. Voi… osservate come chi ha tempo, come chi è in ascolto.»

Skippy inclina la testa, forse lusingata anche lei.

«Cagliari non si mostra subito» continua lui. «È una città che ha vissuto con il vento in faccia e la schiena contro la roccia. I suoi quartieri sono salite e discese, come la sua storia. È stata punica, romana, pisana, spagnola… ma sempre sarda. Non ha mai smesso di esserlo.»

Prende una caraffa e ci versa del vino senza chiedere. Poi aggiunge, abbassando un po’ la voce: «Qui il tempo ha imparato a fare silenzio. Chi resta, spesso ha scelto di farlo. Chi va, se ne porta dietro il sapore. E chi arriva, se è come voi, capisce che le storie vere non si raccontano in piazza… ma tra un boccone e l’altro.»

Veronika si sporge, affascinata. «E quali storie vale la pena ascoltare, qui a Cagliari?»

Lui ci guarda un attimo, poi si volta verso la cucina e grida: «Due piatti di malloreddus alla campidanese. E una terza porzione per la mascotte.» La cuoca, invisibile, risponde con un “sì” cantato.

Poi si rimette comodo, si strofina le mani e abbassa un po’ la voce, come se stesse per raccontare qualcosa di importante. «Qui a Cagliari ci sono strade che poggiano sopra altre strade. Case costruite sopra grotte. Cripte sotto chiese. Non so se l’avete vista ma sotto il quartiere di Castello c’è un tunnel che un tempo usavano i frati cappuccini. Serviva per portare i corpi dei poveri al cimitero, senza che nessuno li vedesse. Lì sotto c’è ancora una cappella scavata nella roccia, con una scritta che dice: Ricordati che anche tu sarai polvere.»

Skippy sgrana gli occhi. Veronika si appoggia allo schienale in silenzio.

«La gente vive qui sopra e non lo sa nemmeno. Ma le storie di questa città non sono tutte nei libri. Alcune… si respirano nei muri. Basta restare in silenzio e ascoltare.»

Ci guardiamo, tutti e tre. Nessuno dice niente per un istante. Poi l’oste ci osserva uno a uno e conclude:

«Voi… state cercando qualcosa, vero? Non so cosa sia ma qualunque cosa sia… la troverete. Basta che non vi dimentichiate da dove siete partiti.»

Poi sorride. «Ora mangiate. E ricordate: qui, chi sa ascoltare, trova più risposte che domande.»

Qui, chi sa ascoltare, trova più risposte che domande.

Malloreddus alla campidanese (foto Dall-E)

Mattino e Parole di Sardegna

La notte è passata irrequieta. Veronika si è girata e rigirata tra le lenzuola più volte, mormorando parole a metà in un sonno agitato e Skippy, accoccolata accanto a lei, si muoveva a scatti come se stesse inseguendo qualcosa in sogno. A un certo punto si è alzata, ha camminato per la stanza sbuffando e poi si è riaccomodata al mio fianco, posandomi la testa sul braccio come se volesse dirmi che era stanca persino di dormire.

Io? Ho chiuso occhio a tratti. Di sicuro non abbastanza. Ho sonno, penso mentre entriamo in una piccola caffetteria appena fuori dal centro, scelta a caso seguendo l’aroma che usciva dalla porta semiaperta. Dentro ci sono solo un paio di clienti abituali e una barista con lo sguardo sveglio di chi ha già vissuto una giornata intera prima delle otto del mattino. Ci avviciniamo al bancone e lei ci scruta con un sorriso complice.

«Due cappuccini?» chiede.

«Per loro» rispondo indicando Veronika e Skippy. «Per me… due caffè americani. L’uno dietro l’altro. Nottata lunga.»

«Uhm…» la barista ci osserva. «Notte lunga o notte pensante?»

Veronika sorride. «Entrambe.»

La donna annuisce senza aggiungere altro. Prepara con calma, in silenzio. Quando ci serve le tazze, appoggia anche un piattino con delle seada tagliata a metà. «Sono avanzata da ieri ma hanno dormito meglio di voi, sicuro.»

Ci accomodiamo a un tavolino vicino alla vetrina. Fuori la città si sta svegliando ma non ha fretta. La luce è limpida, con quel tono gentile che solo certe mattine mediterranee riescono ad avere. Skippy, ancora un po’ frastornata dal sogno notturno, si arrampica sulla sedia accanto a Veronika, si sistema composta e afferra il cucchiaino con aria studiata. Non dice nulla ma osserva il mondo passare come se stesse aspettando che qualcosa si sveli.

Dopo qualche minuto, la barista si avvicina di nuovo, appoggiando una zuccheriera con calma. «Voi non siete di qui. Ma non siete nemmeno turisti. Si vede da come vi muovete.»

«L’ha detto anche l’oste ieri sera» commento, incuriosito.

Lei sorride. «Noi sardi lo capiamo. Abbiamo vissuto per secoli tra chi arrivava e chi partiva. E chi resta, impara a leggere gli occhi.»

Veronika si sporge un po’ in avanti. «E cosa vede nei nostri?»

«Vedo gente in viaggio ma non solo per vedere cose nuove. State cercando qualcosa, anche se magari ancora non sapete cosa.»

Ci fermiamo un attimo. È la seconda volta in meno di dodici ore che qualcuno ci legge dentro così, senza bisogno di sapere nulla.

La barista si siede accanto a noi, poggiando il gomito sul tavolo. «La Sardegna è strana» dice. «È piena di verità che non vengono raccontate e di storie che la gente ha paura di dire. Abbiamo paesi che esistono da tremila anni e nessuno sa cosa c’è sotto le loro fondamenta. Gente che parla lingue antiche e non lo sa. Territori che sembrano deserti ma nascondono più vita di una metropoli.»

Poi si ferma, prende una bustina di zucchero e la fa ruotare tra le dita. «Qui ogni verità è nascosta dentro il silenzio. Ma non è un silenzio vuoto. È un silenzio che parla. Solo che bisogna restare abbastanza fermi da sentirlo.»

Veronika annuisce, colpita. Skippy, come sempre, sembra capire. Io finisco il secondo caffè con un sospiro più lungo del previsto.

«Grazie» dico alla fine, mentre ci alziamo. «Per il caffè. E per tutto il resto.»

«Buona fortuna, viaggiatori» risponde lei. «Ma ricordate: se state cercando qualcosa che non si vede è perché non vuole farsi trovare. E se un giorno lo farà… vi chiederà di cambiare qualcosa dentro di voi.»

Qui ogni verità è nascosta dentro il silenzio. Ma non è un silenzio vuoto. È un silenzio che parla.

Cagliari (foto  viaggi.corriere.it)

Nora

Il viaggio da Cagliari a Nora scorre in silenzio. Sto ancora cercando di far girare a pieno regime il cervello, avvolto nella stanchezza di una notte insonne. La strada segue la costa, il mare si allunga alla nostra sinistra come un nastro d’argento frastagliato di luce. Il vento trasporta l’odore del sale e della macchia mediterranea, un profumo che sa di tempo e di storie sospese.

Arrivati al Centro di documentazione archeologica di Nora, il cortile è deserto. Il piccolo edificio dalle pareti chiare sembra quasi assopito sotto il sole ma, dentro, il suono delle voci e il rimbombo leggero dei passi ci accolgono con il respiro di un luogo vissuto.

Ci avviciniamo alla reception. Una donna anziana, con i capelli corti e ordinati, ci osserva con aria pratica da dietro il bancone. È una di quelle persone che ha visto passare centinaia di visitatori e che sa distinguere con un’occhiata chi è davvero interessato e chi è solo di passaggio.

Veronika si schiarisce la voce. «Buongiorno, cercavamo il professor Lissia.»

Un attimo di esitazione. La donna stringe le labbra, lo sguardo si fa più attento. «Lissia?» ripete, come se il nome le suonasse familiare ma al tempo stesso fuori posto.

«Sì» intervengo. «Ci ha mandato la direttrice del museo di Cabras. Dobbiamo parlargli di una ricerca.»

La donna sospira piano e si sistema gli occhiali. «Ah… il professore. Sì, certo. È in pensione da un po’ ma continua a venire sempre qui. Ora che ci penso… è qualche giorno che non lo vedo.»

Si volta verso un collega poco distante, un uomo robusto, sulla cinquantina, con una camicia a quadri e i baffi folti. «Efisio, hai visto per caso il professore in questi giorni?»

Lui si ferma un attimo, ci guarda e poi scuote lentamente la testa, senza dire una parola.

Veronika inclina la testa. «Sa quando torna? O dove possiamo trovarlo?»

La donna si irrigidisce appena, poi risponde con calma: «Non lo so. Di solito è abbastanza metodico, sì, ma non ci ha mai detto se e quando sarebbe venuto.»

Il cuore mi scivola in gola. Sento Veronika trattenere il fiato accanto a me. Skippy, seduta sulla mia spalla destra, solleva le orecchie e osserva la donna con attenzione.

«Non avete provato a cercarlo?» insiste Veronika, la voce tesa.

La donna si irrigidisce visibilmente. «No» risponde con un tono che questa volta ha una sfumatura secca. «Come le ho detto è in pensione. Non lavora più qui. Non è tenuto a dirci dove va e noi non siamo tenuti a saperlo.» Fa una breve pausa. «Magari ha solo deciso di prendersi qualche giorno. Non sarebbe la prima volta.»

Il silenzio che cala subito dopo non è di quelli pieni di preoccupazione. È un silenzio che pesa per un altro motivo, come quando si nomina una persona che ha lasciato una traccia troppo lunga nel posto sbagliato.

Veronika stringe le mani a pugno. Il pensiero è chiaro: e se fosse successo qualcosa? E se fossimo arrivati troppo tardi?

Non diciamo nulla. Solo un attimo di vuoto. Usciamo nel piazzale, il sole ci investe in pieno ma non scalda. Veronika estrae il telefono con un gesto rapido e seleziona il numero di Gavina.

Mentre aspettiamo che risponda sento la tensione crescere dentro di me. Qualunque fosse la traccia che stiamo seguendo… qualcuno o qualcosa, sembra volerla cancellare.

Qualcuno o qualcosa, sembra volerla cancellare.

Parco Archeologico di Nora (foto lastatalenews.unimi.it)

Attesa a Pula

Veronika cammina avanti e indietro nel piazzale assolato, con il telefono all’orecchio e lo sguardo basso. La voce di Gavina, dall’altra parte, è ferma ma prudente. Le parole arrivano a tratti: “Non ne so molto… lasciami fare un paio di chiamate… vi faccio sapere.” Poi il silenzio.

Quando Veronika chiude la chiamata ha lo sguardo teso. «Ha detto che proverà a informarsi, che ci richiamerà appena ha notizie certe.»

Annuisco, cercando di alleggerire la tensione. «Allora perché non facciamo due passi? Magari scendiamo fino a Pula. Ci sediamo, beviamo qualcosa… io ho ancora bisogno di caffeina. E magari anche di pensieri meno pesanti.»

Veronika annuisce. Skippy fa un piccolo salto giù dalla mia spalla e ci segue camminando al nostro fianco, con la coda che si muove piano, quasi in sintonia col nostro stato d’animo.

Pula ci accoglie con il suo ritmo lento e le strade ordinate, costeggiate da basse costruzioni color pastello. Sembra un paese dove il tempo si è fermato un attimo prima di diventare fretta. Ci fermiamo in una piazza tranquilla, scegliamo un tavolino all’ombra di un ficus e ordiniamo due caffè e un succo di frutta per Skippy, che si siede composta con le zampe incrociate.

Mentre aspetto il mio caffè, lo sguardo mi cade su un piccolo pannello turistico accanto alla fontana della piazza. Mi alzo, incuriosito, e leggo: “Secondo alcuni studi sotto l’attuale centro abitato di Pula si troverebbero ancora i resti sommersi di un’antica necropoli punica non ancora del tutto esplorata.” Alzo lo sguardo verso la cittadina ordinata e silenziosa e mi viene da pensare: quanti segreti possono restare nascosti semplicemente sotto le scarpe di chi non sa che ci sta camminando sopra?

Torno al tavolo. Il caffè è arrivato, lo sorseggio lentamente ma il gusto non ha il tempo di lasciare traccia.

Il telefono di Veronika vibra sul tavolo. Gavina.

Veronika risponde subito con una voce tesa. Dall’altra parte la voce di Gavina si è fatta più calma. Finalmente una risposta. «L’hanno trovato. Il professor Lissia è all’ospedale di Cagliari. È stato male ma ora sta meglio. È vigile, lucido. La direttrice gli ha parlato di voi. Vi sta aspettando.»

Veronika mi guarda, stavolta con un’ombra di sollievo. Skippy fa un piccolo battito di mani silenzioso, poi si rimette seria come se capisse che non è ancora il momento di festeggiare.

Non diciamo nulla per qualche secondo. Qualcosa si è sbloccato. Non abbiamo ancora capito dove stiamo andando… ma almeno non siamo più fermi.

Bevo l’ultimo sorso di caffè. È diventato freddo ma in questo momento va bene anche così.

Quanti segreti possono restare nascosti semplicemente sotto le scarpe di chi non sa che ci sta camminando sopra?

Pula (foto pulasardegna.it)

L’incontro con il professore

L’ospedale di Cagliari ha quell’odore che mescola disinfettante e attesa. Cerchiamo il reparto indicato da Gavina e all’ingresso chiediamo della stanza del professor Lissia. Un’infermiera ci accompagna lungo un corridoio silenzioso, dove la luce entra obliqua dalle finestre, accarezzando i pavimenti come a rallentare ogni passo. Camminiamo in silenzio. Veronika tiene Skippy stretta a sé, come se temesse che qualcosa potesse dissolversi al primo rumore.

«Pochi minuti» ci dice l’infermiera prima di lasciarci davanti alla porta.

La stanza è semplice, con le pareti chiare e un’unica finestra aperta sulla luce del tardo pomeriggio. Il professor Lissia è seduto con la schiena leggermente sollevata. Magro, il volto scavato dal tempo e dalla malattia ma gli occhi… gli occhi sono vigili, profondi, quasi brillanti.

«Allora… siete voi» mormora e nella voce c’è più ironia che debolezza.

«Buongiorno, Professore» risponde Veronika. «E’ un piacere conoscerla di persona. Ci manda… la direttrice del museo di Cabras. Ci hanno detto che poteva aiutarci.»

Lissia chiude per un istante gli occhi, come se stesse cercando un punto da cui iniziare. Poi li riapre e ci guarda, uno a uno. «Ho sperato per anni che qualcuno si facesse avanti. Che qualcuno portasse… un tassello, un frammento. Anche solo una nuova domanda. Ma il silenzio è durato troppo a lungo.»

Si interrompe, il respiro lento ma stabile. «I Giganti… erano veri. Non simboli, non statue rituali. Veri. Erano parte di qualcosa che oggi abbiamo paura perfino di immaginare. L’ho sempre saputo ma dire una cosa simile ha un costo. Un prezzo che si paga con l’emarginazione, con le porte che si chiudono… con le carriere che si spengono. Io non sono mai riuscito, mio malgrado, a dimostrarlo con la prova finale.»

Non lo interrompiamo. Capiamo entrambi che ogni parola ha un peso.

«Ampsicora…» dice poi, lasciando il nome nell’aria come se stesse evocando un fantasma. «Non è morto dove dicono. Non si è tolto la vita. Ne sono convinto da decenni. Aveva una rete… nascosta, ramificata, determinata. Un ordine segreto e non parlo di leggende o folklore: parlo di nomi, lettere, simboli. Nella mia carriera ho trovato più volte frammenti che sembravano fuori contesto. Frasi cifrate, mappe incomplete, nomi antichi celati dietro parole nuove. Segni che raccontavano di una fuga… e di un sapere che non doveva essere perduto.»

Abbassa la voce, ci fa cenno di avvicinarci. «Quando sono stati sconfitti, per non far cadere questo sapere nelle mani romane che lo avrebbero sicuramente distrutto lo hanno portato lontano. In Tunisia. Non so dove esattamente, né chi li abbia protetti dopo ma c’è chi non ha mai voluto che questa storia venisse alla luce. Non si può dire chi… ma erano in molti. E molto potenti. Non solo qui, non solo in Italia. Persone con voce nelle accademie, nei fondi di ricerca, nelle pubblicazioni. Gente che sorveglia e cancella.»

Si ferma un istante, il respiro più affannoso. Poi prosegue, più piano. «Una verità sui Giganti, se davvero confermata… sconvolgerebbe tutto. La storia, la fede, le fondamenta di ciò in cui crediamo. Ci sono forze che da secoli impediscono che emerga. Non posso fare nomi ma… non servono. Voi avete già capito.»

Fa una pausa, poi aggiunge, con un filo di voce: «Una volta ci sono arrivato vicino. Forse troppo. Avevo in mano qualcosa che avrebbe potuto cambiare tutto. Ma non ero pronto o, forse, ero troppo legato a tutto ciò che avevo: la cattedra, i miei studenti, mia moglie…»

Guarda il soffitto per un istante, poi torna su di noi. «Non lo dico con vergogna. Scelsi la vita. Scelsi di restare, di proteggere quello che amavo. Ma a volte mi chiedo cosa sarebbe successo se avessi avuto più coraggio.»

«Io ho solo trovato tracce. Il mio lavoro… è stato un inseguimento. Sempre a metà. Sempre ai margini di qualcosa che si nascondeva appena oltre la carta. E ogni volta che mi avvicinavo… bastoni tra le ruote. Tagli ai fondi. Minacce velate. Colleghi che si allontanavano. Ma voi… voi siete liberi. Non siete legati a istituzioni, né appesi ai contratti. Voi potete arrivare dove io non sono mai riuscito.»

Poi ci fissa con intensità. «Ora… io non ho più niente da perdere ma non ho nemmeno più le forze per investigare. Voi sì. Voi avete ancora una strada davanti e questa strada, se la percorrete fino in fondo… non sarà facile, sappiatelo.»

Veronika si stringe a me. Skippy si avvicina al letto e appoggia una zampa sul lenzuolo, in silenzio.

Il professore accenna un sorriso stanco. «In Tunisia… cercate un uomo che si chiamava Adnen. Era un archeologo, un uomo onesto. Aveva un piccolo negozio di antiquariato nel souk della Medina di Tunisi, il cuore antico della città. Ci scrivevamo spesso. Non so se sia ancora vivo. Ma aveva un figlio… più giovane, attento. Mi disse che avrebbe continuato il lavoro del padre. Forse lui… potrebbe aiutarvi.»

Un colpo di tosse gli interrompe la voce. L’infermiera si affaccia alla porta e ci fa cenno che il tempo è finito. Lissia solleva una mano, solo un attimo. «Aspetti…» dice.

Ci guarda ancora. Stavolta con un’ombra più fragile ma anche più intensa. Poi fa cenno a Skippy di avvicinarsi. Lei si avvicina piano, in silenzio.

Il professore le prende la zampa tra le dita, con un gesto lento. Poi si sfila dal dito un anello antico, in bronzo, decorato da un piccolo motivo geometrico incassato, simile a quelli visti nei nuraghi. Lo porge con delicatezza. «Se servirà per farvi riconoscere… mostrate questo. Adnen ne aveva uno identico. Era un riconoscimento per un lavoro che facemmo insieme, anni fa. Una piccola grande soddisfazione. So che lui lo indossava sempre. Se lo vedrà, capirà che vi mando realmente io.»

Skippy prende l’anello con entrambe le zampette, senza dire nulla, ma i suoi occhi si fanno lucidi.

«Io non ne ho più bisogno ormai» aggiunge Lissia, con voce più bassa. «Ma forse… voi sì.»

Veronika si avvicina e gli stringe la mano con delicatezza. «Grazie, Professore. Faremo il possibile. E se scopriremo qualcosa… glielo faremo sapere.»

Lui annuisce, con un filo di sorriso. «Portatemi almeno la fine di questa storia. Perché possa scriverla… anche solo nella mente.»

Usciamo in silenzio mentre la porta si chiude alle nostre spalle. E per la prima volta da giorni non sappiamo più se siamo noi a seguire le tracce… o se sono le tracce a seguire noi.

Scelsi la vita ma a volte mi chiedo cosa sarebbe successo se avessi avuto più coraggio.

Professor Lissia (foto leonardo.ai)

Ritorno in Albergo

Usciamo dall’ospedale ancora scossi. Veronika accende il telefono, seleziona l’ultimo numero: quello di Gavina.

Risponde subito.

«Gavina… abbiamo parlato con Lissia. Ci ha confermato che l’Ordine segreto esiste, che Ampsicora non è morto dove dicono. E’ convinto che siano fuggiti in Tunisia portando con loro qualcosa di importante… sapere, forse reperti. Ci ha dato un contatto: un uomo che lavorava nel souk della medina di Tunisi. Un archeologo. Siamo pronti a partire. Anche domani.»

Dall’altra parte il silenzio si fa lungo. Poi Gavina sospira.

«Veronika… io vi voglio bene, lo sai. Ma vi state muovendo in un terreno pericoloso. E non parlo solo di archeologia. La Tunisia non è la Sardegna. Lì ci sono altri codici, altre regole. E questa storia… non è finita. È viva. A volte mi chiedo se sia davvero il caso di andare avanti.»

Solo adesso la sua voce tradisce una cautela, quasi un timore. Come se solo nel sentirci parlare così apertamente, così vicini al cuore del mistero, avesse compreso la portata reale di ciò che stiamo affrontando.

«Ma se ci fermiamo adesso che senso avrebbe tutto quello che abbiamo fatto finora?» risponde Veronika, con la voce ferma. «Ci siamo spinti fin qui. Siamo arrivati a lui. Ora abbiamo una direzione.»

Ancora silenzio. Poi Gavina, con voce bassa: «Solo… fate attenzione.»

La chiamata si interrompe.

Veronika resta qualche secondo a fissare lo schermo, poi si gira verso di me. «Io ci voglio andare, Cami. Anche da sola se serve.»

«E se stessimo facendo un errore?» dico piano, quasi senza volerlo. «E se questa storia non fosse solo archeologia ma qualcosa che ancora oggi qualcuno vuole tenere nascosto?»

Veronika non risponde subito. Si siede sul bordo del letto, con lo sguardo basso. «Forse è così. Ma se è ancora viva… allora vuol dire che conta.»

Mi guarda. Gli occhi non hanno esitazione. «Io non voglio avere rimpianti, Cami. Se anche ci fermassimo adesso… non potrei mai più dormire tranquilla.»

La sua voce non è accesa, non è rabbiosa. È solo vera.

«E tu?» mi chiede. «Tu davvero vuoi tornare indietro adesso?»

La guardo. È stanca, lo siamo entrambi. Ma i suoi occhi brillano di una determinazione che non vacilla.

Rientriamo in albergo senza dire una parola. La strada è la stessa dell’andata ma ora ha perso i contorni. Le luci dei lampioni scorrono come scie stanche sui vetri e tutto sembra sospeso, rallentato. In camera, appoggiamo le nostre cose senza pensarci troppo. Skippy si rannicchia in un angolo della poltroncina, in silenzio. Sembra stanca, triste. Forse per lei è stato difficile vedere il professore in quelle condizioni… sapere che la sua vita gli sta scivolando via.

Mi stendo sul letto, le mani intrecciate dietro la testa, guardo il soffitto. Veronika si avvicina piano. Si infila sotto le coperte e mi abbraccia, poggia la testa sul mio petto. Skippy si trascina sul letto e si accoccola accanto a me, dall’altro lato, con un sospiro felino. Cercano conforto. Protezione.

Provo a darne. Anche se dentro di me non ne ho più di loro.

«La Tunisia fa parte del mondo, no? E noi stiamo facendo il giro del mondo.»

Veronika mi stringe. Un grazie silenzioso.

Le luci si spengono. Il silenzio torna.

Io resto sveglio. Con gli occhi aperti nel buio e la mente piena di domande.

E se questa traccia non fosse solo una traccia? Se ci stesse portando in qualcosa che non possiamo controllare? Che non posso controllare? Qualcosa che le possa mettere in pericolo?

Non lo so.

So solo che domani voleremo verso sud.

E che, per la prima volta da quando siamo partiti, non sono sicuro di voler conoscere la verità.

Non sono sicuro di voler conoscere la verità.

Anello del Professor Lissia (foto Dall-E)

14 + Diario di Volo Oristano Cagliari

Canti e Balli

Sono circa le 17 quando entriamo nella zona dei voli privati dell’aeroporto di Oristano. Il giro in città è stato piacevole e sono contento di aver convinto Veronika a non puntare dritto su Cagliari. Seguiremo la costa sud-occidentale allungando un po’ il volo per sorvolare i tratti più selvaggi della Sardegna.

Mentre sistemo i controlli a bordo sento, dietro di me, un ritmo di battiti irregolari. Mi volto. Veronika sta canticchiando una canzone francese che non conosco, mentre Skippy cerca di tenere il tempo tamburellando con le zampette.

Poi, all’improvviso, Skippy si gira verso di me e comincia a ballare in equilibrio precario, con le braccia allargate come se fosse pronta a spiccare il volo.

«Dai Cami, cantala anche tu!» dice Veronika, voltandosi con un sorriso che non ammette repliche.

«Mmm… meglio di no» rispondo mentre continuo a concentrarmi sul tablet di bordo dove sto impostando il piano di volo.

Skippy si blocca, mi fissa, poi inclina la testa da un lato con espressione esasperata. E insieme, all’unisono, partono con un fragoroso: «Booooooh!»

Scoppio a ridere. L’intesa tra loro è tornata quella di sempre e io, anche stonato, mi sento di nuovo parte di un trio felice e festoso, in un viaggio attorno al mondo.

La leggerezza non è una distrazione ma il modo migliore per iniziare una nuova rotta.

in decollo da Oristano (foto flight simulator 2024)

Saluti dall’alto

Poco dopo il decollo sorvoliamo Cabras per un passaggio simbolico sopra il Museo dei Giganti. Non possiamo vederle ma Veronika alza la mano e sorride: «Ciao Gavina… e ciao anche a lei direttrice!»

Skippy fa un cenno con la zampa, poi torna a fissare il paesaggio dal finestrino, con le orecchie dritte e il muso appoggiato al vetro. Lì sotto la terra è piena di storie che solo pochi sanno leggere.

Veronika apre lo zaino e tira fuori la guida sulla Sardegna e la macchina fotografica. Il movimento è fluido, istintivo. In quel gesto c’è tutto quello che siamo: lei che legge e racconta, io che volo e ascolto, Skippy che osserva come se tutto fosse un gioco.

«Tharros era un’antica città fenicia, poi cartaginese e infine romana» inizia, senza bisogno che io le chieda nulla. «Fondata probabilmente nell’VIII secolo avanti Cristo, proprio dove il promontorio si allunga nel mare… guarda là!»

Indica con la mano sinistra mentre con la destra tiene aperta la guida. Dal finestrino si vedono i resti delle strade lastricate, le terme, qualche colonna sparsa. Il promontorio di Capo San Marco le protegge come un muro naturale che ha retto a tutto tranne che al tempo.

«E vedi quella laguna? O stagno… non lo so, sembra quasi un lago. Lì dietro, nascosto tra le colline, c’è il sito di Mont’e Prama. Le statue dei giganti, i frammenti, tutto è venuto fuori da lì. Anni fa. Sotto terra. Quasi per caso.»

Osservo l’area che mi ha indicato, poi osservo lei: «Ma lì non c’è nessun monte… sembra una pianura. Perché si chiama Mont’e Prama allora?»

Veronika sorride, sfoglia qualche pagina della guida e risponde:
«In effetti non è un monte. “Prama” pare venga da pramma, che in sardo antico significa “palude” o “zona bassa e fangosa”. E il “mont’e” sarebbe più un modo di dire che una vera elevazione. Insomma, più che Mont’e Prama dovrebbero chiamarlo Collinetta del Fango.»

Poi mi guarda con un’espressione teatrale: «Ma vuoi mettere che suona meglio così che i Giganti della Collinetta del Fango?!»

Scoppiamo a ridere.

A volte, dietro i nomi più solenni, si nascondono le verità più semplici.

Capo San Marco visto dal Cessna (foto flight simulator 2024)

Ricapitolando

Lasciamo alle spalle il promontorio di Tharros e ci spostiamo lungo la costa verso Capo Frasca, dall’altra parte del golfo di Oristano. Il mare è calmo, tagliato solo da qualche scia leggera che si dissolve in fretta. La costa si allunga in curve morbide, il sole che comincia a calare alla nostra destra tinge tutto con riflessi dorati e arancio.

Veronika sfoglia la guida un’ultima volta, poi la richiude e si gira verso di me con quell’espressione da “organizzatrice di pensieri seriale”.

«Oook, ricapitoliamo un po’ di cose, così da avere la mente più lucida quando parleremo con questo professore.»

Mi guarda sollevando un sopracciglio. Alzo la mano dalla cloche e faccio un piccolo gesto che vuol dire “vai”. Skippy, che capisce l’atmosfera, balza avanti e si siede in braccio a Veronika, pronta a partecipare attivamente alla ricostruzione.

«Bene» comincia Veronika. «Grazie alle doti investigative di Skippy a Bonifacio è saltato fuori quel pezzo di stoffa con un simbolo inciso.»

«Bisso marino» le ricordo, senza staccare gli occhi dall’orizzonte. «Il che lo rende già di per sé qualcosa di importante, visto che viene creato, incredibilmente, da un mollusco.»

«Già. Un pezzo di bisso marino con alcune incisioni» ripete Veronika, puntandomi contro l’indice come per avvalorare la mia precisazione. «Non so perché mi ha catturata subito e così ho iniziato a fare ricerche che… beh, mi hanno portato a pensare ai Giganti della Collinetta di Fango.»

Scoppiamo a ridere nuovamente entrambi, mentre Skippy ci guarda confusa, probabilmente offesa per l’uso poco epico del nome.

In questo momento arriviamo sopra Capo Frasca e noto qualcosa a terra.

«Guarda lì… com’è che la sabbia si spinge così tanto verso l’interno? Sembra che salga quasi fino alle case.»

Veronika si rimette subito al lavoro. Sfoglia rapida la guida, Skippy l’aiuta con una zampa tenendole ferma la pagina. «È la spiaggia di Torre dei Corsari» mi dice. «Quel paesino che si vede là in alto che la sovrasta.»

Poi alza gli occhi, quasi divertita: «Quella sabbia si muove. Pare che, con il vento giusto, riesca a salire fin sopra la strada. È uno dei pochi posti dove puoi parcheggiare e trovare la macchina mezza insabbiata al ritorno… anche se era ferma.»

«Un parcheggio volante, praticamente.»

Lei ride. «Sì, ma naturale. Una duna di venti metri che avanza piano piano, anno dopo anno. E nessuno riesce a fermarla davvero.»

A volte la sabbia avanza più in fretta delle certezze.

verso Capo Frasca (foto flight simulator 2024)

Buggerru

«Quindi eravamo al fatto che pensavi che il bisso e le sue incisioni fossero legate ai giganti» dico mentre sorvoliamo la costa in direzione di Capo Pecora con il mare che si apre ampio sotto di noi.

«Già» risponde lei, abbassando leggermente il tono. «Ti ho convinto a volare a Santa Teresa di Gallura per visitare il sito di Lu Brandali. C’era una foto sfocata che avevo trovato online… dove una roccia in questo luogo sembrava avere lo stesso simbolo.»

Mi giro un attimo a guardarla. Ha lo sguardo fisso sul tablet ma un velo di tristezza le attraversa gli occhi.

«Però… arrivati lì abbiamo scoperto che era solo un abbaglio. Il simbolo era diverso. Mi sono fatta confondere da una stupida foto sfocata.»

Le prendo la mano senza dire nulla per qualche istante. Poi, con tono leggero ma sincero:
«Succede. E comunque… non saremmo arrivati fin qui, in questa storia, se non fossimo partiti proprio da quel passo falso.»

Lei mi stringe la mano e sorride, in silenzio. Skippy l’abbraccia per darle ulteriore conforto.

Guardo giù. Un’altra spiaggia si allunga verso l’interno. Anche qui, come poco fa, la sabbia sale verso le colline come spinta da qualcosa che non si vede. Evidentemente, penso, in questa zona il vento ha sempre comandato la forma delle cose.

«Capo Pecora» dice Veronika, tornando a parlare. «È uno dei luoghi più selvaggi di tutta la costa ovest. Non c’è quasi niente qui: rocce, macchia, vento. Ma sotto, nella zona che chiamano Buggerru e Scivu, sono stati trovati resti di attività antichissime. Cunicoli, tracce nuragiche, persino voci di gallerie che scendono molto più in profondità del normale.»

A volte anche gli sbagli ci indicano la strada giusta.

Buggerru (foto flight simulator 2024)

Masua

Sorvoliamo una lunga distesa dorata che si perde verso l’entroterra. «bella questa spiaggia» dico mentre la osservo allungarsi sotto di noi come una striscia morbida tra mare e colline.

«Portixeddu» mi dice Veronika dopo aver controllato. «È lunga quasi due chilometri. Sabbia fine, niente stabilimenti. Solo vento e onde. Dice che era frequentata dai pescatori e dai minatori in cerca di silenzio.»

Alla fine della spiaggia appare un piccolo paese incastonato tra le montagne, come aggrappato ai pendii. Le case sono addossate l’una all’altra, incorniciate dal verde e dal blu del mare.

«È Buggerru», dice Veronika. «A inizio Novecento la chiamavano “la piccola Parigi” per via delle case eleganti costruite dai dirigenti della compagnia mineraria francese che operava qui. Ma era anche un luogo di lotte e di dolore. Proprio da qui, nel 1904, partì una delle prime manifestazioni operaie della Sardegna. La repressione fu durissima. Tre minatori furono uccisi.»

Pochi istanti dopo, più avanti sulla costa, compare un profilo che cattura subito lo sguardo: una parete di roccia forata, come scolpita da una mano umana. Ai suoi piedi, un piccolo promontorio con costruzioni che sembrano uscite da un’altra epoca.

«Lì è Masua» continua lei, indicando col dito. «E quella è la bocca di Porto Flavia. Una galleria scavata nella roccia per caricare i minerali direttamente sulle navi. Dietro quella parete c’è tutto un sistema di cunicoli e binari. Un capolavoro ingegneristico. E anche una delle immagini più iconiche della Sardegna dimenticata.»

Resto un momento in silenzio. “stupenda” esclamo. Poi più avanti indico un punto all’interno, un po’ più lontano dalla costa.

«Là dietro c’è Iglesias. Avevo pensato di includerla nella rotta ma era troppo fuori traiettoria. Dovevamo fare delle scelte.»

Veronika scuote la testa piano. «Non fa niente, te ne parlo io.»

Sfoglia qualche pagina e inizia a leggere: «Iglesias è una città antica, con una lunga storia legata alle miniere. Prima ancora, fu un centro fortificato nel periodo giudicale. Il suo nome viene da “Ecclesiae”, per via delle tantissime chiese presenti. Ce ne sono più di venti nel centro storico. E poi ci sono ancora i resti delle mura pisane, costruite nel Duecento. Pare che i Pisani la considerassero così importante da difenderla come una piccola roccaforte nel sud dell’isola.»

Chiude la guida e mi guarda. «Era una città di ricchezza e fatica. Di preghiera e di ferro. E anche se oggi è un po’ fuori dalle rotte turistiche ha ancora un’anima forte.»

Da qui in avanti, la costa si fa ancora più scoscesa. E qualcosa ci dice che il meglio deve ancora arrivare.

Alcuni luoghi resistono al tempo con la sola forza della memoria.

Porto Flavia (foto yepsea.com)

Tre Isole

Siamo in vista di Portoscuso e delle isole di San Pietro e Sant’Antioco. La luce del sole filtra tra le nuvole con quei raggi obliqui che sembrano accarezzare il paesaggio. Il mare sotto di noi è calmo, punteggiato da riflessi argentati. Le ombre delle nuvole scorrono leggere sulla superficie, come se stessero giocando a rincorrersi con l’orizzonte.

Veronika torna a ricordare. «Menomale che la guida di Lu Brandali ci ha parlato di Gavina.»

«Infatti» rispondo io, con un mezzo sorriso. «Se non avessimo incontrato di nuovo la guida, ora saremmo sul versante opposto dell’isola.»

Lei si volta, con un’espressione mista tra complicità e dispiacere. «Lo so che ti sarebbe piaciuto di più… ma questa avventura la volevo proprio tanto seguire.»

Skippy, senza esitazione, la indica con la zampa come a dire “ha ragione lei”. Ci scappa da ridere.

«Va bene così» le dico. «È stato divertente, piacevole… e poi, a me importa stare insieme. Viaggiare. E soprattutto vederci felici e affiatati come oggi.»

Veronika mi guarda per qualche secondo in silenzio, poi sorride. «Oh, quello dev’essere Portoscuso» dice indicando la costa.

«Qui c’era una delle tonnare più importanti del Mediterraneo» continua. «Fino a pochi decenni fa, la pesca del tonno qui era tutto. E il nome del paese viene da “porto oscuro”, perché un tempo era nascosto, protetto dalle rocce. Quasi invisibile dal mare.»

Poi indica a destra. «Quella è l’isola di San Pietro. A colonizzarla, nel Settecento, furono pescatori liguri provenienti da Tabarka, in Tunisia. Ancora oggi parlano un dialetto genovese: il tabarchino

«E lì davanti invece… Sant’Antioco. È collegata alla terraferma da un istmo. E pare sia uno dei luoghi abitati più antichi d’Italia. Fondata dai fenici, poi cartaginese, poi romana. E ancora oggi ci sono zone dove si parla il sardo più arcaico di tutta l’isola.»

Le isole ci vengono incontro, lente. Il sole le illumina a tratti e il volo, per un momento, sembra sospeso nel tempo.

Ci sono luoghi che non chiedono di essere spiegati. Basta sorvolarli per capirli.

Isola di Piana, l’isola dei Ratti e San Pietro (foto flight simulator 2024)

Carloforte

Sorvoliamo due piccoli lembi di terra appena emersi dal mare. Da qui sembrano scogli allungati ma Veronika riconosce subito il profilo sulla mappa di bordo.

«Sai che questo isolotto qui sotto si chiama… isola dei Ratti?» dice sorridendo, mentre indica il punto esatto. «Pare che il nome venga dal fatto che, per secoli, le barche lasciavano qui provviste e i ratti, quelli veri, si moltiplicavano in fretta. Per anni non è stato altro che uno scoglio infestato.»

Poi allarga il braccio verso destra. «Quella più grande invece è l’isola di Piana. Oggi è una proprietà privata ma un tempo era utilizzata per l’allevamento del tonno rosso. Qui si tenevano le tonnare fisse, legate a Carloforte, e tutta l’economia girava intorno al mare.»

«Un’intera isola privata. Che bello sarebbe averne una» commento

Mentre questo pensiero resta sospeso nell’aria ci avviciniamo a Carloforte, il centro principale dell’isola di San Pietro. Veronika sospira. «Questa città è un piccolo mondo a parte. Parla un dialetto ligure, cucina come in Tunisia e vive con il ritmo del mare.»

Poi torna al filo della nostra storia, come se il volo stesso glielo avesse appena ricordato. «Dicevamo che Gavina ci ha accompagnato a Cabras. Lì lavora ancora una sua vecchia collega, la direttrice del museo. Ci ha fatto vedere due reperti che pensa siano collegati a quello che stiamo cercando.»

«Uno dei due… interessante ma poco chiaro» aggiungo. «Una figura più alta delle altre tre. Potrebbe rappresentare un gigante o forse una persona, un’entità importante per quel gruppo.»

Il motore ronza tranquillo. Sotto di noi, l’isola scorre lenta. E qualcosa, tra le nuvole e il mare, ci spinge a continuare.

Ogni isola ha la sua voce. Basta volare bassi per sentirla.

Isola di Piana (foto flight simulator 2024)

Calasetta e Sant’Antioco

Sorvoliamo la punta settentrionale dell’isola di Sant’Antioco passando sopra Calasetta, un piccolo paese bianco affacciato sul mare. Le case sembrano scolpite nella luce, allineate come conchiglie e le strade disegnano un reticolo semplice tra i tetti bassi e le barche in porto.

«Calasetta fu fondata nel Settecento da coloni provenienti da Tabarka, come per Carloforte» racconta Veronika. «Ma qui parlano un tabarchino diverso, più influenzato dal sardo. È un paese di pescatori e di artisti, pieno di gente che sa costruire le reti con le mani e le storie con le parole.»

Poi guarda verso sud, oltre le colline. «Tutta questa parte dell’isola è piena di reperti nuragici. Tombe dei giganti, pozzi sacri. Alcuni sono ancora semi-sommersi dalla vegetazione. Pochi turisti ci vanno ma chi cerca davvero, trova.»

Ci avviciniamo lentamente alla cittadina di Sant’Antioco, adagiata sul lato orientale. Il centro è più grande, vivo, con strade che scendono verso il mare. Dal cielo si vedono le cupole delle chiese e i moli affacciati sulla laguna.

«Sai la cosa più assurda è che, sotto le case moderne, ci sono ancora interi tratti di necropoli scavate nella roccia. Qualcuno vive letteralmente sopra le tombe antiche.»

Poi torna al nostro filo ispirata da quella stratificazione di epoche.
«La seconda tavoletta invece era molto più interessante. A quanto abbiamo capito si tratta di un codice segreto. Qualcuno, in epoca più recente, ha provato a imitarlo, creando un linguaggio simile. E quel simbolo inciso sul bisso… potrebbe far parte proprio di quel sistema. La direttrice ha qualche ipotesi ma nulla di certo. Non è ancora stato decifrato davvero.»

Lo dice mentre sorvoliamo le saline di Sant’Antioco. Le vasche rettangolari si allungano come specchi, alcune bianche, altre rosate e la luce del tramonto le trasforma in un mosaico silenzioso.

Ci sono verità che affiorano lente, come isole nel sale.

Calasetta a Sant’Antioco (foto flight simulator 2024)

Oltre il Confine

Inizio a prendere quota per superare i rilievi che ci separano dalla costa meridionale. Il paesaggio cambia: le curve si stringono, le rocce si fanno più scure e il vento accarezza l’aereo con una leggerezza nuova. Davanti a noi, tra una piega del terreno e l’altra, noto strane geometrie sul suolo: rettangoli perfetti, strade sterrate, spiazzi che sembrano preparati per qualcosa che non ha a che fare con la natura.

«Che cos’è quella roba laggiù? Sembra… un campo di manovra?»

Veronika si sporge leggermente, osserva, poi annuisce. «Sì. È una zona militare. Uno dei principali poligoni italiani: Capo Teulada. Viene usato per esercitazioni, test, manovre. Lì dentro fanno di tutto: blindati, artiglieria, simulazioni navali. È un’area chiusa e da anni ci sono polemiche sulla sicurezza ambientale… ma nessuno ha mai raccontato davvero cosa succede lì.»

Skippy si appoggia al finestrino per poter osservare meglio tutti quei segni strani mai visti fino ad ora. Segni di cingoli, piccoli crateri d’esplosione. Skippy li osserva in silenzio. Forse pensa che non ne valga la pena. Non per questo paesaggio.

Sorvoliamo il confine visibile tra il verde naturale e la terra battuta dagli uomini e, appena dopo il crinale, il panorama si apre di colpo: la piana di Pula si distende come un tappeto che arriva fino al mare.

Veronika torna al nostro discorso, quasi come se avesse aspettato quel momento.
«La direttrice ci ha poi accennato ad altri dettagli su Ampsicora e sulla sua fuga. Dice che c’è chi sostiene sia morto ma lei è convinta che sia riuscito a scappare. Non sa dove… ma ci ha detto che potrebbe saperlo una persona molto informata che si trova proprio lì, a Nora

Tra segreti militari e memorie antiche ogni crinale può nascondere una risposta.

Segni dei cingoli a Capo Teulada (foto flight simulator 2024)

Atterraggio

Sorvoliamo la zona industriale di Sarroch, dove ciminiere e strutture metalliche si alternano a campi coltivati e nastri d’asfalto. La luce del tardo pomeriggio rende tutto meno ruvido, quasi cinematografico. Inizio ad abbassare la quota mentre ci dirigiamo verso Cagliari ormai vicina.

Una fila di pale eoliche si staglia contro il cielo, immobili per un attimo, come se ci stessero aspettando. Sotto di loro, enormi cumuli di sale, ordinati in file regolari. Li sorvoliamo con un leggero colpo d’ala, poi ci immettiamo nel circuito di discesa verso l’aeroporto.

Skippy salta con agilità sul sedile posteriore e si allaccia la cintura con il solito gesto goffo ma deciso. Veronika chiude la guida, scatta un’ultima foto dal finestrino e mette via anche la fotocamera, con un piccolo sospiro.

Mi allineo alla pista. Vento leggero, contatto morbido. Le ruote toccano terra e il paesaggio rallenta attorno a noi.

Spegniamo tutto ma non la tensione che resta sospesa nell’aria.

Domani ci aspetta Nora.
E con lei, forse, qualcuno che conosce la parte mancante di questa storia.
Quella che ancora non siamo riusciti a decifrare.

Non tutte le piste portano a un aeroporto. Alcune portano alle risposte che stai cercando.

Atterraggio a Cagliari (foto flight simulator 2024)

13 – Diario di Viaggio Oristano

Colazione Sarda

La pancia di Skippy continua a brontolare, un ritmo nuovo dopo il russare regolare del volo. Ora trotterella nervosa con il musetto all’insù, visibilmente affamata e decisa a farcelo notare: ha bisogno di energie per affrontare una giornata del genere.

Mentre siamo in viaggio verso il museo di Cabras, Gavina indica una piccola panetteria lungo la strada e ci propone di fermarci. Il profumo di grano e dolci fritti riempie l’aria come una promessa difficile da ignorare.

Gavina ci consiglia di provare le pàrdulas, piccole tortine di ricotta e scorza d’arancia dal profumo intenso, e Veronika, incuriosita, la segue senza esitazioni. Io mi lascio tentare da un pezzo di pan’e saba, un dolce scuro, umido e speziato a base di mosto cotto, perfetto per queste giornate di vento salmastro. Skippy, invece, si appropria con solennità di una mezza seada, una frittella ripiena di formaggio e ricoperta di miele caldo, che le cola giù dalla zampetta con una lentezza quasi cerimoniale. La annusa con rispetto, la tocca delicatamente con le zampette, poi dà un primo morso e si ferma, immobile, come se il sapore meritasse qualche secondo di silenzio. E non ha tutti i torti.

Riprendiamo il tragitto verso Cabras. La strada taglia i campi e le nuvole grigie corrono basse sopra di noi. Gavina abbassa la voce, con gli occhi fissi sull’orizzonte. «Non sono certa che vorrà mostrarvi quei reperti» dice, quasi parlando a sé stessa.

L’ho sospettato sin da quando ho incrociato il suo sguardo all’aeroporto. Ora quel dubbio prende forma ma lo tengo per me. Se c’è qualcosa che ho imparato da quando siamo arrivati in Sardegna è che certi silenzi sono più utili delle rassicurazioni.

Veronika, seduta accanto a Gavina sul sedile posteriore, si sporge appena in avanti. «E se dovesse rifiutare? Se fosse un altro vicolo cieco?»

Gavina non risponde subito. Poi volta leggermente il capo, con un sorriso sottile e fermo. «Penso di sapere come parlarle. In fondo anche lei ha sempre avuto una fame latente di risposte. Più di quanto lasci credere.»

Arriviamo al museo di Cabras mentre il vento comincia ad alzarsi, sollevando piccole spirali di polvere e odore di salsedine. Skippy salta giù dal sedile e si stiracchia. Sembra tornata alla sua solita energia: ora è pronta a seguire quel filo invisibile che ci ha portati fin qui.

Alcuni oggetti non chiedono di essere spiegati. Vogliono solo essere visti da chi è pronto.

Pan’e Saba (foto e ricetta Dall-E)

Museo di Cabras

Appena scendiamo dall’auto inizia a piovigginare. Gocce leggere, quasi timide, che si posano sui vetri del museo come dita curiose. Skippy ci segue a passo svelto fino all’ingresso, annusando l’aria come se il profumo della pioggia le raccontasse qualcosa.

Il Museo ci accoglie con un silenzio composto. Ha aperto le porte da poco e sembra svegliarsi insieme a noi. Le voci basse dello staff si mescolano al rumore lieve della carta sfogliata nei cataloghi, l’odore della pietra e del legno cerato si confonde con quello dell’umidità appena entrata dall’esterno.

Alla reception una ragazza sui trent’anni ci saluta con gentilezza ma senza particolare entusiasmo. Gavina le chiede della direttrice con tono tranquillo. «Arriverà tra poco, accomodatevi pure nella sala principale» risponde la ragazza, indicando una porta alla nostra sinistra.

Così ci addentriamo tra le prime teche, ancora soli, mentre fuori le nuvole si addensano un po’ di più.

«Quando il museo fu aperto» inizia a dire Gavina con voce bassa ma piena «questa urna qui fece discutere non poco.»

Ci fermiamo davanti a una vetrina: al centro, un’urna funeraria in pietra con incisioni geometriche e un volto appena accennato. Antica, scolpita male, si direbbe… ma c’è qualcosa di inquieto in quelle linee.

«Alcuni dicevano che era una falsificazione. Troppo diversa da tutto il resto. Troppo “moderna”. Ma io mi sono sempre chiesta se fosse il contrario… se non fosse antichissima, al punto da non avere più niente in comune nemmeno con ciò che pensiamo di sapere del passato.»

Ci scambiamo uno sguardo breve. Veronika sembra incuriosita. Skippy si accoccola davanti alla teca e fissa il volto dell’urna come se volesse capirne l’umore.

Sto per fare una domanda quando sentiamo la voce della ragazza che ci aveva accolti. «Signora… ci sono delle persone che chiedono di lei.»

Gavina si gira. I suoi occhi brillano di un riflesso che non le vedevamo da tempo. Tra sguardi antichi e silenzi da decifrare.

La direttrice arriva qualche minuto dopo, avvolta in un impermeabile grigio scuro, i capelli raccolti in una coda morbida ancora umida di pioggia. Avrà poco meno di cinquant’anni, forse una ventina in meno di Gavina ma nei suoi occhi c’è lo stesso sguardo deciso di chi è cresciuto su questa terra, tra vento e pietra. Non è bella, almeno non nel senso canonico del termine, ma ha un volto sincero, un portamento gentile e un modo di guardare che non sfugge mai.

Appena la vede Gavina le va incontro con un passo incerto ma sorridente. Si ferma a pochi centimetri da lei e, per un attimo, le due donne si osservano, come a misurare il tempo che è passato. Poi, senza dire nulla, si abbracciano. Un abbraccio lungo, vero, che affonda nel passato. La direttrice chiude gli occhi per un istante, stringendola con forza.

«Quanti anni, Gavina…» sussurra, lasciando uscire le parole come un soffio.

«Troppi» risponde lei, mentre si staccano lentamente. Poi si volta verso di noi con naturalezza. «Ti presento due amici: Camillo e Veronika. Viaggiano per terra e per cielo… e oggi hanno bisogno di un po’ della tua luce.»

La direttrice annuisce cortese ma non sorride più. I suoi occhi passano su di noi con attenzione e il suo sguardo si fa più misurato, quasi protettivo. Intuisce qualcosa. Gavina lo capisce e cerca di essere delicata.

«In realtà… volevo chiederti se possiamo vedere alcuni dei manufatti che mi avevi menzionato anni fa. Quelli che…»

La donna la interrompe subito alzando appena la mano. Lo fa senza durezza ma con decisione. «Vieni. Meglio parlarne in privato.»

Si allontanano verso una saletta con pareti vetrate, lasciandoci soli tra le teche e i riflessi opachi del mattino. Da dove siamo non sentiamo nulla ma vediamo abbastanza. La direttrice gesticola, sembra agitata, a tratti infastidita. Gavina invece resta calma, in piedi, come se ogni parola fosse già stata pesata prima ancora di essere pronunciata.

«Non ci farà vedere nulla» borbotta Veronika, le braccia incrociate e lo sguardo fisso. «Ti avrò fatto perdere ancora tempo.»

«O forse sta solo cercando di capire se può fidarsi» rispondo io, lasciando il dubbio in sospeso.

Skippy emette un piccolo verso, poi si sistema contro la mia gamba e mi guarda con quell’espressione da piccola sentinella che conosce il mondo meglio di quanto sembri.

E poi succede.

Le vediamo avvicinarsi. Prima un ultimo scambio a bassa voce, poi un abbraccio stretto, più forte, più carico. Quando si staccano Gavina si volta verso di noi e sorride. È un sorriso calmo, sollevato, quasi complice. Ci fa cenno con la mano: possiamo andare.

La direttrice ci passa accanto senza dire nulla. Il suo volto è serio ma non freddo. Conduce il passo senza voltarsi lungo un corridoio laterale e ci invita a seguirla con un gesto discreto. Mentre entriamo in quella parte del museo dove i visitatori non arrivano mai, l’aria cambia.
Come se stessimo attraversando una soglia invisibile.

Ci sono incontri che non servono a ricordare il passato ma a riaccenderlo.

Urna misteriosa (foto Dall-E)

L’attesa dentro la pietra

La luce si fa più discreta e l’aria odora di umidità trattenuta da anni. Entriamo in una stanza d’archivio, ordinata ma vissuta, con scaffali metallici e casse impilate contro il muro. Una di queste, rivestita di legno chiaro, giace quasi nascosta su uno scaffale defilato.
La donna ci si avvicina e resta un attimo ferma, come se dovesse prendere fiato. La solleva, la posa su un tavolo al centro alla stanza, la osserva… Gavina si fa avanti con una lentezza quasi sacra, gli occhi lucidi e pieni di attesa. La direttrice la guarda. Le due si guardano e io noto la stessa luce nei loro occhi. La voglia di scoprire, dopo anni, se sono in grado di comprendere quello che anni fa le era sfuggito.

Poi la direttrice inserisce una chiave, ruota con calma e solleva il coperchio.
Gavina sembra sul punto di scartare un regalo che ha desiderato da tutta una vita.
All’interno, avvolta in un telo di lino spesso, c’è una lastra di pietra calcarea, lunga forse mezzo metro, scolpita in bassorilievo. La direttrice la poggia con delicatezza su un supporto imbottito.
«Questa è stata trovata vicino a Mont’e Prama, in un’area ancora poco scavata» mormora. «Non rientra nelle tipologie ufficiali. Alcuni pensano che sia un falso, altri che sia troppo frammentaria per raccontare qualcosa.»

Ci avviciniamo anche noi. La lastra raffigura quattro figure umane stilizzate, disposte in linea. Tre di loro hanno proporzioni simili, rudimentali, con teste rotonde e corpi appena abbozzati. Ma la quarta, quella in fondo, è diversa. Molto più grande. Almeno il doppio. Ha braccia più lunghe, un torso più spesso, e qualcosa che assomiglia a un elmo o una cresta sopra la testa.

«Potrebbe essere un capo tribale, un antenato divinizzato o solo un errore di scala» dice la direttrice con voce neutra. «Nessuno ha voluto rischiare un’interpretazione.»

Veronika la osserva senza parlare. Skippy, seduta sulla sua spalla, inclina la testa e, mantenendosi al collo di Veronika con una zampetta, si avvicina come se volesse capire meglio cosa stia guardando.
Io osservo la figura più grande, quella anomala. C’è qualcosa di potente, quasi disturbante, in quell’eccesso di proporzioni.

Ma non parla.

Non ci guida.

Ed è questo che mi preoccupa. Perché se anche il secondo reperto non ci dice nulla… allora forse, stavolta, non avrò nulla da offrire né a Veronika né a Skippy.

A volte il silenzio della pietra pesa più di qualunque risposta.

la cassa con i due manufatti (foto Dall-E)

Il Codice Interrotto

Veronika mi guarda con un velo di delusione negli occhi. Non dice nulla ma mi basta uno sguardo per capire.
Io, pur con il pensiero ancora annidato in fondo al petto, le sorrido lo stesso. Non è finita. Non ancora. E poi, comunque, qualche possibile riferimento ai Giganti lo abbiamo trovato.
La direttrice apre il secondo involto con un gesto lento, quasi rituale. Il lino si srotola con delicatezza, lasciando emergere una tavoletta in pietra grigia, leggermente più piccola della precedente ma densa, viva, quasi vibrante.

Scolpita su entrambi i lati con una cura minuziosa, la superficie è attraversata da simboli geometrici, archi concentrici, linee spezzate che sembrano rincorrersi, segni simili a lettere, ma che non appartengono ad alcun alfabeto conosciuto.

Non è decorazione.
È scrittura. Un codice, come lo aveva definito Gavina. Ma non uno lineare.
Questo si curva, si ripete, si mimetizza. Come se volesse essere compreso solo da chi ne conosceva la chiave.

«È molto più antico di tutto quello che abbiamo mai trovato a Mont’e Prama» mormora la direttrice, senza staccare gli occhi dalla tavoletta. «Ma nessuno è mai riuscito a leggerlo. È troppo distante da ogni logica nota. E troppo… coerente per essere un caso.»

Gavina si avvicina. Le dita tremano appena. Poi, con un gesto preciso, estrae dal suo zaino una fotografia plastificata e la appoggia accanto al reperto. È l’immagine sbiadita di un frammento inciso, più rozzo, più recente.

«Questo l’ho fotografato anni fa, in un deposito. Non sapevano cosa fosse. Ma guarda qui…» Indica un tratto in alto, dove due archi si incrociano. «È una copia. Non moderna ma realizzata in epoca punica o romana. Il tratto è meno profondo, meno fluido. Come se qualcuno avesse tentato di salvare un linguaggio perduto, imitandone la forma per impedirne l’estinzione.»

La direttrice si irrigidisce. Si china, osserva entrambi i reperti e per un lungo momento non dice nulla. Poi alza lentamente la testa e le sue labbra si muovono in un sussurro appena udibile.

«Ampsicora».
È un nome che cade nella stanza come una pietra nell’acqua ferma.
Il suo effetto è immediato.

«Da tempo» continua la direttrice, con voce più tesa «ho il sospetto che non fosse solo un ribelle. Ci sono tracce, minime, nascoste che lo collegano a un clan, a un gruppo chiuso, quasi invisibile, che agiva parallelamente ai poteri noti. Forse un ordine. Forse una confraternita. Nessuno ha mai voluto approfondire. Nessuno ha osato. E anche quando ci ho provato io ho avuto più volte la sensazione che mi fosse impedito di proposito.»

Gavina annuisce. «E se questo gruppo avesse cercato di proteggere un sapere che affondava le radici prima della conquista romana? Prima ancora dei Giganti?»

«O di tramandarlo in silenzio» aggiungo. «Anche a costo di frammentarlo.»

La direttrice si allontana un passo, come se stesse mettendo insieme un puzzle di cui aveva solo i bordi. Poi si volta lentamente verso di noi.

«Uno dei frammenti più simili a questo… fu trovato a Nora, vicino a Pula. Ma non era tra i materiali esposti. Era accanto a una struttura muraria fenicio-punica, rinvenuta sotto uno strato di sabbia compatta, dove si dice che si svolgassero riti riservati. Nessuno lo ha mai collegato a nulla. Fino ad ora.»

Skippy si stringe a Veronika. Io fisso quella tavoletta come se potesse ancora aggiungere qualcosa.

Non siamo più davanti a semplici reperti.
Siamo davanti a una catena interrotta, spezzata e poi ricostruita in segreto. E adesso una parte di quella catena sembra chiamarci da Nora.

Forse è davvero da lì che dobbiamo passare.
Forse il tempo non ha dimenticato tutto.
E forse… c’è ancora qualcuno che ricorda.

Alcuni segreti non si perdono. Si nascondono aspettando occhi pronti a leggerli.

la tavoletta con il presunto codice (foto Dall-E)

Ombre tra le Sale

La direttrice ripone con cura la tavoletta e richiude il contenitore con un gesto lento, quasi protettivo. Un vero e proprio rituale.

Nessuno parla mentre usciamo dalla stanza d’archivio. C’è una strana solennità nel nostro passo, come se stessimo portando fuori un segreto ancora caldo. Camminiamo nel museo con lentezza, seguendo il percorso che ci conduce verso la sala dove si ergono le statue dei Giganti di Mont’e Prama.

Le luci sono più intense qui, il silenzio più carico. Il rumore dei nostri passi sembra amplificarsi. «Ampsicora era un magistrato di Cornus» racconta la direttrice, la voce calma ma piena. «Un uomo colto, potente. Non un guerriero qualsiasi. La rivolta contro Roma fu studiata, non improvvisata.»

«Eppure è finita male» dice Gavina. «La battaglia persa, il figlio morto, lui che si toglie la vita. Almeno, così raccontano.»

«Ma se non fosse andata così?» chiede Veronika. «E se non fosse morto? E se lui… o chi era con lui… fosse riuscito a scappare?»

«Portando via quel sapere» aggiungo. «Un frammento. Una tavoletta. Magari delle copie, come quella che ci hai mostrato, Gavina. Qualcosa che doveva essere protetto a ogni costo.»

«Forse cercavano qualcuno in grado di custodirlo» riflette Gavina. «O un luogo. Un passaggio.»

«Ma dove?» sussurra la direttrice, più a se stessa che a noi. «Dopo una sconfitta così grande… chi li avrebbe accolti?» Camminiamo lentamente tra le vetrine, le teche laterali. Il museo sembra stringersi attorno a noi, come se stesse ascoltando.

Poi lo vedo.

Un uomo, a una decina di metri da noi. È fermo davanti a una delle vetrine ma non guarda i reperti. Guarda noi. È vestito in modo anonimo, forse un addetto alla sicurezza o qualcuno dello staff, ma qualcosa in lui stona. Forse lo sguardo, forse la postura. E… sì.

Sta ascoltando. Attento. Troppo.

Mi volto verso Veronika. «Ehi, guarda quel…» Indico la direzione con lo sguardo. Ma quando ci giriamo, non c’è più. Nessuna traccia.

Resto un istante in silenzio, cercando di capire se me lo sono solo immaginato. Poi scuoto appena la testa e torno al gruppo.

Il dialogo è ancora in corso, le ipotesi si rincorrono tra sussurri e domande. Ma qualcosa, dentro di me, ha cambiato ritmo. E quella figura sfuggita al mio sguardo ora cammina, silenziosa, nei miei pensieri.

Ci sono sguardi che non cercano oggetti. Cercano chi li guarda.

La Direttrice (foto Dall-E)

Sotto lo sguardo dei Giganti

«Aspettate…» dice Veronika, interrompendo il flusso di ipotesi. «Guardate queste statue. Non è incredibile che siano arrivate fino a noi?»
Ci giriamo. Le statue dei Giganti di Mont’e Prama si stagliano davanti a noi con la loro imponenza muta. Alcune sono intere, altre parzialmente ricostruite, ma tutte emanano la stessa, antica autorevolezza. Hanno occhi grandi, scolpiti a cerchi concentrici, e volti scolpiti con forme geometriche essenziali ma ipnotiche.

La direttrice sorride. È la prima volta che la vediamo davvero rilassata.
«Sono qui da anni e ogni volta che passo davanti a loro mi sembrano cambiate» dice. «Non solo per la luce o per l’ombra. Ma per come le guardiamo. O forse… per come ci guardano loro.»

Camminiamo lungo la fila e lei ci accompagna senza fretta. Ogni statua sembra avere un proprio linguaggio.
«Lui è un pugilatore» indica una figura con un grande scudo tondo piegato sul braccio sinistro. «Si riconosce dal guantone che indossa sull’altro braccio. E dalla posa: il busto un po’ inclinato, come se fosse pronto a colpire.»

Poi passa a un’altra. «Questo è un arciere. Lo vedete il copricapo? Probabilmente era in cuoio o in lino rinforzato. Ha ancora parte dell’arco nella mano sinistra. Ed è uno dei pochi con i piedi ben piantati al suolo. Come se stesse proteggendo qualcosa.»

Ci fermiamo davanti a una statua diversa dalle altre, più slanciata, con uno scudo squadrato e una veste accennata.
«E questo è un guerriero. Alcuni pensano che rappresentassero degli eroi. Altri che fossero divinità. Ma la teoria più affascinante, secondo me, è che fossero… antenati. Figure reali, idealizzate, rese immortali nella pietra per vegliare sulle tombe.»

Mi avvicino, osservando la scala.
«Ma… se erano raffigurati così… è vero che le statue erano a grandezza naturale? Parliamo di… tre metri?»
La direttrice annuisce. «Alcune erano alte anche più di due metri e mezzo, forse tre. Considerando la testa, la base, e le armi che tenevano, sì… potrebbero aver raggiunto quella misura. E questo ha alimentato l’idea che non fossero solo ritratti ma rappresentazioni di veri e propri… Giganti. Soprattutto per l’epoca.»

«Il mistero è che non esiste nulla di simile in Europa, in quel periodo» continua la direttrice. «Erano scolpite a tutto tondo, in un’epoca in cui si lavorava la pietra solo in rilievo. È come se qualcuno sapesse già cosa sarebbe venuto dopo. Ma in anticipo di secoli.»

«E allora chi le ha fatte?» chiedo. «E perché proprio lì, a Mont’e Prama
«Forse un centro spirituale. Forse una necropoli. O forse… il punto d’incontro tra la memoria e la paura. Metterle lì significava custodire qualcosa. O avvisare qualcuno.»

Le statue ci osservano in silenzio.
E in quello sguardo di pietra, scolpito tremila anni fa, sento qualcosa che non riesco a spiegare.
Una promessa.
O un avvertimento.

Alcune statue non celebrano. Vegliano.

Giganti di Mont’e Prama (foto monteprama.it)

Voci che restano

Quando ci allontaniamo dalle statue la conversazione rallenta fino a fermarsi del tutto. Restiamo in silenzio qualche istante, come se avessimo bisogno di uscire lentamente da quel tempo antico.
Poi la direttrice si ferma. Si gira verso Gavina e le prende le mani con entrambe le sue.

«Tu non vai da nessuna parte» le dice con un tono che non ammette repliche ma che trasuda affetto. «Non ci devi nemmeno pensare. Ora che ti ho ritrovata, ho intenzione di tenerti qui almeno qualche giorno. Voglio parlarti di tutto. Voglio ascoltarti. E… be’, il museo è grande. E casa mia ha ancora una stanza libera.»

Gavina accenna un sorriso, poi ci guarda. «Per voi… va bene?»

«Certo che va bene» rispondo subito. «Ti terremo aggiornata. Promesso. Ti diremo tutto quello che troveremo a Nora».

Skippy si avvicina a Gavina e la abbraccia, stringendole le braccia con delicatezza. Lei si intenerisce, le accarezza il capo e si guarda intorno. Raggiunge il bancone dei souvenir e prende una piccola riproduzione in pietra del volto di un Gigante, con una lieve scheggiatura su un lato. Guarda la direttrice che annuisce senza dire nulla.

«È un po’ storto» dice Gavina sorridendo, porgendoglielo. «Ma ha qualcosa che somiglia al tuo sguardo.»

Skippy lo prende con una cura commovente, lo osserva in silenzio e poi la abbraccia di nuovo, più forte. C’è dolcezza e una gratitudine che non ha bisogno di parole.

La direttrice si volta verso di noi. «Quando sarete là, andate al Centro di documentazione archeologica di Nora. È piccolo ma conserva reperti che non sono visibili sul sito. Chiedete del professor Lissia. È in pensione da anni ma vive praticamente tra quelle sale. Non so se sarà facile trovarlo ma se c’è qualcuno di cui mi fido… è lui.»

«È esperto di questo codice?»

«Ha visto più reperti di quanti ne possiate immaginare. E soprattutto… conosce Ampsicora. Lo ha studiato, inseguito, ricostruito a modo suo. Se c’è una mente capace di mettere ordine tra le tracce è la sua.»

Ci salutiamo davanti all’uscita del museo. La luce è cambiata, la pioggia ha lasciato un’aria pulita e frizzante. Gavina ci abbraccia, un abbraccio lungo e silenzioso. La direttrice ci stringe la mano con calore e un rispetto nuovo negli occhi.
Poi usciamo.
E dietro di noi, le statue tornano al loro silenzio.
Ma ora so che ci stanno seguendo. Anche loro.

Il viaggio verso Oristano scorre in silenzio. Ognuno di noi è immerso nei propri pensieri, come se tutto quello che abbiamo visto, sentito e toccato oggi avesse bisogno di tempo per sedimentare. Il cielo si è rasserenato ma nell’abitacolo resta una tensione lieve, fatta di domande non dette e intuizioni che cominciano appena a prendere forma.

Ci sono incontri che vanno custoditi. Come i reperti più fragili.

Souvenir di Skippy (foto Dall-E)

Verso sud

Arriviamo in città poco prima di pranzo, quando le prime ombre iniziano ad accorciarsi e il centro si riempie dell’odore di pane caldo e carne arrosto. Troviamo una piccola trattoria nascosta tra le vie del centro storico, una di quelle con i tavoli in legno grezzo e il profumo di cucina vera che ti accoglie ancor prima di sederti.

Ordiniamo piatti della zona: un piatto abbondante di porceddu arrosto, il maialetto da latte sardo cotto lentamente allo spiedo su legna di mirto e lentisco, dalla carne tenera e profumata e la crosta croccante che scricchiola sotto i denti. Lo servono su un letto di rami aromatici, ancora caldo, con accanto patate dorate e pane carasau. Poi una bottiglia di rosso sardo, corposo, che sa di terra e vento.

Durante il pranzo, le parole tornano a fluire. Parliamo a bassa voce di ciò che abbiamo scoperto, di Nora, del professor Lissia, di quella tavoletta e del codice spezzato.

Ogni tanto ci fermiamo. Per mangiare, per pensare. Per osservare Skippy che affronta il suo porceddu con un rispetto quasi cerimoniale… salvo poi divorarlo con un entusiasmo che fa voltare un paio di tavoli vicini. Alla fine, si lecca le zampette come se avesse appena firmato un trattato di pace col popolo sardo.

«Ok, finito di mangiare partiamo» dice Veronika con gli occhi già rivolti al sud. «E niente deviazioni stavolta. Dritti a Nora.»

«Un attimo…» rispondo sorridendo. «Che ne dici se partiamo nel tardo pomeriggio? E poi c’è un tratto di costa che voglio sorvolare. Merita.»

Lei mi guarda, un po’ contrariata, un po’ divertita. «Un compromesso?»

«Un compromesso» confermo. «Come sempre. Tu insegui la storia, io inseguo la bellezza. E a volte, si incontrano.»

Skippy approva sollevando il cucchiaio verso di me, come a dire “ha ragione lui”. Anche lei ama volare. E lo sa bene.

Usciamo che il sole è ancora alto. L’aria profuma di terra bagnata e legna accesa, anche in pieno giorno.
Camminiamo tra le strade di Oristano, le parole che si diradano, sostituite dal rumore dei nostri passi.

Tra poco saremo nuovamente in volo.
Ma la vera avventura sarà quello che ci aspetta a terra.
E se davvero c’è ancora qualcosa da trovare…
questo Professore sarà disposto a farcelo scoprire?

Ci sono storie che aspettano in cielo. Ma il cuore le trova camminando.

Porceddu Arrosto (foto Dall-E=

13 – Diario di Volo Alghero Oristano

Risveglio difficile

La casa di Gavina è immersa nel silenzio. Fuori la notte sta cedendo lentamente al primo chiarore dell’alba ma dentro le stanze tutto è ancora fermo, quasi sospeso nel tepore del sonno.

Ci muoviamo con discrezione, cercando di non fare troppo rumore mentre raccogliamo le nostre cose e beviamo al volo un caffè. Il tempo è prezioso: dobbiamo decollare presto per raggiungere il museo a Oristano in mattinata e avere tempo per approfondire ogni dettaglio.

Solo una di noi non sembra avere alcuna intenzione di alzarsi. Skippy, la nostra piccola fennec, è completamente abbandonata su un cuscino, le zampe allungate, le orecchie rilassate.

E russa. Forte.

Veronika si avvicina e la osserva con un sorriso divertito. «Povera piccolina, l’ho vista girarsi e rigirarsi nel sonno queste ultime notti. Aveva sicuramente bisogno di recuperare.»

Gavina suggerisce una soluzione: «Lasciatela dormire, la portiamo così com’è.»

E così, con la delicatezza di chi trasporta un vaso antico, adagiamo Skippy nello zaino di Veronika, lasciandole la testolina fuori come fa di solito quando non vuole camminare. Il tutto mentre lei continua a russare beata, del tutto ignara della missione di recupero che ha richiesto tre adulti.

Anche chi viaggia tra cielo e storia ha bisogno di dormire come un cucciolo che si finge eroe.

preparativi pre volo (foto flight simulator 2024)

Preparativi prima del volo

Il piccolo aeroporto di Alghero è tranquillo a quest’ora del mattino. L’aria è ancora fresca e il cielo si tinge di sfumature rosa e arancioni mentre ci avviciniamo al nostro Cessna parcheggiato ordinatamente nella piazzola in cui l’avevamo lasciato.

Mentre io effettuo i controlli pre-volo, Veronika si occupa di rimuovere le protezioni del velivolo, spiegando ogni passaggio a Gavina che la osserva con curiosità.

«Questa è la copertura del pitot» indica, sollevando il piccolo tappo rosso attaccato a un nastrino con la scritta “remove before flight” che pende dall’ala sinistra. «Serve a proteggere il tubo di Pitot, quello che ci fornisce la velocità dell’aria. Se ci entra sporco o insetti, potrebbe dare letture sbagliate e non è il massimo quando sei in volo.»

«Ah!» esclama Gavina, visibilmente interessata. «Quindi è una protezione per gli strumenti?»

«Esatto» annuisce Veronika, mentre si sposta verso il carrello anteriore. «E questi invece sono i blocchi delle ruote, i cunei. Servono per tenere fermo l’aereo quando è parcheggiato, soprattutto se c’è vento.» Si ferma un attimo, poi ridacchia. «Di solito se ne occupa Skippy ma credo che oggi tocchi a me.»

Quando passano accanto al finestrino posteriore, sentono un suono familiare. Skippy sta ancora russando. «Si sveglierà quando accenderemo il motore.» dice Veronika scherzando.

Gavina ride a sua volta e scuote il capo. «Sembra proprio che si fidi completamente di voi.»

«O che sia completamente distrutta» aggiunge Veronika con un sorriso mentre ripiega le coperture del motore.

Tutto è pronto. Salgo a bordo, accendo la strumentazione e faccio scorrere le ultime checklist.
Il sole si è ormai alzato sopra l’orizzonte, illuminando la pista con una luce dorata. È ora di partire.

Ogni volo inizia con piccoli rituali, sorrisi, complicità e tecnica.

decollo da Alghero (foto flight simulator 2024)

Primo volo su un Cessna

Il motore del Cessna 172 prende vita con il suo ruggito familiare, oggi gareggia col russare di Skippy. Un suono rassicurante per noi ma probabilmente non per Gavina. La nostra passeggera cerca di apparire composta ma il suo sguardo tradisce l’emozione. Le mani stringono con discrezione le ginocchia mentre gli occhi guizzano rapidi tra il cruscotto e l’orizzonte oltre il parabrezza.

«E quindi… ehm… com’è che si fa a sapere se… insomma, se tutto è pronto per decollare?» chiede, cercando di mascherare la sua agitazione con un tono curioso.

Sorrido mentre completo gli ultimi controlli, scorrendo con lo sguardo gli strumenti di bordo. «Abbiamo già verificato tutto. Ora aspettiamo l’autorizzazione e poi ci allineiamo in pista.»

Gavina annuisce ma l’espressione sul suo viso suggerisce che sta elaborando una valanga di domande.

«E… il vento? Cioè, cambia qualcosa se c’è vento?»

«Sì, certo» risponde Veronika cercando di avere un tono rassicurante. «Decolliamo sempre controvento per avere più portanza sulle ali. In pratica ci aiuta a staccarci prima da terra.»

Gavina annuisce di nuovo, come se fosse perfettamente chiaro, ma dopo un secondo: «E il motore? Dico, se per caso… cioè, se ci fosse un problema, si spegne?»

Trattengo una risata. «No, Gavina, non si spegne. E comunque abbiamo procedure di sicurezza per ogni evenienza.»

Non sembra completamente convinta ma si sforza di sorridere anche lei. Respira profondamente, guardando fuori dal finestrino mentre rulliamo verso la testata della pista. Il Cessna vibra leggermente sotto di noi, la fusoliera riflette la luce dorata del mattino e l’orizzonte davanti sembra infinito.

Quando riceviamo l’autorizzazione al decollo, mi giro verso di lei. «Pronta?»

«Prontissima» risponde in un tono un po’ troppo deciso, come se volesse convincere più se stessa che noi.

Spingo gradualmente la manetta in avanti. Il rombo del motore cresce, la pista scorre veloce sotto di noi e in pochi secondi sentiamo il momento esatto in cui le ruote smettono di toccare terra.

Gavina trattiene il fiato e, solo quando il Cessna si stabilizza in aria, osa guardare di sotto. Il paesaggio si spalanca sotto di noi: la costa nord-occidentale della Sardegna si stende come un quadro in movimento, le onde lambiscono la riva e le colline si illuminano sotto il primo sole.

«Oh…» sussurra. Poi si copre la bocca, come se avesse appena rivelato un segreto.

Veronika sorride. «Tutto bene?»

Gavina annuisce lentamente. La tensione nelle sue spalle si scioglie un po’. «Sì. È… incredibile.»

«Già» rispondo, sorridendo. «E abbiamo appena iniziato.»

Da dietro un suono ovattato ci distrae un attimo. Skippy, ancora nello zaino di Veronika, emette un piccolo mugolio nel sonno e si gira leggermente. Non ha neanche sentito il decollo.

«Direi che qualcuno è il passeggero più rilassato di tutti» commenta Veronika ridendo.

Gavina sorride, stavolta senza più tensione. Il cielo è aperto davanti a noi e il nostro viaggio tra le pietre della storia è ufficialmente iniziato.

Le emozioni non si mascherano tra le nuvole e il primo decollo non si dimentica mai.

Gavina in cabina per il suo primo volo su un Cessna (foto flight simulator 2024)

Voci di pietra

Appena lasciata Alghero saliamo dolcemente di quota puntando a sud-est.

La luce del mattino accarezza le colline e rivela, poco sotto di noi, una muraglia ciclopica che si snoda sul pianoro.

«Eccolo lì… Monte Baranta» sussurra Gavina, come se stesse salutando un vecchio amico. Si sporge leggermente per osservare meglio, gli occhi che brillano nonostante l’altitudine. «Ci ho passato mesi lassù. È uno dei siti prenuragici più affascinanti di tutta l’isola. Vedi quella linea spezzata? Quella è la muraglia megalitica. Alta cinque metri, costruita tremila anni prima di Cristo. Non c’era niente di simile nel Mediterraneo occidentale a quel tempo. Niente.»

Rallento leggermente per darle tempo di raccontare.

«Era una fortezza, sì, ma anche un luogo sacro. C’era una piattaforma cerimoniale, un menhir enorme, non lo issarono mai, lo lasciarono lì, abbattuto. Chissà perché. Forse fu un segno. Forse qualcosa li spinse ad abbandonare tutto. A volte penso che certe pietre custodiscano più domande che risposte.»

Ci guardiamo in silenzio mentre sorvoliamo il sito. In basso la muraglia sembra un’ombra che resiste al tempo, un graffio inciso nel verde della macchia.

«I nuraghi non erano ancora nati» aggiunge, con voce più bassa. «Eppure qui c’erano già uomini che costruivano con intelligenza, che difendevano, pregavano, vivevano. È da lì che inizia tutto.»

Viro verso sud seguendo il profilo morbido delle colline. Alle mie spalle la voce di Gavina riprende a fluire, profonda e viva, come un racconto che non vuole più restare in silenzio.

Sorvoliamo Santu Pedru ma è come se sorvolassimo anche i suoi ricordi, la sua terra, la sua vita passata tra studi, scavi e meraviglia.

«Quelle sono le Domus de Janas, le case delle fate» dice, indicando con un cenno le aperture regolari visibili dall’alto. «Scavate a mano nel Neolitico. Le usavano per seppellire i defunti ma anche per comunicare con l’aldilà. Ogni tomba era scolpita come una casa: con travi finte, porte chiuse, stanze interne… era il modo per accompagnare i morti in un altro tipo di vita, non per lasciarli andare.»

Veronika si gira appena, catturata.

«Le decoravano con ocra rossa, simbolo di sangue, di rinascita. Alcune hanno corna di toro incise alle pareti: un richiamo alla fertilità, alla forza… ma anche alla morte, che faceva parte del ciclo.»

«Quindi erano più che tombe» commento, lasciando che l’aereo scivoli dolcemente lungo la curva.

«Molto di più» conferma Gavina. «Erano il grembo della Terra. Ci si tornava per celebrare i riti, per chiedere protezione. Non si seppelliva e basta… si restava in relazione con i propri antenati.» Poi si fa silenziosa per un istante ma continua a fissare le rocce rosse laggiù. «Quella trachite ha visto passare migliaia di anni. E ancora ci parla, se sappiamo ascoltare.»

Le pietre parlano, se le sorvoli col cuore aperto e chi ti guida ha la voce dell’esperienza.

Alghero in lontananza con Capo Caccia illuminato (foto flight simulator 2024)

Ombre antiche

La vegetazione si fa più rada e il paesaggio si apre a campi e rocce affioranti. La tomba dei giganti di Laccaneddu appare come un allineamento discreto ma solenne, appena visibile dall’alto, nascosta tra cespugli e pietre silenziose.

«Questa» dice Gavina «è una delle tombe più antiche che ho avuto la fortuna di studiare da vicino. È lì che ho iniziato a capire che “giganti” non era solo una leggenda… ma neppure solo un nome.»

Veronika si volta verso di lei, incuriosita. «C’erano ossa fuori misura?»

Gavina sorride ma non si lascia ingannare dalla semplicità della domanda. «No. Nessun ossa enormi, niente scheletri di tre metri. Almeno, non nei contesti ufficiali, nei registri archeologici. Però…» Fa una breve pausa, lo sguardo perso oltre il finestrino. «Però ci sono storie. Racconti tramandati a voce, contadini che giurano di aver visto resti fuori scala, tombe chiuse in fretta o pietre che non si dovevano toccare. E poi ci sono le steli monumentali, le camere più grandi del necessario, le forme insolite. Qualcosa resta, anche se sfugge alla scienza.»

Ci guardiamo in silenzio mentre l’aereo procede sopra il sito.

«Il nome “tomba dei giganti” è moderno, sì. Popolare ma il fascino che suscitano… quello è reale. Nessuno che ci sia passato accanto è riuscito a ignorarle. E se i giganti non erano di carne, forse erano di memoria. O di conoscenza. O erano un’eco di un popolo ancora più antico, che la civiltà nuragica ha raccolto, custodito e trasformato.»

Il Cessna prosegue tranquillo, accarezzando l’aria.

Gavina accenna a un altro sito, più avanti. «E lì, poco oltre… c’è Puttu Codinu, un’altra necropoli.»

Rimango un attimo in silenzio, poi chiedo: «Ma queste necropoli… hanno davvero un legame con le leggende? Con le fate, con i giganti? Oppure è solo fantasia?»

Gavina annuisce lentamente, come se avesse atteso quella domanda. «Le necropoli come questa non erano semplici cimiteri. Erano santuari. Spazi di passaggio e di contatto. Le camere sono scavate come case: travi scolpite, tetti a spiovente, nicchie. È come se volessero offrire al defunto una dimora vera, scolpita nella roccia per resistere all’eternità.»

Annuisco, osservando il paesaggio sotto di noi modellato da mani millenarie con rispetto e fede.

«E poi i simboli…» continua lei. «Le protomi taurine, i menhir piantati all’esterno, le tracce di ocra. Ogni elemento era un messaggio. Solo che oggi non abbiamo più il codice per decifrarlo fino in fondo. A volte penso che la vera eredità sia proprio questa: il diritto di continuare a cercare. Forse è per questo che ero così determinata a seguire la traccia che ora state seguendo anche voi.»

Per un istante, nessuno parla. Sorvoliamo la necropoli in silenzio, con la sensazione che, laggiù, qualcosa stia ancora aspettando.

E se davvero alcune verità fossero state affidate alla pietra in attesa che qualcuno le riconoscesse?

Lo penso senza dirlo mentre davanti a noi il paesaggio continua a scorrere, lento e immobile al tempo stesso.

Non sempre i giganti sono di carne. A volte abitano nella memoria o nelle domande che restano.

il Golfo di Oristano con la sua laguna (foto flight simulator 2024)

Scosse leggere

Sorvoliamo le ultime pieghe della collina, mentre Gavina indica con lo sguardo un piccolo corso d’acqua che brilla tra gli ulivi.

«Quello è il Rio Trogos. E proprio lì, un po’ più a monte, ci sono alcuni enormi blocchi disposti in modo regolare. C’è chi lo chiama il ponte nuragico

«Un ponte?» chiedo, incuriosito. «Riuscivano davvero a spostare massi così grandi, già allora?»

Gavina sorride «Non lo sappiamo con certezza. Ma è questo il bello: anche quando le risposte sembrano semplici la terra resta più antica delle nostre certezze. Se davvero quei blocchi sono stati posizionati tremila anni fa… vuol dire che sapevano muovere la pietra come nessun altro.»

Veronika si volta con un mezzo sorriso. «O magari… sono stati i giganti

Gavina si lascia andare a una breve risata, poi risponde senza ironia: «Potrebbe anche essere. Ma servirebbero ulteriori prove, non bastano le leggende. Anche se certe storie, a forza di tramandarle, finiscono per depositarsi sulla verità come la polvere su una stele: invisibili ma presenti.»

L’aereo prosegue tranquillo e davanti a noi si apre la piana di Ollastra, punteggiata di campi e antichi muretti. Gavina indica un rilievo tondeggiante appena oltre una macchia di vegetazione.

«Là c’è la tomba dei giganti di Pranu Ardu. Era una delle più grandi della regione. Oggi resta poco: la stele è crollata, la struttura è in parte sepolta, ma intorno a quel sito… ho sempre sentito un’energia divers… »

Si interrompe di colpo.

«Aaaaaaah!» esclama, scattando di lato e sbattendo contro il finestrino sinistro. Il Cessna si inclina bruscamente verso sinistra, quanto basta per farci perdere l’equilibrio per un istante.

«Gavina?!» chiedo, voltandomi di scatto.

La scena che vediamo ci spiega tutto: Skippy, appena sveglia, ha allungato una zampina sul fianco di Gavina che, dimenticandosi completamente della sua presenza, ha sobbalzato di riflesso, sbattendo contro la fusoliera.

Veronika scoppia a ridere. «Ah, buongiorno principessa!»

Skippy la guarda confusa, guarda Gavina, guarda me… poi sbadiglia vistosamente, le orecchie un po’ piegate. Si sistema sul sedile, ancora in bilico tra sogno e realtà.

Gavina si rimette a posto con una risata trattenuta. «Scusate. Mi ha preso alla sprovvista. Giuro che me ne ero dimenticata!»

«Tranquilla, anche i ricercatori ogni tanto rimuovono i dettagli importanti» scherzo, riportando l’aereo in assetto.

Le risate riempiono la cabina per un momento. La tensione è svanita, sostituita da quella leggerezza che solo certi attimi condivisi in volo sanno creare. Davanti a noi la pianura si allunga verso sud. Oristano si avvicina.

Quando la scienza dimentica una zampa, ci pensa Skippy a ricordarle che siamo vivi.

Sorvolo dell’aeroporto di Oristano (foto flight simulator 2024)

Coordinate interiori

Poco dopo appaiono i primi tetti di Oristano, bassi, compatti, stretti tra terra e cielo.

«Una città che non ama mettersi in mostra» commenta Gavina, indicando la trama di strade e piazze laggiù. «Ma chi la conosce sa che custodisce più storia di quanto sembri. Le sue origini sono giudicali, medievali. Ma c’è molto di più, se si guarda con attenzione.»

Sorvoliamo il centro storico, la torre di Mariano, il profilo della cattedrale e il disegno chiuso dei quartieri antichi.

«Sai che qui si dice che il vento non cambi solo il tempo ma anche l’umore delle persone?» continua lei, sorridendo. «Lo chiamano il maestrale della memoria. Qualcosa che scuote ma non porta mai via davvero nulla.»

Sul sedile posteriore Skippy si stira lentamente, si strofina gli occhi con le zampine e guarda fuori, ancora mezza persa.

Mi preparo all’atterraggio. Comincio la discesa verso Oristano-Fenosu. Tutto è stabile, i flap sono giù, la velocità perfetta. Poi, nel silenzio teso e concentrato dell’ultimo tratto si sente un suono basso, lungo…

Brrrrrooomp.

Non è il motore. È la pancia di Skippy. Scoppio a ridere. «Credo dovremmo fermarci urgentemente a fare colazione.»

La cabina esplode in una risata. Anche Gavina, vistosamente tesa durante l’atterraggio, ora si lascia andare.

Con un tocco leggero poso le ruote sulla pista. Il rumore del contatto con terra è lieve, come se il Cessna stesso stesse cercando di non disturbare l’attesa. Gavina si slaccia la cintura e si sporge leggermente in avanti. «È stato bellissimo volare con voi ragazzi. Grazie davvero per questa esperienza nuova per me. Ora vediamo se la mia vecchia collega si ricorda ancora di me… e soprattutto se vorrà davvero parlare e aiutarci.»

Mi giro verso di lei.

Gavina sorride ma nei suoi occhi si accende un lampo più serio, quasi impercettibile.

Un pensiero mi attraversa la mente, rapido come una turbolenza improvvisa: E se questa sua collega non volesse davvero aiutarci?

C’è un momento, tra l’ultimo flap e l’atterraggio, in cui anche la pancia racconta la verità.

Oristano durante la discesa vista dalla cabina (foto flight simulator 2024)

12 – Diario di Viaggio Alghero

Alghero

La pioggia ci accoglie appena entriamo in città. Non è un acquazzone violento ma di quelli sottili, insistenti, che si infilano ovunque e ti obbligano ad abbassare lo sguardo, quasi a invitarti a camminare in silenzio.

Alghero ci appare sfocata, con i vicoli lucidi e le pietre che riflettono i lampioni come specchi opachi. I tetti rossi sembrano più scuri del solito, quasi bagnati anche nei ricordi e il cielo plumbeo, pesante, schiaccia ogni pensiero verso il basso.

Veronika cammina al mio fianco in silenzio. Skippy ci segue senza fiatare, lo sguardo fisso in avanti, le orecchie appena abbassate. Nessuno dei due ha fame, lo capisco dal modo in cui guardano o meglio, evitano le vetrine delle panetterie e i profumi che provano comunque a farsi strada tra le gocce.
«Prendiamoci almeno qualcosa di caldo» propongo, cercando di mantenere un tono più leggero, anche se lo sento forzato persino a me stesso.

Ci infiliamo sotto una piccola tettoia accanto a un forno che profuma di focaccia e cipolla, dove il calore si appiccica ai vetri appannati. Ordino qualcosa in fretta, senza nemmeno leggere tutto il menù, mentre loro si limitano a stringersi nel cappuccio.

Mangio io per tutti o almeno ci provo. Il boccone ha il sapore di una tregua ma solo a metà. L’aria resta sospesa, gonfia di aspettative e timori. È la stessa tensione che ci accompagna da ieri. Quella paura sottile che tutto possa ridursi a una suggestione, a un altro indizio che non porta da nessuna parte.

«Stai bene?» le chiedo a bassa voce, mentre appoggio il bicchiere ancora mezzo pieno su un barile usato come tavolino.

Lei annuisce ma non mi guarda. Poi si aggiusta la sciarpa e rompe il silenzio.
«È che… non so. Più ci avviciniamo a questa storia, più ho paura che si dissolva come nebbia. Ho bisogno che ci sia qualcosa, Camillo. Qualcosa di vero.»

Annuisco, anche se dentro di me il dubbio è lo stesso. È difficile ammetterlo ma la linea tra intuizione e illusione diventa ogni giorno più sottile.

«Anche se ci fosse solo una traccia, una persona che ha visto qualcosa, sarebbe già un passo avanti» dico. «Non abbiamo bisogno di risposte oggi. Solo di un segno.»

Veronika inspira profondamente e finalmente mi guarda. Nei suoi occhi vedo lo stesso miscuglio di paura e speranza che sento dentro di me.

Sotto i nostri piedi l’acciottolato bagnato ci riflette come ombre spezzate. Un bambino corre tra i vicoli ridendo sotto la pioggia, come se il mondo fuori fosse solo un dettaglio. E per un attimo penso a quanto sia diverso il nostro sguardo da quello dei bambini. Quanto il desiderio di capire possa diventare un peso.
Poi alzo gli occhi verso il cuore del centro storico, dove le case antiche si stringono l’una all’altra come a proteggersi dal vento. I balconi in ferro battuto, le persiane socchiuse, le tende leggere che danzano appena.

Alghero ci osserva. E oggi sembra volerci mettere alla prova.

A volte non cerchiamo risposte ma solo un segno che ci dica che non stiamo sbagliando strada.

Alghero Centro dall’alto (foto di torredelporticciolo.it)

Nel salotto del passato

La pioggia ci accompagna fino al portone di legno segnato dal tempo ma curato con attenzione. Ai lati, due piante in vaso. Il campanello antico risuona con un “drinn” secco, come quelli di un altro secolo. Poco dopo la porta si apre lentamente.

Gavina è lì, in piedi davanti a noi. Indossa un maglione in lana grezza e ha una sciarpa chiara poggiata sulle spalle. L’aspetto è semplice ma dignitoso. Gli occhi, più di ogni altra cosa, raccontano una vita passata a osservare e a studiare. Ci accoglie con un mezzo sorriso, quasi sorpresa dalla nostra puntualità.

«Entrate, per favore. Ho messo su qualcosa di caldo. Anche se oggi… ci vorrebbe il sole più del tè.»

L’appartamento è al primo piano, in una via tranquilla del centro storico. Odora di carta antica, di cera e di lavanda. Le pareti sono tappezzate di libri, fotografie in bianco e nero, e scaffali colmi di oggetti, molti dei quali probabilmente raccolti in anni di ricerche. Non è una casa… è un archivio che respira.

Skippy si ferma incantata davanti a una mensola ricolma di statuette e piccoli frammenti catalogati. Muove la testa a scatti, poi si siede composta accanto alla poltrona, con l’aria di chi ha capito che qui dentro c’è qualcosa di importante. Qualcosa di importante anche per lei, ora.

Dopo pochi convenevoli è Veronika a prendere la parola. Le mani intrecciate, lo sguardo fisso su Gavina.

«Abbiamo trovato un frammento di stoffa a Bonifacio, per caso» racconta. «Era nascosto in un vecchio manufatto con un doppio fondo, in un antiquario del borgo vecchio. A prima vista sembrava solo un tessuto antico ma aveva inciso sopra un simbolo… molto particolare.»

Fa una breve pausa, poi aggiunge:

«E se lo si guarda in controluce… compare una scritta. È in una lingua mista, forse antica. Dice: “…su tempus… nos eramus… su tempus… torneremos…”.»

Le sue parole restano sospese nell’aria per un istante, dense di significato.

«Non sappiamo cosa voglia dire con esattezza» continua. «Ma sembra qualcosa come: nel tempo eravamo, nel tempo torneremo. L’ho vista per caso. Solo alla luce giusta si riesce a leggere.»

Gavina solleva appena le sopracciglia ma non dice nulla. Segno di chi sa ascoltare prima di parlare. Veronika prosegue.

«Ho fatto delle ricerche online e ho trovato qualcosa di simile a Lu Brandali. Ci ha fatto pensare ai Giganti di Mont’e Prama o a qualcosa legato a loro. Ma poi, quando siamo arrivati lì… nulla combaciava. È stato un po’ scoraggiante. Ed è lì che un collega del sito ci ha parlato di lei. Ci ha detto che anni fa aveva condotto ricerche simili.»

Gavina resta in silenzio per un attimo, poi si alza. Skippy la segue con lo sguardo mentre cammina fino a una piccola scrivania e apre un cassetto. Torna con una cartellina consumata dal tempo e si siede con lentezza. Quando inizia a parlare, la voce è calma ma porta con sé un peso silenzioso.

«Non siete i primi a seguire una traccia che sembra dissolversi all’improvviso. E non sarete gli ultimi. Ma vi dirò qualcosa… anch’io, tanti anni fa, mi sono trovata nello stesso punto. Stessa tensione, la stessa sensazione di essere a un passo da qualcosa… eppure continuamente spinta via.»

Apre la cartellina e ci mostra una vecchia fotografia: una pietra incisa, i simboli appena visibili, scolpiti con precisione incerta.

«Questa l’ho trovata vicino a Paulilatino, in un deposito mai catalogato ufficialmente. Doveva essere trasportata a Cagliari per essere studiata ma… sparì. Come tante altre cose.»

Abbassa lo sguardo per un momento, come se stesse rivedendo tutto con gli occhi della memoria.

«Ogni volta che facevo una domanda i colleghi mi guardavano storto. I fondi sparivano. Le collaborazioni si interrompevano. Una volta, un progetto che avevamo costruito per anni venne bloccato senza spiegazioni. E sai cosa mi dissero? “Forse è meglio concentrarsi su argomenti meno… speculativi.”»

Accende una lampada da tavolo e la luce calda si posa sulle sue mani.

«Speculativi… come se la storia potesse essere solo quella già scritta.»

Veronika la ascolta in silenzio. Io incrocio le braccia, sentendo in quelle parole qualcosa di familiare. Quel senso di ostacolo sottile, mai dichiarato apertamente, ma sempre presente.

«Non ho mai avuto la certezza che ci fosse una volontà precisa dietro tutto questo. Ma troppe volte, proprio quando stavo per fare un passo avanti, accadeva qualcosa che mi riportava indietro. Come se qualcuno o qualcosa volesse che certi dettagli restassero sepolti.»

Skippy alza un orecchio, incuriosita. Gavina la nota e sorride.

«Tu lo capisci, vero, piccola? Anche gli animali sentono quando il silenzio pesa più del rumore.»

Poi si volta verso di noi.

«Fatemi vedere questa stoffa.»

Veronika apre lo zaino con attenzione e le porge il frammento. Gavina lo prende tra le mani, lo osserva per lunghi istanti, lo inclina verso la finestra per vedere meglio le scritte in controluce. Poi annuisce, come se avesse ritrovato un vecchio amico.

«È bisso marino» dice a voce bassa, quasi con rispetto.

«Cosa?» chiedo, sorpreso.

Lei non risponde subito. Continua a fissare il tessuto, poi inizia a spiegare con calma, quasi parlasse a sé stessa.

«È fatto con i filamenti di un mollusco… la pinna nobilis, una grande conchiglia che viveva nei fondali sabbiosi del Mar Mediterraneo. Pochissimi sapevano farlo.»

«Con… un mollusco?» chiedo, ancora più sorpreso.

Ma lei non mi risponde. Troppo intenta ormai a valutare quella stoffa, come se cercasse qualcosa che non ci aveva ancora detto. Alza lo sguardo e i suoi occhi brillano appena, non per l’emozione ma per la concentrazione. Poi, senza preavviso, cambia tono.

«Venite. C’è qualcosa che voglio mostrarvi.»

Ci sono storie che restano nascoste finché qualcuno non osa chiederle.

Gavina (foto Leonardo.ai)

Tracce nascoste

Ci guida in una stanza più piccola, forse il suo studio. Alle pareti mappe antiche appese con puntine d’ottone e una serie di fotografie in bianco e nero, alcune ingiallite, altre recenti. Un piccolo scrittoio è ricoperto di carte, taccuini, vecchie schede manoscritte.

Apre con cautela un cassetto e ne estrae una scatola piatta, di cartone spesso, consumata ai bordi. Ne tira fuori alcune fotocopie, poi qualche ritaglio di giornale e infine una serie di lucidi trasparenti con tracciati di simboli a confronto.

«Negli anni ho raccolto più di quanto riuscissi a spiegare. Simboli, incisioni, frammenti. Molti erano stati archiviati male, dimenticati o etichettati come “decorazioni rituali di epoca imprecisata”. Ma alcuni… alcuni erano troppo simili tra loro per essere solo decorazioni.»

Sfoglia i lucidi, li sovrappone, li confronta con gesti metodici.

«Guardate questo» dice, mostrandoci un disegno tratto da una stele vicino a Tharros. «E ora questo». lo sovrappone a un altro simbolo inciso su un piccolo oggetto rinvenuto a Ittiri, nella Sardegna nord-occidentale.
«Non identici. Ma… coerenti. Come se parlassero una stessa lingua dimenticata.»

Veronika si avvicina, attratta come da un magnete. Io osservo in silenzio, lasciando che siano loro due a connettere i fili.

«Tra le annotazioni più strane ce n’era una che tornava spesso. Una definizione vaga, sempre scritta in margine: “Il gran maestro” oppure semplicemente “Amsk’r”. Una forma corrotta, incompleta, che nessuno sembrava più in grado di decifrare.»

Gavina apre un quaderno logoro, scritto a mano, fitte annotazioni in corsivo elegante.

«Questo me lo passò un collega di Cagliari. Disse che era una raccolta di appunti su simboli non classificati. Ma guardate qui» indica una pagina con una nota ‘simbolo simile a frammento ligneo trovato a Tharros – possibile collegamento con Amsk’r – vedi nota 1972.’

Veronika si sporge. «E lei è riuscita a collegarlo a un nome vero?»

Gavina annuisce ma con prudenza.

«Ci ho messo anni. Ma un giorno, durante un convegno a Sassari, un ricercatore più anziano mi mostrò un documento trascritto da una fonte punica. Parlava di un “capo della rivolta” chiamato Ampsicora… e a margine, in una nota manoscritta, qualcuno aveva scritto: “Amsk’r?” col punto interrogativo. Per me fu come una scintilla. Quella sigla che avevo letto ovunque… combaciava. Non era una coincidenza.»

Fa una pausa. Lo sguardo si fa più severo.

«Da allora, ogni volta che provavo ad approfondire… qualcosa si metteva di traverso. Reperti spostati. Accessi negati. Progetti che venivano tagliati senza spiegazioni. Come se quel nome, quel vero nome, non dovesse riemergere.»

Alcuni nomi non spariscono: aspettano solo che qualcuno li riconosca.

documenti di Gavina (foto Dall-E)

Una lingua nascosta

Gavina si siede accanto alla scrivania e resta in silenzio per un attimo. Poi prende un foglio stropicciato da un raccoglitore aperto, lo osserva per qualche secondo e parla con voce più bassa, come se stesse per raccontare qualcosa che finora aveva tenuto solo per sé.

«C’è una cosa che non ho mai scritto in nessuna relazione. Né detto apertamente, nemmeno ai colleghi più vicini. Ma dopo quello che mi avete raccontato…»

Ci guarda, uno per uno, in cerca di una conferma silenziosa. Veronika annuisce attendendo una rivelazione. Io resto fermo ma il mio sguardo le dice che può andare avanti.

«Una volta, anni fa, mi permisero di accedere a un piccolo deposito vicino a Tharros. Non c’erano grandi reperti, solo materiale che nessuno aveva ancora avuto tempo o interesse di studiare. Tra quei resti c’era una lastra, poco più grande di un foglio A4, con un’incisione particolare.»

Si interrompe, come se stesse ancora visualizzando quella lastra nella mente.

«Sembrava una decorazione. Ma c’era qualcosa nella ripetizione di certe forme, nella posizione degli elementi. Non era arte casuale. Era ordine.»

Veronika si sporge leggermente. «Come un codice?»

Gavina annuisce, con un’espressione quasi colpevole.

«Sì. Non ne ho mai parlato con nessuno ma ho iniziato a confrontare quei segni con altri trovati in contesti completamente diversi: piccole incisioni sui bordi di ceramiche, schegge di legno intagliate, persino segni lasciati su un’ansa metallica di origine incerta. Non erano identici ma… sembravano seguire una logica, un modulo ricorrente.»

Apre un fascicolo e ci mostra un tracciato a mano: simboli schematizzati, frecce, linee tratteggiate, connessioni come se stessimo guardando una mappa invisibile.

«Alla fine ho iniziato a pensare che non fossero solo simboli religiosi o decorativi. Ho iniziato a credere che fossero una lingua. Una lingua segreta, nata in epoca nuragica o subito dopo… e usata per trasmettere messaggi solo a chi era in grado di leggerli.»

Il peso delle sue parole riempie la stanza. Non ha detto nulla di “clamoroso” in superficie ma il sottotesto è potente: qualcuno ha lasciato volontariamente una traccia, un codice. E nessuno, finora, è riuscito a leggerlo per davvero.

Gavina ci guarda di nuovo. «Forse erano solo suggestioni. O forse ho voluto vedere un disegno dove c’erano solo coincidenze. Ma… c’è una cosa che non riesco a dimenticare.»

Si alza e prende una fotografia sbiadita da una scatola. Ce la porge. Mostra una piccola pietra ovale, trovata, ci dice, nei pressi di un vecchio insediamento punico.
Al centro un simbolo incastonato in un anello di linee concentriche. In basso, quasi impercettibile, una lettera incisa al contrario. La stessa che avevamo notato anche noi sul tessuto ma senza sapere cosa fosse.

«Questo» sussurra «è comparso almeno tre volte. Sempre in luoghi marginali, lontani dai reperti ufficiali. E ogni volta… associato a resti che non avevano mai trovato una collocazione precisa.»

Si volta verso la finestra poi, a bassa voce, quasi parlando a sé stessa, aggiunge:
«Se avessero voluto nascondere un messaggio nei secoli… lo avrebbero fatto così. Non in un unico segno. Ma spargendo pezzi incompleti ovunque. Lasciando a chi viene dopo il compito di rimetterli insieme.»

Chi vuole davvero trasmettere un messaggio non lascia una verità intera. Lascia frammenti da ricomporre.

antico nuraghe in sardegna (foto sardegnaturismo.it)

Una pista ancora aperta

Gavina resta in silenzio per qualche secondo, poi si alza e torna a sfogliare alcune carte accatastate sul mobile accanto. Non sembra cercare qualcosa in particolare. Sembra piuttosto ritrovare un ricordo.

«Sapete… non è del tutto vero che non ho più messo mano a queste ricerche. Alcune cose le ho solo messe… in pausa. Per anni.»

Prende un taccuino, lo apre a metà, poi lo richiude.

«C’è una persona. Una mia ex collaboratrice. All’epoca era giovane, piena di entusiasmo. Lavorava con me quando iniziai a mettere insieme i primi confronti tra quei simboli. Era brillante, curiosa. Poi, per motivi personali, decise di lasciare la ricerca accademica

Fa una pausa e ci guarda, come per misurare le nostre reazioni.

«Ora dirige un museo nella zona di Cabras. Un luogo apparentemente fuori dal tempo. E so per certo che tra le collezioni che conserva… ci sono almeno due reperti che non sono mai stati esposti al pubblico.»

Veronika si raddrizza. «Reperti come quelli che ha studiato lei?»

Gavina annuisce. «Sì. Uno in particolare… me lo mostrò anni fa, in privato. Era uno di quei frammenti anonimi che nessuno voleva più studiare ma io vidi subito che portava un’incisione familiare. Le dissi di conservarlo, di non lasciarlo finire in magazzino. E lei lo fece.»

Si volta verso la finestra, dove la pioggia continua a scorrere lenta lungo il vetro.
Poi torna a guardarci.

«Non le ho mai chiesto nulla in cambio. Ma… mi deve un favore. Uno importante. E se ci presentassimo lì all’improvviso, con me al vostro fianco… non potrà dirci di no.»

Veronika sorride. Io incrocio le braccia. Gavina ha già deciso e, a questo punto, anche noi.

Skippy, come se avesse capito tutto, salta leggera giù dal tappeto e si dirige verso la porta, pronta a ripartire.

A volte le risposte non stanno nei documenti ma nelle persone che li hanno custoditi in silenzio.

documenti di Gavina (foto Dall-E)

Sapori che Raccontano

Quando usciamo dallo studio, il cielo è diventato più scuro. La pioggia ha rallentato ma l’aria è ancora satura di umidità. Ci accorgiamo che il pomeriggio è volato via, le parole, le immagini, le connessioni ci hanno rapiti più di quanto pensassimo.

Veronika si volta verso Gavina con un sorriso che ha il sapore della gratitudine.

«Le va di venire a cena con noi? È il minimo dopo tutto quello che ha condiviso. E poi… finalmente ho fame.»

Skippy, come se fosse stata nominata, si scuote e inizia a saltellare intorno a noi. L’appetito è tornato anche per lei e il suo sguardo è quello di chi ha già deciso cosa vuole ordinare, anche se non ha ancora letto il menù.

Gavina ci guarda per un istante, sorpresa. Poi annuisce, quasi commossa da un gesto semplice che non si aspettava.

«Sì… sì, volentieri. Allora vi porto in un posto che conosco io. Niente menù turistici, promesso.»

Poco dopo siamo seduti in una piccola trattoria nascosta tra i vicoli del centro. L’ambiente è caldo, il legno scuro alle pareti contrasta con le luci basse e il profumo nell’aria è una miscela perfetta di spezie, mare e terra.

«Qui fanno uno dei miei piatti preferiti» dice Gavina, sfogliando appena il menù per abitudine, più che per necessità. «Si chiama fregula cun cocciula. È una pasta di semola tipica, piccola, tostata al forno, servita con vongole freschissime e prezzemolo. Semplice… ma se è fatta bene, non la dimentichi più.»

Veronika sorride e si affida ciecamente al consiglio. Io annuisco, curioso.
Skippy, già seduta composta tra me e Veronika, si stropiccia le mani con entusiasmo. Mangia come noi in proporzioni più ridotte e, a giudicare dal modo in cui osserva la cucina, ha già eletto il profumo della fregula come il più buono della giornata.

Quando i piatti arrivano i profumi sono così intensi che per un attimo parliamo poco. Il silenzio si riempie di forchette che sfiorano i piatti e sguardi d’intesa.

Poi, mentre assaporo l’ultimo boccone, mi ricordo di quella domanda rimasta in sospeso.

«Prima ha detto che il tessuto è bisso marino…» mi volto verso Gavina. «Ma non ha finito di spiegare. È davvero fatto con… un mollusco?»

Gavina solleva gli occhi, poi sorride e poggia la forchetta sul bordo del piatto.

«Sì, scusa se ti ho lasciato a metà. Ero troppo presa dai vostri racconti.»

Poi si sistema la sciarpa, quasi a prendersi un momento per trovare le parole giuste.

«Il bisso marino si ricava dai filamenti della pinna nobilis, un mollusco enorme che viveva nel Mediterraneo. Per secoli alcune donne, pochissime in verità, hanno saputo come estrarne quei filamenti, lavarli, filarli a mano, uno per uno. Il risultato è un tessuto leggerissimo, dorato alla luce, che non si deteriora con il tempo. Era usato solo per i paramenti sacri o i vestiti dei re. Cose che non dovevano morire.»

Si ferma un istante.

«In Sardegna c’erano pochissime donne in grado di lavorarlo e ancora meno sono rimaste. Oggi è quasi scomparso. Ecco perché, quando ho visto il vostro frammento… mi si è fermato il respiro. Non si trattava solo di un pezzo raro ma di qualcosa che qualcuno ha voluto proteggere in un modo speciale. Come se il contenuto non dovesse mai essere dimenticato.»

La sua voce si fa più bassa.

«E anche solo per questo… vale la pena continuare a cercare.»

Veronika la guarda in silenzio. Io mi appoggio allo schienale della sedia.
Skippy, con la pancia piena e l’espressione soddisfatta, si avvolge il tovagliolo tra le mani come se fosse una sciarpa e si lascia andare contro la spalliera, occhi chiusi, come a dire: possiamo anche non muoverci più da qui.

È tardi. Eppure nessuno sembra avere fretta.

Ci sono sapori che nutrono il corpo e storie che nutrono il perché.

Fregula cun Cocciula (foto e ricetta Dall-E)

Un regalo prima di dormire

Quando rientriamo a casa di Gavina l’aria sa di terra bagnata e pietra antica. Alghero sembra essersi acquietata, avvolta in un silenzio che non è solo serale ma quasi cerimoniale.

Stiamo per salutare quando Gavina alza una mano, decisa: «Nessuna discussione. Dormite qui. Partiamo presto domattina e non vi lascio certo vagare per la città in cerca di un posto dove dormire. Qui c’è spazio e per stanotte… siete di casa.»

Veronika la ringrazia con un sorriso gentile. Io accenno un piccolo inchino di resa. Skippy, dal canto suo, è già crollata su un tappeto accanto al divano, le braccia dietro la testa e lo sguardo fisso al soffitto, come se fosse arrivata alla fine di un film che le è piaciuto tantissimo.

Poco prima di andare a dormire Gavina si allontana per qualche minuto, poi torna con un piccolo cofanetto di legno scolpito. Lo apre con cura davanti a Skippy e le porge un oggetto avvolto in un pezzo di lino.

«È un bottone in osso. L’ho trovato anni fa durante uno scavo nei dintorni di Alghero. Non è mai stato registrato, era in mezzo a frammenti senza catalogo ma porta un’incisione molto antica. Alcuni pensano sia una semplice decorazione… io non ne sono mai stata così sicura.»

Skippy lo prende tra le mani con delicatezza. Sul fronte, un piccolo segno curvo a spirale inciso a mano. Lo osserva, poi lo infila subito nella sua taschina laterale, dove tiene le cose importanti. Poi si gira verso Gavina, le prende una mano e l’accarezza con il naso, in quel suo modo silenzioso e dolce che ha solo lei.

«Custodiscilo» le dice Gavina. «Forse un giorno ci servirà.»

Poco dopo, ci sistemiamo per la notte. Gavina ci ha preparato una stanza con un letto comodo, lenzuola profumate e un plaid piegato con cura ai piedi del materasso.
Skippy, come sempre, si rannicchia a terra accanto a noi, avvolta nella sua coperta, la testa appoggiata sullo zaino come fosse un cuscino di casa.

Io e Veronika ci infiliamo sotto le coperte in silenzio.

Per un po’, nessuno dice niente.

Poi Veronika si gira verso di me, la voce bassa, quasi un sussurro.
«Secondo te… troveremo davvero qualcosa?»

La guardo nel buio. Le ombre delle tapparelle si muovono lente sul soffitto, disegnando figure che sembrano danzare.

«Non lo so» le rispondo a bassa voce. «Ma se anche non trovassimo nulla… la storia, in qualche modo, ci ha già trovato.»

Lei sorride. Chiude gli occhi, senza dire altro.

Io resto ancora un attimo sveglio, mentre il respiro di Skippy si fa regolare e il profumo del legno e dei libri antichi ci avvolge.

Domani si riparte ma stanotte dormiamo sotto lo stesso tetto della storia.

A volte non è importante trovare qualcosa. È sentirsi trovati da ciò che cercavi

il piccolo souvenir di Skippy (foto Dall-E)

12 + Diario di Volo Santa Teresa Alghero

Un Triste Risveglio

La luce filtra tra le tende della stanza quando Veronika apre gli occhi. La sento girarsi, afferrare il tablet, scorrere lo schermo con un dito. La sento sbuffare e non dire nulla. Nessuna notifica. Nessuna risposta.
Mi giro verso di lei e la guardo. Dal modo in cui lo sguardo le si perde nel vuoto capisco che la speranza della sera prima sta già svanendo.

Skippy, rannicchiata accanto a lei, apre un occhio e poi si rigira lentamente, avvolgendosi nella coda. Niente saltelli. Niente entusiasmo nemmeno per lei. Solo quel silenzio che non è mai un buon segno.
Provo a spezzare l’atmosfera con il tono più leggero che riesco a trovare:

«Io direi… colazione e poi volo. Olbia, giusto?»

Veronika annuisce, forzando un mezzo sorriso.

«Giusto…» sussurra, anche se il suo sguardo resta incollato allo schermo spento.

Poco dopo passeggiamo tra le vie ancora assonnate di Santa Teresa Gallura. L’aria è limpida, il sole è già alto ma il vento conserva ancora un tocco fresco. Ci sediamo in un bar affacciato sulla piazzetta. Il barista ci consiglia le formaggelle, dolci di ricotta e scorza di limone appena sfornati. Tre porzioni abbondanti arrivano fumanti al tavolo, con lo zucchero a velo che brilla alla luce del mattino.

Assaporo la loro morbidezza che si scioglie in bocca, poi porto lentamente il caffè alle labbra. La mente inizia a mettersi in moto: è il momento di concentrarsi sul piano di volo per Olbia.

Apro il tablet e comincio a visualizzare la rotta. Il meteo sembra stabile anche se, con queste nuvole basse, potremmo avere qualche problema di visibilità.

Skippy ha lo sguardo basso. Tiene tra le zampette un pezzetto di dolce ma non lo morde. Sembra più un pensiero che un boccone.

Poi, all’improvviso…

Bip.

Veronika scatta, riattiva il tablet. Il messaggio è breve ma abbastanza da farle brillare gli occhi.

«Mi ha risposto.» La voce le trema un po’.

Alzo lo sguardo, lasciando perdere il piano di volo. «Gavina

Veronika annuisce, l’emozione che riaffiora nei suoi occhi. «Dice che le farebbe davvero piacere incontrarci, parlare del simbolo, della stoffa, di tutto… ma ora vive ad Alghero

La fisso per un istante. Poi sorrido. «E allora… andiamo ad Alghero.»

Skippy mi guarda, poi emette un suono quasi felice e mi salta in braccio stringendomi forte. Veronika si passa una mano tra i capelli, incredula, poi ride. Di cuore.

«Le rispondo subito» dice, già digitando. «Vediamo se ci può ricevere nel pomeriggio.»

Io riapro il mio tablet ma non più per tracciare la rotta verso Olbia.

Ora si cambia destinazione. E con essa, anche l’umore.

Skippy mi lancia un’occhiata piena di gratitudine mentre addenta con gioia il suo pezzo di formaggella con un appetito finalmente ritrovato. E Veronika… be’, Veronika ha di nuovo quella scintilla negli occhi.

Il cielo sopra la Gallura è sereno. E adesso lo siamo anche noi.

A volte basta un messaggio per cambiare la rotta di un’intera giornata.

In decollo dal Campo Volo in erba (foto flight simulator 2024)

Castelsardo

Poco dopo raggiungiamo il campo volo a sud di Santa Teresa di Gallura dove il Cessna ci aspetta, lucido sotto il sole del mattino. Dopo i controlli di rito porto l’aereo sulla piccola pista erbosa. Spingo la manetta in avanti, le ruote scorrono sull’erba… e in pochi secondi siamo di nuovo in aria.
Il cielo è ancora coperto a tratti da nubi basse ma la visibilità è sufficiente per godersi il panorama. Seguendo la costa verso sud-ovest, ci lasciamo alle spalle Santa Teresa e voliamo sopra un tratto di litorale aspro e frastagliato, dove la vegetazione si aggrappa con ostinazione alle rocce.
Poi, come scolpita nel paesaggio, appare Castelsardo.

Vista dall’alto è impressionante: un intreccio di case colorate arrampicate su un promontorio di origine vulcanica che si getta a picco sul mare. Le rocce scure e irregolari sembrano fondersi con le mura del borgo, mentre la fortezza in cima domina tutto con l’eleganza austera di un guardiano antico.
«Wow…» mormoro, rallentando per poterla osservare meglio.

Veronika alza lo sguardo dalla guida, sorpresa anche lei da quella vista così scenografica. «Sembra uscita da una leggenda» dice.

Sorvoliamo lentamente il borgo, compiendo un paio di virate leggere per godercelo da più angolazioni. Il piccolo porto sotto di noi sembra un rifugio nascosto, incastonato in un’insenatura protetta. Le viuzze si arrampicano a spirale verso il castello, che da quassù appare come il cuore pulsante del borgo.
Veronika sfoglia qualche pagina della guida, poi sorride. «Sai che sotto il castello, secondo una leggenda, esiste un passaggio segreto?»

«Passaggio segreto?» chiedo, senza distogliere gli occhi dal panorama.

«Si dice che conduca a delle stanze sotterranee dove i Doria, quelli che fondarono la città nel 1102, avrebbero nascosto un tesoro.»

Veronika scatta ancora qualche foto, poi resta in silenzio, lo sguardo perso oltre il finestrino, là dove la costa si confonde con il mare.
«Chissà se anche noi troveremo quello che stiamo cercando…» mormora, più a se stessa che a me.
Non rispondo. Punto semplicemente il muso verso l’orizzonte coperto dalle nuvole, lasciando che Castelsardo scivoli alle nostre spalle.

Alcuni luoghi sembrano costruiti per custodire segreti. Altri, per risvegliarli.

Castelsardo (foto flightsimulator 2024)

Asinara

La traversata del golfo si rivela abbastanza impegnativa. Le nuvole basse, sempre più fitte, iniziano davvero a darmi qualche problema. In breve tempo la visibilità si riduce drasticamente e mi vedo costretto a mantenere la rotta e l’altitudine affidandomi quasi esclusivamente alla strumentazione del Cessna. Non è una situazione preoccupante tuttavia richiede attenzione extra e concentrazione costante.
Accanto a me, Veronika sospira appena, delusa di non poter godere della vista del mare. Decide così di approfittarne per approfondire sulla guida ciò che ci aspetta durante il sorvolo dell’Asinara.

«Sai, Cami, l’Asinara ha una storia incredibile» mi dice alzando appena gli occhi dal libro. «Per oltre un secolo è stata chiusa al pubblico, prima come colonia penale agricola e poi, dagli anni ’70, come carcere di massima sicurezza. È qui che vennero rinchiusi alcuni dei criminali più pericolosi d’Italia, tra cui boss mafiosi e terroristi delle Brigate Rosse. Solo dal 1997 è diventata Parco Nazionale e finalmente aperta ai visitatori.»

Ascolto incuriosito mentre le nuvole iniziano lentamente a diradarsi, permettendomi di intravedere le prime sagome della costa in corrispondenza di Cala d’Oliva, l’unico borgo abitato dell’isola. Veronika prosegue con entusiasmo:
«L’isola è famosa anche per gli asinelli bianchi, una specie rara e molto particolare che vive solo qui. Nessuno sa con certezza come siano arrivati sull’isola, alcuni dicono siano stati importati dall’Egitto nel 1800, altri sostengono invece che siano il risultato di una mutazione genetica locale.»

Getto un’occhiata a Skippy. È immobile, le orecchie basse, gli occhi fissi al finestrino. Ma si capisce che non sta davvero guardando. Approfittando di un momento di relativa calma del volo, allungo una mano per accarezzarle delicatamente la testa. Skippy solleva lentamente lo sguardo verso di me, fissandomi con occhi che mi sembrano più grandi e malinconici del solito. Si lascia accarezzare, appoggiando lievemente la testa sul palmo della mia mano, come a cercare conforto.

Veronika osserva la scena, intuisce la situazione e le sorride dolcemente, aprendo leggermente le braccia: «Vieni qui, Skippy. Non pensare più a ieri, andrà tutto bene oggi, vedrai.»

Skippy si volta verso Veronika, la guarda per qualche secondo con una certa esitazione, poi lentamente si avvicina, lasciandosi avvolgere dal suo abbraccio rassicurante. Veronika le passa affettuosamente la mano sulla schiena, sussurrandole con voce dolce: «Niente paura, Skippy. Oggi è un nuovo giorno. E qualunque cosa accada… ci sarò io a starti accanto. Sempre.»

Sento una piacevole stretta al cuore mentre osservo la scena, sentendomi sollevato nel vedere che Skippy finalmente si rilassa un po’.

Davanti a noi, in lontananza, inizia già a delinearsi il profilo di Stintino, ma per ora lasciamo ancora spazio a questo breve momento di conforto e calore.

Anche nei cieli più grigi, il calore di un gesto sincero può cambiare la rotta del cuore.

Asinara (foto flight simulator 2024)

La Pelosa e Stintino

Le nuvole si diradano lasciando spazio al sole che illumina il paesaggio dell’arcipelago dell’Asinara che scorre sotto di noi. La splendida spiaggia di La Pelosa, con il suo mare cristallino e la sabbia bianca e finissima che sembra quasi irreale, colpisce gli occhi.
Rallento leggermente il Cessna per permettere a Veronika di godersi appieno il panorama e scattare qualche foto. Lei cerca di coinvolgere Skippy e distrarla un pò.
«Skippy, sai perché questa spiaggia si chiama La Pelosa?» chiede con voce dolce. Skippy alza la testa, curiosa. «C’è scritto che il nome deriva dalla presenza di una vegetazione molto particolare, una specie di alga marina chiamata Posidonia oceanica, che in certi periodi si accumula sulla riva creando una sorta di tappeto morbido e filamentoso. Per questo motivo, vista da lontano, la spiaggia sembra quasi avere una peluria.»
Skippy sembra interessata, le orecchie leggermente sollevate e lo sguardo più attento. Veronika continua: «È considerata una delle spiagge più belle d’Europa. Lì davanti c’è anche una piccola torre aragonese) del XVI secolo, costruita per difendere la costa dalle invasioni dei pirati, che aggiunge mistero e fascino a questo tratto di costa.»
Mentre Veronika racconta mi accorgo che Skippy sembra finalmente distendersi leggermente, forse rasserenata dall’affetto e dall’entusiasmo contagioso di Veronika.
Dopo aver lasciato che lo sguardo si perdesse ancora un po’ nella bellezza del luogo, riallineo il Cessna verso sud. Sorvoliamo Stintino, osservando il piccolo borgo di pescatori che sembra proteso delicatamente sul mare.
«Sai Skippy, Stintino è famoso anche per essere la capitale sarda della vela latina, un’antica imbarcazione tradizionale», aggiunge Veronika, «e il suo nome curioso deriva dal sassarese “istintìnu”, che significa intestino o budello, proprio per la forma allungata e stretta della penisola dove sorge.»
Guardo fuori. L’acqua laggiù sembra dipinta. C’è una bellezza così perfetta da sembrare irreale, e per un attimo mi sorprendo a pensare quanto sia incredibile poter vedere il mondo così, da lassù.
Skippy si sporge leggermente verso il finestrino, come ipnotizzata. Le sue orecchie si muovono appena, mentre resta immobile, in silenzio.
Forse non sta solo ascoltando Veronika. Forse anche lei sente, dentro di sé, che stiamo volando verso qualcosa che conta davvero.

Ci sono luoghi che non si dimenticano e silenzi che dicono tutto

La Pelosa (foto flight simulator 2024)

Porto Torres

L’imponente struttura portuale di Porto Torres cattura immediatamente la nostra attenzione mentre ci avviciniamo. Dall’alto osserviamo la zona industriale, con le infrastrutture che testimoniano l’importanza strategica di questo snodo marittimo nel panorama sardo. Enormi silos si stagliano all’orizzonte come sentinelle moderne, silenziose, che custodiscono cereali e mangimi destinati ai mercati di mezza Europa.
Il contrasto con la cittadina è evidente: il grande porto commerciale lascia spazio al pittoresco porticciolo turistico, dove le barche dei pescatori e le imbarcazioni da diporto riposano placidamente.

Veronika mi racconta una curiosità: «Porto Torres è stato un importante centro romano, noto come Turris Libisonis. Oggi possiamo ancora ammirare resti archeologici significativi, come il Ponte Romano sul fiume Mannu e le terme.»

Sorvolando l’area, non posso fare a meno di chiedermi quanti strati di storia si siano sovrapposti qui, invisibili agli occhi. Dai romani ai nuragici, quante tracce dimenticate giacciono ancora sotto terra? E se fossero proprio queste zone, apparentemente secondarie, a custodire i frammenti mancanti della nostra ricerca?

Mi chiedo se Gavina, con la sua esperienza e i suoi studi, riuscirà ad aiutarci a distinguere quei segni antichi dalle ombre che il tempo ha lasciato.

Mentre il porto resta alle nostre spalle, mi accorgo che la tensione silenziosa di stamattina è tornata.

Lo sento anche io: quell’appuntamento del pomeriggio, quell’incontro con Gavina… potrebbe cambiare tutto. O forse… non cambierà niente. Ma ormai siamo troppo avanti per voltarci.

La storia non si mostra sempre in superficie. A volte va cercata sotto strati di tempo e silenzio.

Porto Torres (foto flight simulator 2024)

Sassari

Il paesaggio sotto di noi cambia ancora: le coste si fanno lontane e, al loro posto, si distendono dolci colline e distese verdi che annunciano l’entroterra sardo. In lontananza compare Sassari, distesa tra il verde e la pietra.

«Guarda laggiù» dico a Veronika, indicando un rettangolo verde che spicca nel cuore della città. «Quel grande parco al centro…»

Veronika consulta rapidamente la sua guida. «È il Parco di Monserrato, il più grande della città. Ci sono giardini all’italiana, all’inglese e una varietà di piante notevole. Un tempo era parte di una villa nobiliare.»
Sorvoliamo lentamente la zona. Sassari vista dall’alto ha un’armonia tutta sua: i tetti rossi, le strade che si intrecciano, il centro storico che pulsa ancora di storia. Veronika alza gli occhi dal tablet, lo sguardo acceso.

«Lo sai che Sassari fu capitale del Giudicato di Torres? E poi diventò una repubblica indipendente… una delle poche della Sardegna. Oggi è la seconda città dell’isola, sede universitaria e arcivescovile.»
Skippy, con le orecchie dritte e il naso incollato al finestrino, segue il volo con più attenzione. Forse anche lei sente che ci stiamo avvicinando.

«Lì sotto» riprende Veronika, indicando una zona poco più in là, «ci sono i resti del Castello di Sassari. Era una fortezza trapezoidale, con cinque torri agli angoli. Serviva a difendere la città ma oggi ne restano solo alcune sezioni incorporate negli edifici moderni.»

Sorvolando la zona della vecchia valle del Rosello, Veronika aggiunge ancora: «E quella è la fontana di Rosello. Una delle più famose dell’isola, costruita da maestranze genovesi nel Seicento. È considerata uno dei simboli della città.»

Mi godo il racconto mentre osservo il profilo urbano scivolare sotto di noi ma il pensiero va altrove. Ogni città ha le sue storie, le sue leggende, le sue verità sepolte.

E noi… stiamo volando verso una donna che potrebbe aiutarci a dare un senso alla nostra.

Ogni città custodisce segreti: sta a noi decidere quali ascoltare.

Sassari (foto flight simulator 2024)

Alghero

Le nuvole finalmente si sono diradate, regalandoci una vista spettacolare sulla costa che lentamente ci conduce verso Alghero. La città si rivela a poco a poco sotto di noi, adagiata elegantemente sulla costa nord-occidentale della Sardegna.

«Sai, Cami» comincia Veronika con il suo solito tono curioso «Alghero è soprannominata la “Barceloneta sarda”, perché conserva ancora oggi tantissime tradizioni catalane

«Catalane?» rispondo sorpreso, mentre inclino leggermente il Cessna per osservare meglio le mura e i bastioni che circondano il centro storico.

«Sì, il catalano è rimasto nella cultura locale, nell’architettura e persino nella lingua. Qui infatti si parla ancora un dialetto catalano, l’algherese, tramandato dai tempi della dominazione aragonese nel XIV secolo. Se scendiamo in città, potremmo sentirlo ancora nelle stradine.»

Skippy drizza le orecchie incuriosita e Veronika sorride: «Magari impareremo qualche parola insieme!»
Ridiamo entrambi, notando che Skippy sembra finalmente rilassata e di buon umore.

Sorvoliamo il porto turistico, con le sue barche allineate in perfetto ordine, mentre lo sguardo di Veronika si fa pensieroso.

Poi, mentre ci avviciniamo alla città vecchia, abbassa lo sguardo e mormora tra sé, quasi in un pensiero ad alta voce:
«Chissà dove vive, Gavina… e perché ha deciso di trasferirsi qui. Forse anche lei cercava qualcosa…»
Resto in silenzio. Il suo sguardo è fisso là sotto, tra le case e le stradine. Non aggiunge altro ma so che quel pensiero le è rimasto dentro.

Ci allontaniamo lentamente dalla città, dirigendoci verso il promontorio di Capo Caccia. Davanti a noi si staglia imponente la scogliera bianca, sulla cui sommità svetta il faro di Capo Caccia che sembra dominare con eleganza tutto l’orizzonte.

«Guarda che meraviglia quel faro!» esclamo incantato, iniziando a volteggiare attorno alla falesia.
«È stato costruito nel 1864» mi racconta Veronika con la guida aperta sulle gambe, «ed è considerato uno dei fari più alti d’Italia. La sua luce è visibile fino a 24 miglia nautiche di distanza… cioè circa 44 km.»
Sorvolando la parete della falesia, individuiamo chiaramente una lunga scalinata che si aggrappa alla roccia.

«Quella è l’Escala del Cabirol» dice Veronika indicando verso il basso, «una scala scavata direttamente nella parete della falesia: 654 gradini che portano fino all’ingresso delle Grotte di Nettuno. Un complesso spettacolare di grotte marine, tra le più grandi d’Italia.»

«654 gradini?» esclamo sorridendo. «Forse è meglio ammirarle da qui. Non so se Skippy sarebbe d’accordo a farsi trasportare su e giù.»

Lei ridacchia: «In effetti meglio così, se non vogliamo rischiare di portarla in braccio per tutto il tragitto!»

Skippy sbuffa teatralmente fingendo indignazione ma è chiaro che si sta divertendo.

«Lo è sicuramente» aggiunge Veronika mentre osserva le acque sottostanti, «questa zona è famosa anche per la biodiversità marina. Chissà che spettacolo dev’essere al tramonto.»

«Dobbiamo tornarci assolutamente, magari via mare questa sera!» replico entusiasta.

Dopo qualche altro istante trascorso ad ammirare il faro e le scogliere, punto con decisione verso l’aeroporto di Alghero.

A volte basta voltarsi un attimo verso il mare per ricordarsi cosa stiamo cercando

Capo Caccia (foto flight simulator 2024)

Atterraggio

Avvicinandoci all’aeroporto, il clima leggero delle ultime miglia svanisce. Veronika guarda fuori, in silenzio. Skippy si muove nervosa sul sedile, come se sentisse anche lei qualcosa nell’aria.

Atterro dolcemente. Il Cessna rallenta, si ferma. Spegniamo i motori. Nessuno parla.
Veronika ha ancora lo sguardo fisso all’orizzonte.

«Pensi che andrà bene?» chiede sottovoce, quasi temesse la risposta.

Non rispondo subito. Le prendo la mano. Skippy ci osserva, immobile.

«Lo scopriremo tra poco.»

Scendiamo dall’aereo. Il vento di Alghero ci accoglie. Davanti a noi, una città che forse ci darà delle risposte. O forse no.

Ma ormai siamo qui. E a volte è il passo verso l’ignoto che conta davvero.

Non sempre si vola verso una meta. A volte si vola verso una possibilità.

11 – Diario di viaggio Lu Brandali

Entusiasmo e Aspettative

Skippy saltella impaziente attorno a noi, il musetto sollevato, le orecchie tese come se già captasse l’energia del luogo che stiamo per visitare. Vorrebbe correre al sito archeologico subito.

«Prima pensiamo al Cessna» le ricordo «Poi puoi lanciarti all’avventura.»

Lei mi restituisce un’occhiata infastidita, poi si rassegna e si mette all’opera per posizionare i cunei sotto le ruote.

L’aria è ancora fresca, il vento scivola tra l’erba della pista e la macchia mediterranea. Le cinghie delle coperture che stiamo posizionando scattano con un rumore secco.

Quando finalmente terminiamo Skippy si piazza davanti a noi, braccia incrociate e zampa che tamburella nervosa. Poi spalanca le braccia e gesticola con enfasi. Il messaggio è chiaro: «Basta, muovetevi!»

Veronika chiude il vano di carico e si gira verso di me, il volto illuminato dall’eccitazione.

«Pronto?»

Metto lo zaino in spalla, lanciando un’ultima occhiata al Cessna.

«Pronto. Andiamo a vedere questi Giganti.»

Il sito archeologico di Lu Brandali è a pochi minuti di distanza ma l’attesa ci rende impazienti. Saliti a bordo del taxi, l’energia nell’abitacolo è tangibile. Veronika scorre veloce le pagine, gli occhi che brillano. Sta ricontrollando tutto: date, simboli, leggende. Cerca connessioni, conferme, qualcosa che renda tutto ancora più chiaro.

«Non riesco a credere che siamo davvero qui» dice, senza sollevare gli occhi dallo schermo. La sua voce vibra di eccitazione. «Ho letto tanto in questi giorni su questo posto, sulle Tombe dei Giganti, i simboli incisi nelle pietre… Se quello che abbiamo trovato ha anche solo un piccolo collegamento con tutto questo, potrebbe essere incredibile!»

Il suo entusiasmo è contagioso. «Vediamo se la realtà è all’altezza delle aspettative.»

Quando arriviamo Skippy si piazza in testa al gruppo, trotterellando avanti con il musetto in su, il naso che si muove rapido nell’aria: annusa avventura.

Mentre avanza sul sentiero sterrato, Skippy si ferma di colpo. Con le zampe scava leggermente nella terra asciutta e tira fuori un piccolo sasso levigato dal tempo, di un colore rossastro, con venature bianche che sembrano disegni incisi dalla natura. Lo osserva con attenzione, poi lo stringe tra le zampette e lo infila nella sua piccola tasca laterale dello zainetto. Un trofeo, un pezzo di storia tutto suo.

La strada sterrata che conduce al sito è circondata dalla macchia mediterranea. Il cielo sopra di noi è di un azzurro intenso, privo di nuvole.

Ogni passo ci avvicina alla storia. A un luogo che potrebbe nascondere risposte sepolte nel tempo.

Sembra una giornata perfetta.

Ogni grande avventura comincia con un passo deciso… e un cuore pieno di possibilità

il piccolo sasso preso da Skippy (foto Dall-E)

Lu Brandali

Il vento che arriva dal mare scivola tra le fronde dei sugheri, un sussurro discreto che accompagna il nostro passo lungo il sentiero sterrato. L’aria sa di sale e terra calda, un mix che profuma di antico.

Veronika cammina a passo svelto, gli occhi che saltano da un dettaglio all’altro, come se ogni pietra potesse già rivelarle qualcosa. L’entusiasmo le vibra nella voce.

«Ci siamo quasi.» Fa un respiro profondo, cercando di trattenere l’emozione. «Se il simbolo è qui, lo troveremo.»

Davanti a noi il cancello d’ingresso del sito è semplice, in legno, quasi a voler sottolineare che la vera barriera non è fisica ma temporale.

Ci accoglie una guida locale, un uomo sulla cinquantina, con uno sguardo che racconta anni di esplorazioni tra queste rovine. Il suo sorriso è aperto, genuino, nel tono della sua voce c’è l’orgoglio di chi non sta solo spiegando la storia ma la sta raccontando con passione.

«Benvenuti a Lu Brandali.» Allarga un braccio, indicando il sito che si estende oltre il cancello. «Questa è una delle testimonianze più affascinanti della civiltà nuragica qui nel nord della Sardegna.»

Veronika si avvicina, incapace di contenere la sua curiosità.

«Non ho mai visto un sito del genere dal vivo» dice, con un lampo negli occhi. «Sono molto interessata soprattutto a capire di più sulle Tombe dei Giganti

La guida annuisce con un sorriso compiaciuto, lo sguardo che si accende di entusiasmo.

«Ah, i Giganti. Una storia che affascina tutti. Seguitemi.»

Ogni pietra ha una storia da raccontare, basta saperla ascoltare.

Lu Brandali (foto tripadvisor.it)

Tra storia e mito

Seguiamo la guida su un sentiero che si insinua tra antiche capanne nuragiche, alcune ancora ben visibili nella loro forma circolare. Il tempo ha smussato i contorni delle pietre ma il villaggio di Lu Brandali conserva ancora la sua imponenza.

La guida si ferma, allarga le braccia come per abbracciare il panorama antico.

«Quello che vedete attorno a voi è un villaggio nuragico, abitato tra il XIV e il IX secolo a.C.» indica le strutture con entusiasmo. «Un’epoca lontana, in cui la Sardegna era abitata da un popolo che ha lasciato segni profondissimi della sua esistenza: i Nuragici appunto.»

Si volta verso di noi, il viso illuminato da un sorriso.

«Sapete da cosa deriva il nome ‘nuragico’? Dai nuraghi, ovviamente.»

Sorride indicando un punto lontano tra la vegetazione.

«Quella torre laggiù, ad esempio, è un nuraghe. Uno dei migliaia disseminati su tutta l’isola.»

Ci fermiamo ad osservare la struttura appena visibile tra gli alberi.

«I nuraghi erano fortezze ma anche centri abitativi, templi, forse osservatori astronomici. Alcuni hanno una struttura complessa con torri concentriche, cunicoli, pozzi sacri. Pensate: ne esistono più di settemila e, ancora oggi, non conosciamo del tutto la loro funzione.»

Veronika annuisce, affascinata. «Settemila? Quindi era una civiltà molto più avanzata di quanto si pensasse.»

La guida si illumina.

«Esattamente. Per secoli si è pensato che i nuragici fossero una popolazione isolata e primitiva. Oggi però sappiamo che commerciavano con il mondo mediterraneo, influenzando e venendo influenzati da altre culture.»

Si ferma accanto a un’imponente lastra di pietra verticale levigata dal tempo. La superficie è segnata da segni quasi impercettibili, consumati dal vento e dalla pioggia.

«Questa è una delle strutture più importanti del sito.»

Si volta verso di noi e abbassa la voce, quasi con rispetto.

«La Tomba dei Giganti

Settemila torri di pietra e un mistero ancora da svelare.

Tomba dei Giganti (foto nurnet.net)

La leggenda dei Giganti

Ci voltiamo di scatto, come rispondendo a una chiamata silenziosa del passato.

Davanti a noi si erge una lunga sepoltura collettiva, il suo corridoio funerario ormai scoperto, incorniciato da grandi pietre disposte a semicerchio. Il tempo sembra rallentare.

«Le chiamano Tombe dei Giganti» continua la guida «perché le loro dimensioni imponenti hanno alimentato la leggenda che qui fossero sepolti esseri giganteschi.»

Skippy inclina la testa, affascinata.

La guida si avvicina alla pietra più grande e posa una mano sulla superficie ruvida.

«La realtà è diversa» spiega con tono appassionato «ma non meno affascinante. Queste tombe erano destinate ai membri più importanti della comunità nuragica.»

Indica il corridoio centrale scoperto.

«Guardate qui. Era un luogo di sepoltura, sì, ma anche di culto. Gli antichi nuragici credevano nella continuità tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Qui si riunivano per rendere omaggio agli antenati, lasciavano offerte, celebravano riti per chiedere protezione o conoscenza.»

Veronika si avvicina, le dita sfiorano la pietra più grande, come se potesse risalire indietro nel tempo solo toccandola.

«E i Giganti di Mont’e Prama?» chiede, con un filo di eccitazione nella voce. «Potrebbero essere collegati a queste tombe?»

La guida incrocia le braccia e sorride, quasi aspettandosi la domanda.

«Ah, la grande domanda.»

Si ferma un istante, assaporando il momento.

«I Giganti di Mont’e Prama sono un mistero. Statue nuragiche alte fino a tre metri trovate vicino a Cabras.»

Si avvicina a noi e abbassa la voce.

«Nessuno sa con certezza chi rappresentassero: guerrieri? Divinità? Campioni di giochi sacri? Sono unici nel loro genere, non abbiamo trovato nulla di simile in altre civiltà antiche.»

Veronika si sporge leggermente in avanti. «Quindi… potrebbero essere la prova che la civiltà nuragica aveva una cultura più complessa di quanto si pensasse?»

La guida annuisce con un sorriso enigmatico.

«La prova o almeno un indizio.»

Fa una pausa, poi aggiunge con tono più basso, quasi a voler accentuare il peso di quelle parole.

«Alcuni studiosi credono che siano la prima rappresentazione a grandezza naturale di esseri umani mai realizzata nel Mediterraneo. Se così fosse, sarebbero più antichi dei kouroi greci, scolpiti secoli dopo.»

Mi scappa un’esclamazione sorpresa.

«A grandezza naturale? Tre metri, per l’epoca, erano davvero misure da giganti!»

La guida si gira verso di me, con uno sguardo che mescola entusiasmo e mistero.

«Esattamente. Pensateci: fino a quel momento, nessuna civiltà conosciuta aveva scolpito esseri umani a dimensioni così monumentali. Gli Egizi avevano statue colossali ma raffiguravano divinità e faraoni. I Greci, invece, ancora non avevano sviluppato la loro scultura classica.»

Si ferma un istante, lasciando che il concetto si depositi.

«Se queste statue fossero davvero le prime rappresentazioni a grandezza naturale di uomini, cambierebbe tutto ciò che sappiamo sulla storia dell’arte e della scultura nel Mediterraneo.»

Veronika mi lancia un’occhiata rapida. Skippy è immobile, gli occhi spalancati.

L’entusiasmo è alle stelle.

Giganti o antenati? La leggenda scolpita nella pietra continua a sfidare il tempo.

Giganti di Mont’e Prama (foto artemagazine.it)

Il Momento della Verità

Il sentiero si stringe man mano che lasciamo la Tomba dei Giganti alle nostre spalle. La guida ci fa segno di seguirlo senza dire una parola. Le rocce scolpite dal tempo emergono dalla terra come reliquie dimenticate, testimoni di un passato che non ha ancora svelato tutti i suoi segreti. L’aria si fa più densa, il vento ha smesso di soffiare, come se anche la natura trattenesse il respiro.

Veronika cammina avanti, il passo deciso, gli occhi incollati all’orizzonte. Non parla ma il suo corpo tradisce l’agitazione. Sta aspettando. Sta cercando qualcosa.

Poi, all’improvviso, si blocca. Davanti a noi una grande roccia spunta dal terreno.

È quella della foto.

Accelera il passo, il tablet saldo tra le mani. Osserva la superficie, scansiona ogni linea, ogni imperfezione.

Per un attimo, tutto sembra perfetto. Poi, qualcosa cambia.

Veronika si blocca.

Il silenzio si fa denso, quasi tangibile.

«Che succede?» chiedo, avvicinandomi.

Le sue mani tremano leggermente mentre stringe il tablet. Lo sguardo salta dalla foto alla pietra. La sua espressione cambia: prima sorpresa, poi confusione, infine… incredulità.

Il simbolo è simile ma le linee non combaciano.

Skippy abbassa lentamente le orecchie, come se potesse percepire il peso della delusione. La guida ci osserva, incuriosita.

«C’è qualcosa che non va?»

Veronika deglutisce. La sua voce è rotta, come se le parole le pesassero sulle labbra.

«Pensavamo di aver trovato qualcosa di importante.»

La guida inclina la testa, il tono più cauto.

«Sul web abbiamo trovato una foto di questa roccia. Si vedeva questo simbolo inciso sopra. L’immagine era di pessima qualità e sgranata ma credevamo fosse identico a un simbolo scoperto in un antiquario a Bonifacio…»

Fa un respiro profondo.

«Ma ora, vedendola dal vivo, mi rendo conto che è solo simile.»

La guida si avvicina, posa una mano sulla pietra. Le sue dita scorrono lentamente sulla superficie, tracciando le linee del tempo.

Annuisce. «Capisco… sì, capisco bene.» Si volta verso Veronika, con un sorriso che non è di derisione ma di comprensione. «Sapete, l’archeologia è così. A volte trovi quello che cerchi. Altre volte trovi solo nuove domande.»

Veronika non si arrende. Con un gesto deciso, tira fuori la stoffa trovata a Bonifacio e la porge alla guida.

«Guardi. Su questo tessuto, oltre al simbolo, c’è una scritta. Pensavamo potesse essere un collegamento.»

La guida la osserva con attenzione. Passa le dita sulle lettere sbiadite, indugia su ogni segno.

Il silenzio si allunga.

«Effettivamente…» mormora infine grattandosi il mento. «Ci sono delle similitudini.» Il suo tono si fa più incerto. «Avrebbe tratto in inganno anche me.»

Uno spiraglio di speranza. Veronika trattiene il fiato.

«Quindi… potrebbe significare qualcosa?»

La guida sospira. Ci pensa un attimo, poi le restituisce la stoffa.

«Vorrei dirvi di sì ma non posso. Se ci fosse un collegamento… sarebbe una scoperta straordinaria. Tuttavia non ho elementi per confermarlo.»

Veronika stringe la stoffa tra le dita, come se potesse ancora rivelarle qualcosa.

La guida abbassa lo sguardo. «Mi dispiace.»

Silenzio.

Poi il vento torna a soffiare. Portandosi via, forse, anche un pezzo del nostro entusiasmo.

A volte la verità è sfuggente quanto il tempo che l’ha sepolta.

il simbolo sulla stoffa (foto Dall-E)

Una sentinella solitaria

Lasciamo il sito archeologico con passi più lenti.

Skippy cammina accanto a Veronika, le orecchie basse, la coda immobile. Non saltella, non lancia sguardi curiosi ai cespugli o agli uccelli che passano sopra di noi. Di solito evita ogni sforzo inutile ma ora procede come per inerzia.

Veronika scorre le immagini sul tablet ma so che non sta davvero guardando. È come se cercasse una risposta che ormai sa di non trovare.

Mi avvicino e le sfioro la spalla.

«Forse non era la pista giusta… ma magari stiamo solo guardando nel posto sbagliato.»

Lei non dice nulla, si limita ad annuire, lo sguardo ancora perso nel vuoto.

Ci allontaniamo senza parlare. Il sentiero si snoda lungo la costa, tra scogliere a picco sul mare. Il suono delle onde riempie il silenzio tra noi. Veronika ha lo sguardo perso all’orizzonte ma so che sta guardando ben oltre. Sta cercando qualcosa. Sta cercando un senso.

Io non so cosa dirle.

Il faro di Capo Testa si staglia davanti a noi, bianco, immobile, affacciato sull’orizzonte aperto. Un tempo la sua luce guidava i marinai tra queste acque insidiose. Oggi sembra solo vegliare sui pensieri di chi lo osserva.

Veronika si appoggia alla ringhiera, fissando il mare. «E se avessimo sbagliato tutto?»

La sua voce è bassa. Non cerca una risposta. Cerca una certezza.

Per un attimo vorrei trovarla anch’io ma non so se esista. Respiro a fondo. L’odore del mare riempie i polmoni. Un’onda si infrange contro le rocce, schizzando in alto, come se volesse raggiungerci.

Rimaniamo lì, fermi, in silenzio. La luce del giorno comincia ad abbassarsi. Le ombre si allungano sulle scogliere, il cielo assume sfumature dorate.

Guardo il mare con lei. Le onde continuano a infrangersi, indifferenti alla nostra frustrazione.

Poi, senza voltarmi, cerco di alleggerire l’aria.

«Andiamo a mangiare qualcosa di tipico?»

Di solito, queste parole basterebbero a riportarla alla realtà, a farle brillare gli occhi.

Oggi non funziona.

Lei non si muove, non alza lo sguardo. La sua mente è ancora persa tra quelle pietre e simboli incomprensibili.

Come il faro veglia sul mare, anche i dubbi restano immobili, in attesa di una nuova rotta.

Faro di Capo Testa (foto discovergallura.it)

tra storia e mare

Arriviamo a Santa Teresa di Gallura, le case bianche e basse, tipiche dell’architettura mediterranea, si affacciano sulle viuzze strette, immerse tra fioriere e terrazze colorate. Le strade, pavimentate con pietra chiara, riflettono la luce dorata del tramonto.

L’aria profuma di salsedine e cucina casalinga. Dalle finestre aperte escono voci e risate, mescolandosi al suono del vento che porta con sé il respiro del mare.

Santa Teresa ha un fascino discreto, un piccolo borgo affacciato su un passato di marinai, pescatori e commercianti. La sua storia è legata a Bonifacio, la città corsa che si intravede all’orizzonte nelle giornate limpide e nella quale abbiamo passato gli ultimi giorni.

Ora sembra così lontana.

Fu fondata da Vittorio Emanuele I di Savoia per difendere questa costa dalle incursioni piratesche e rafforzare il controllo sardo su queste acque instabili.

Oggi è un luogo dove il turismo si mescola alle tradizioni locali, dove ogni via sembra accoglierti con il calore di un paese che ha imparato a vivere tra mare e vento.

Ma noi non siamo qui per il turismo.

Siamo qui per cercare risposte.

E oggi, quelle risposte non sono arrivate.

A volte le risposte sembrano così vicine da poterle sfiorare ma restano comunque irraggiungibili, come una città sull’orizzonte.

Santa Teresa di Gallura (foto sardegna.info)

il cielo della Sardegna

Propongo un ristorantino che sembra promettente ma Veronika si ferma.

«Preferisco prendere qualcosa da asporto. Poi, scusa ma non ho proprio fame.»

La sua voce è piatta, senza energia. Capisco come si sente. Non ha voglia di stare seduta in un ristorante, così continuiamo a camminare tra i vicoli, senza una meta precisa.

Troviamo un piccolo localino che serve pane carasau caldo con pecorino fuso e miele, una specialità semplice ma perfetta da mangiare passeggiando. Prendiamo anche una porzione di seadas, il tipico dolce fritto ripieno di formaggio, per addolcire l’amarezza della giornata.

Camminando arriviamo fino alla spiaggia di Rena Bianca a pochi passi dal centro. Scendiamo verso la battigia, il rumore delle onde che si infrangono sulla sabbia chiara ci avvolge.

Ci sediamo, il mare davanti a noi immenso e indifferente ai nostri pensieri.

Veronika prende un morso dal pane ma lo mastica distrattamente. Poi abbassa lo sguardo.

«Mi dispiace.»

La sua voce è un soffio.

Mi volto verso di lei, sorpreso. «Per cosa?»

«Per averti portato fin qui… per averti fatto credere che questa fosse una pista sicura.»

Scuoto la testa. Non è così che voglio che la veda.

«Veronika, anche io volevo questa avventura. E comunque…» Fisso l’orizzonte per un istante, poi la guardo e sorrido. «Ti seguirei ovunque.»

Veronika mi osserva, il tramonto riflesso nei suoi occhi chiari. Per un attimo, il peso della giornata sembra alleggerirsi. Skippy si accoccola tra noi, il musetto rivolto verso il mare. Senza pensarci, ci stringiamo tutti e tre, lasciando che il rumore delle onde ci avvolga.

Restiamo così per un po’, ascoltando solo il respiro del mare. Non abbiamo trovato quello che cercavamo ma siamo ancora insieme.

E forse, per ora, è abbastanza.

Le onde portano storie da lontano ma alcune risposte restano sepolte nella sabbia del tempo.

Spiaggia di Rena Bianca (foto sardegnaturismo.it)

Incontro inaspettato

Torniamo verso il centro. Veronika, anche se è ancora presto, vuole rientrare in albergo. Cammina in silenzio, le braccia strette attorno a sé, persa nei suoi pensieri.

Il brusio della cittadina si affievolisce man mano che ci addentriamo nei vicoli. L’aria è più fresca ora, la brezza marina si insinua tra le strade strette, mescolandosi ai profumi delle cucine che cominciano a riempirsi di voci e risate.

Poi, mentre giriamo un angolo, qualcuno ci nota e si blocca.

«Voi…»

La voce ci coglie di sorpresa. Ci giriamo e vediamo una sagoma nel crepuscolo. La poca luce del tramonto non ci permette di distinguere bene il volto ma la postura, il modo in cui si aggiusta la tracolla sulla spalla, ci sono familiari.

Solo quando si avvicina abbastanza lo riconosciamo. È la guida del sito archeologico.

Ci scruta per un istante, poi si passa una mano sulla nuca, come chi sta valutando se parlare o lasciar perdere.

«Non pensavo di incontrarvi di nuovo» dice infine, con un mezzo sorriso incerto. «Ma vi ho pensato tutto il tempo, quando siete andati via mi è venuta in mente una cosa e… forse potrebbe interessarvi.»

Esita un attimo, poi prosegue.

«Una mia collega, ora in pensione… Gavina, se non ricordo male. Anni fa seguiva una pista simile alla vostra o almeno qualcosa di collegato a quei simboli.»

Veronika si illumina all’istante. L’energia che sembrava spenta per tutta la serata riaffiora nei suoi occhi.

«Dove possiamo trovarla?» chiede senza esitazione.

Lui scuote la testa.

«Non lo so con certezza.» Si passa una mano tra i capelli, pensieroso. «Dopo il pensionamento ho perso le sue tracce. So solo che viveva qui a Santa Teresa di Gallura. Forse è ancora in zona.»

Veronika annuisce. Il suo sguardo è già proiettato altrove, la sua mente sta già cercando una soluzione.

«Grazie.»

La guida ci osserva un istante, poi sorride appena.

«Mi sembrava giusto dirvelo. Forse non è nulla… o forse vi porterà più lontano di quanto pensiate.»

Ci stringiamo la mano e lo salutiamo. Lui riprende il cammino, perdendosi tra le ombre della sera, mentre noi proseguiamo verso l’albergo.

Appena entriamo in camera Veronika si lascia cadere sul letto e, senza dire nulla, apre il tablet. Skippy, attenta, si sistema accanto a lei.

Io le osservo per un attimo, sorridendo tra me. Le rivedo finalmente speranzose e questo basta per farmi sentire meglio.

Prendo il necessario e decido di farmi una doccia. L’acqua calda mi scorre sulla pelle, sciogliendo la tensione accumulata durante la giornata. Mi prendo il mio tempo, lasciando che il rumore dell’acqua copra i pensieri.

Quando esco dal bagno, Veronika è ancora lì, lo sguardo incollato al tablet.

«L’ho trovata.»

Mi fermo un attimo, asciugamano ancora tra le mani.

«E le hai scritto?»

«Sì ma ancora nessuna risposta.»

Mi siedo accanto a lei e le passo una mano sulla spalla.

«Diamo tempo al tempo.» Le sorrido, cercando di rassicurarla.

Veronika annuisce ma il suo sguardo non si stacca dallo schermo.

Aspetta. Sperando che qualcosa cambi.

A volte le risposte non vanno cercate, sono loro a trovare te, quando meno te lo aspetti

La Guida di Lu Brandali (foto leonardo.ai)

La risposta che non arriva

La stanza è immersa in una calma irreale. Veronika continua a scorrere il tablet, anche se ormai ha controllato tutto più volte.
Skippy, stanca di aspettare, si è accoccolata accanto a lei ma tiene ancora un occhio aperto, come se anche lei fosse in attesa di qualcosa.

Mi stiracchio, pronto a spegnere la luce.
«Dai, dormiamoci su…»

Veronika esita. Il pollice sospeso a mezz’aria sopra lo schermo. Guarda ancora il tablet, poi sbuffa piano e chiude la chat, le dita lente sul touchscreen.
«Hai ragione…» sussurra.

Si appoggia allo schienale, lasciando che la stanchezza la avvolga.
Skippy si stiracchia con un lungo sbadiglio e le si accoccola accanto, in silenzio.

Le luci si abbassano, la stanza scivola nel buio.
Veronika sospira, chiude gli occhi per un momento. Poi li riapre. Allunga la mano verso il tablet, indecisa se dare un ultimo sguardo.

Si ferma.

Poi, lentamente, spegne lo schermo.

Nessuno lo dice. Ma stiamo tutti aspettando solo una cosa.

Risponderà?

11 + Diario di Volo Bonifacio Santa Teresa

Decollo da Firgi

Il pannello del motore è ancora aperto, le mani si muovono con gesti ormai automatici mentre eseguo gli ultimi controlli. Un’occhiata all’olio, ai cablaggi, agli scarichi. Tutto in ordine. L’aria del mattino è ferma, carica di quella tensione elettrica che precede ogni decollo.
Alzo lo sguardo e osservo il Cessna 172, immobile sulla piazzola dell’aeroporto di Figari Sud-Corse, pochi chilometri a nord di Bonifacio. Dopo giorni di manutenzione e attesa è finalmente arrivato il momento di ripartire. Questa non è solo una tappa, è l’inizio di un nuovo viaggio. Una nuova direzione, senza un piano definito. Abbiamo deciso solo la prima destinazione. Il resto lo scopriremo strada facendo, come sempre.

Mi giro verso Veronika che, con un panno ormai annerito dall’uso, sta passando l’ennesima mano sulla carlinga. Un gesto quasi inconsapevole, la testa persa in qualche pensiero.
Alzo un sopracciglio e le sorrido. “Direi che può bastare. Se continua così, penseranno che l’abbiamo appena ritirato dalla fabbrica.”

Lei sorride imbarazzata, tornando al mondo reale, lasciando finalmente il panno. Nei suoi occhi brilla quella scintilla particolare che conosco bene. Non è solo l’emozione di ripartire. È la frenesia della scoperta. Il simbolo inciso su quel pezzo di stoffa, il mistero che avvolge il suo significato, il collegamento con la Sardegna… tutto la spinge avanti. Prova a dissimulare ma lo percepisco in ogni suo gesto.

Un movimento all’interno della cabina cattura la mia attenzione. Skippy, la nostra piccola mascotte, è già al posto del copilota, intenta a controllare la checklist pre-volo a modo suo. Le sue grandi orecchie da fennec vibrano leggere a ogni suono, gli occhialoni da pilota spinti sulla fronte come quelli di un aviatore d’altri tempi.

“Skippy, cominciamo con i controlli.”

Si raddrizza di scatto, concentrata. Ha imparato a memoria alcune procedure e, nei limiti del possibile, mi aiuta nei controlli mentre io concludo l’ispezione esterna.
Ad ogni mia richiesta, effettua il controllo e poi alza la zampa per confermarmi che tutto è ok.
Sorrido. Mi piace quest’atmosfera da squadra affiatata, dove ognuno ha il proprio compito e lo svolge con precisione.

Finiti i controlli chiudo il pannello del motore, do un’ultima occhiata attorno e salgo in cabina. Skippy esegue un piccolo balzo sui sedili posteriori e si allaccia la cintura. Veronika si sistema accanto a me, indossa le cuffie e comunica per radio.

Figari Ground, Cessna November 172SW, richiediamo autorizzazione all’accensione motore e al rullaggio.”
La risposta arriva pochi istanti dopo, un suono ovattato nelle cuffie. Siamo autorizzati a rullare verso la pista 23.

Veronika mi fa un cenno con la mano. Posso accendere il motore.
Indosso anche io le cuffie, respiro profondamente poi giro la chiave d’accensione.

L’elica inizia a muoversi. Il suono del motore cresce, un rombo profondo e familiare che risuona nel petto. Un suono che segna la fine dell’attesa.
Rilascio i freni. L’aereo scivola sulla taxiway, dirigendosi verso la pista di decollo. Ci muoviamo lentamente ma in cabina l’energia è palpabile.

Veronika controlla il tablet di bordo, ancora rapita dall’idea di ripartire. Skippy ha il musetto appoggiato al vetro, completamente immersa nel momento. Io, invece, sento il peso della responsabilità che mi scorre lungo la schiena.
Essere il pilota significa essere responsabile. Sempre. Ogni volo porta con sé un carico di concentrazione, ogni decollo è una promessa di portare a destinazione il mio equipaggio sano e salvo. Eppure c’è anche l’adrenalina.
L’emozione che cresce, quella vibrazione nel petto che dice che stiamo andando verso l’ignoto.

Ci fermiamo prima dell’ingresso in pista, come da procedura. Attendiamo l’autorizzazione all’accesso, regolato per garantire la massima sicurezza e impedire possibili collisioni.

Guardo Veronika, lei guarda me.

Per un istante nessuno parla. C’è emozione nei suoi occhi, la stessa che so essere nei miei. Ci prendiamo la mano, un gesto semplice ma che porta con sé tutta la forza di cui abbiamo bisogno.

Poi, finalmente, la voce della torre rompe l’attesa.

“Cessna November 172SW, autorizzati al decollo, pista 23, direzione sud-est.”

Ci siamo.

Entro in pista e spingo la manetta in avanti.
Il rumore del motore cresce di intensità, le vibrazioni aumentano mentre l’aereo prende velocità, la pista scorre sotto di noi.

Controllo l’indicatore della velocità. 40… 50… a 65 nodi, tiro leggermente il volantino verso di me.

C’è quel momento perfetto, sospeso tra il suolo e il cielo, in cui il peso dell’aereo non è più sostenuto dalle ruote ma ancora non siamo del tutto in volo.

Poi il momento in cui tutto cambia. Le ruote lasciano la pista.

Siamo in aria.

Lascio che l’aereo guadagni quota, il profilo della Corsica inizia a rimpicciolirsi sotto di noi.

Una nuova avventura è appena iniziata.

Ogni ripartenza porta con sé il brivido dell’ignoto e la promessa di nuove scoperte.

il Cessna con le protezioni in attesa sulla piazzola (foto flight simulator 2024)

Saluto alla Corsica

Virando dolcemente verso sud allineo il muso del Cessna 172 in direzione della nostra meta: la Sardegna. Il sole del mattino illumina il mare sotto di noi, creando un contrasto quasi surreale tra il blu profondo dell’acqua e il bianco delle falesie di Bonifacio che si stagliano come una muraglia naturale.

Siamo stati qui per giorni, abbiamo camminato lungo quei bastioni, abbiamo respirato la storia di questa cittadella medievale. Eppure, vederla ancora dall’alto le restituisce un fascino diverso.

“Guarda il porto” dice Veronika, indicando in basso. “Non sembra quasi sparire dentro le rocce?”

Abbasso lo sguardo e osservo il piccolo fiordo naturale che ospita il porto di Bonifacio. Un rifugio perfetto, nascosto tra le falesie, quasi invisibile dal mare aperto. Da terra sembrava già incredibile, con le sue acque placide incastonate tra pareti di pietra ma, da quassù, la sua forma si rivela ancora più sorprendente.

“Non c’è da stupirsi che fosse un punto strategico perfetto” rispondo. “Difficile da vedere, facile da difendere. Chiunque cercasse di assediare la città doveva prima trovare il modo di entrare.”

Sorvoliamo lentamente la cittadella. Le case si affacciano a picco sul vuoto, alcune così vicine al bordo che sembrano sospese nell’aria.

“Sai cosa ho letto che mi sono dimenticata di dirti?” riprende Veronika. “Le falesie sono in costante arretramento. Il vento e il mare le erodono giorno dopo giorno.”

“Immaginavo… ma quanto possono essere cambiate?”

“Abbastanza da inghiottire una casa intera.” Fa una pausa, poi continua: “Nel 1966 un intero tratto di costa crollò improvvisamente. Una casa, con dentro i suoi abitanti, finì giù insieme a una parte delle fortificazioni originali.”

Resto in silenzio per un istante, lasciando che il peso di quelle parole si depositi tra noi. Bonifacio, con la sua imponenza, sembra eterna. E invece anche le pietre che la sorreggono sono vulnerabili.

Scambiamo un ultimo sguardo con la città che ci ha ospitati. Bonifacio è stata la nostra tappa di arrivo, il punto in cui le prime dieci tappe del nostro viaggio si sono concluse. Ora, vederla allontanarsi sotto di noi segna davvero la fine di quel capitolo.

Veronika sospira e appoggia la testa al sedile. “Mi mancherà un po’” ammette con un sorriso malinconico. Poi scuote la testa e aggiunge con leggerezza: “Ma devo essere sincera… cominciavo ad annoiarmi.”

Sorrido, perché in fondo la penso allo stesso modo. Abbiamo atteso fin troppo per ripartire. Ora, con la rotta puntata a sud, tutto sembra di nuovo possibile.

Dal cielo ogni luogo svela una nuova anima: Bonifacio non fa eccezione.

Il Porto di Bonifacio visto dal Cessna (foto flight simulator 2024)

Bocche di Bonifacio

Il tratto di mare che separa la Corsica dalla Sardegna: le famose Bocche di Bonifacio si staglia ora avanti a noi. Un passaggio breve, meno di 12 chilometri di mare aperto, eppure insidioso. Le correnti qui sono imprevedibili, il vento può cambiare direzione in un istante. Anche dall’alto il mare sembra quasi avere una sua volontà, con scie bianche di schiuma che si formano e si dissolvono senza un apparente ordine.

“Non è un caso che queste acque siano tra le più temute dai marinai” dico, ricordando le parole di un pescatore di Bonifacio.

Veronika annuisce. “Leggevo anche che alcuni storici pensano che Ulisse sia passato proprio di qui. Lo sapevi?”

La guardo con curiosità.

“Davvero?”

“Sì. Nell’Odissea, l’episodio dei Lestrigoni – i giganti cannibali che distrussero la flotta di Ulisse – potrebbe essere ambientato in queste acque. Bonifacio, con le sue pareti a strapiombo, ricorda proprio la descrizione della terra dei Lestrigoni, con un porto stretto e nascosto tra le rocce.”

Dalle mie spalle Skippy si allunga verso il finestrino, le zampette premute sulla cornice, il musetto quasi incollato al vetro. Al solo sentire la parola “giganti” ha drizzato le orecchie, l’eccitazione evidente nel piccolo fremito della coda. Prova a contenersi, proprio come Veronika, ma ormai la conosco troppo bene per non notarlo. Sta aspettando, paziente, che ci dirigiamo verso quello che davvero la interessa.

Faccio finta di nulla e osservo ancora il mare sotto di noi. Immagino quelle antiche navi, intrappolate tra le falesie, i marinai presi dal panico mentre le imbarcazioni venivano fatte a pezzi da enormi massi scagliati dall’alto.

“Beh, se fosse vero, direi che abbiamo fatto bene a sorvolarlo invece che ad affrontarlo via mare” commento con un sorriso.

Veronika ride, poi il suo sguardo si sposta a est, la sua espressione cambia. “Quella invece è l’Isola di Lavezzi. Un puntino di terra circondato da scogli affioranti, un luogo che da quassù sembra tranquillo… ma che cela una delle tragedie più drammatiche della storia della navigazione.” Fa una pausa. I suoi occhi restano fissi sull’isola, poi riprende. “Lì, nel 1855, la fregata francese Sémillante, una nave della Marina imperiale, si schiantò sugli scogli durante una tempesta. A bordo c’erano circa 700 uomini. Nessuno si salvò.”

Rimane in silenzio per un attimo, come se potesse sentire il peso di quella storia.

“I pescatori della zona evitano ancora l’isola nelle notti di tempesta” riprende dopo un attimo di riflessione. “Dicono che, in quelle notti, il vento porti ancora i lamenti dei naufraghi.”

Una raffica improvvisa scuote l’aereo, spezzando per un attimo il silenzio. Per un istante, lasciamo che sia solo il rumore del motore a riempire la cabina. Il mare sotto di noi continua a cambiare, mostrando vortici e correnti che sembrano disegnare sentieri invisibili sulla superficie dell’acqua.

“Eccola” dico, stringendo leggermente i comandi. “Ci siamo quasi.”

Tra gli scogli della Lavezzi riecheggia il passato: il vento non dimentica le tragedie del mare.

la piccola isola di Lavezzi (foto flight simulator 2024)

L’Arcipelago della Maddalena

Le scogliere imponenti della Corsica lasciano spazio alle dolci colline sarde, punteggiate da macchia mediterranea e interrotte dai massicci granitici che si tuffano nel mare. Il passaggio è netto, quasi come se il mare separasse non solo due terre ma due mondi.

L’Arcipelago della Maddalena si dispiega come un mosaico di isole e calette immerse in un mare che varia dal turchese al verde smeraldo. Sette isole principali e una miriade di isolotti più piccoli, un paradiso che per secoli ha visto passare navigatori, eserciti e avventurieri.

“Guarda lì sotto.”

Quasi grido per l’emozione a Veronika in cuffia mentre sorvoliamo Budelli, con la sua leggendaria Spiaggia Rosa. Un angolo di paradiso unico al mondo, protetto per impedirne il degrado.

“Quella è la Spiaggia Rosa di cui mi parlavi?” chiede Veronika.

Annuisco. “Sì. Il suo colore viene da minuscoli frammenti di conchiglie e coralli. Un tempo la sabbia era ancora più rosa ma il turismo incontrollato l’ha rovinata. Le persone portavano via la sabbia come ricordo. Per questo oggi è vietato avvicinarsi: nel 1994, con l’istituzione del Parco Nazionale dell’Arcipelago della Maddalena, l’intera area è stata protetta per preservarne la bellezza.”

Veronika osserva ancora per qualche secondo l’isola che scivola sotto di noi. “Forse è meglio così. Alcune cose dovrebbero restare intatte. Soprattutto se non si ha la capacità di rispettarle.”

Proseguiamo sopra Caprera, l’isola che ospitò l’ultimo capitolo della vita di Giuseppe Garibaldi.

“Là sotto, tra la macchia mediterranea, c’è la Casa di Garibaldi.” dico, poi mi giro verso Skippy. “Sai chi era?”

Lei scuote la testa poi la inclina curiosa, le orecchie ben dritte.

“Un grande condottiero” continuo. “Uno di quei personaggi che hanno segnato la storia italiana. Ha combattuto per unificare l’Italia ma, dopo anni di guerre e battaglie, ha scelto di ritirarsi qui, lontano dalla politica e dalle tensioni del nuovo Stato.”

“Perché proprio qui?” chiede Veronika.

“Sembra che Garibaldi visitò Caprera per la prima volta nel 1855 e se ne innamorò. Comprò un pezzo di terra e costruì la sua casa. Dopo la presa di Roma nel 1870, quando ormai il suo sogno di un’Italia unita si era realizzato, scelse di ritirarsi definitivamente qui, lontano dalla politica e dalle guerre.”

Skippy inclina la testa, perplessa. Poi lancia uno sguardo rapido verso Veronika, come a cercare conferma.

“È vero” dice lei sorridendo. “E pensa che per un periodo i governi europei lo consideravano un pericolo, perché ovunque andasse c’era una rivoluzione.”

Skippy sbatte le palpebre, perplessa.

“Prima dell’Italia ha combattuto in Sud America” aggiungo. “In Brasile, in Uruguay… sempre dalla parte di chi voleva libertà e giustizia. Ovunque andasse la sua camicia rossa diventava il simbolo della rivolta. Per questo lo chiamavano ‘l’Eroe dei Due Mondi’.”

Skippy fissa l’isola ancora per un po’, poi torna a incollarsi al finestrino, osservando l’acqua sotto di noi come se volesse imprimere nella memoria ogni sfumatura di quel mare.

“Abbiamo ufficialmente raggiunto la Sardegna” annuncio. “Ora inizia davvero il nostro viaggio.”

Tra due mondi divisi dal mare, abbiamo trovato un luogo che chiede solo di essere rispettato.

l’Isola di Caprera (foto flight simulator 2024)

Costa Smeralda

Il paesaggio inizia a cambiare mentre seguiamo la costa della Gallura.

Veronika ha preso la sua immancabile guida e ha iniziato a scorrerne le pagine da quando abbiamo lasciato Caprera.

“Siamo sulla Costa Smeralda dice, leggendo. “O meglio, in quello che fino a pochi decenni fa era solo un angolo isolato della Sardegna.” Fa scorrere lo sguardo sulle righe successive, poi riprende. “Fino agli anni ’60 qui c’erano solo pascoli e stazzi, le tradizionali fattorie sarde. Non c’erano strade, né porti turistici, né ville. Solo terra dura, vento e greggi di pecore. A quanto pare tutto cambiò quando il principe Karim Aga Khan IV, facente parte dell’élite internazionale e, sembra, discendente del profeta Maometto, scoprì questa costa e decise di trasformarla in una meta esclusiva per miliardari e celebrità.”

“È stato questo principe a volerla rendere un paradiso per i ricchi?” chiedo curioso.

Lei scorre il dito sul testo. “Sembra proprio di sì e ha subito attirato investitori e architetti da tutto il mondo. Ah, senti questa. Il nome ‘Costa Smeralda’ non è stato scelto solo per il colore dell’acqua. Uno degli imprenditori coinvolti nel progetto, Giuseppe ‘Kerry’ Mentasti, voleva chiamarla ‘Costa Esmeralda’, in onore di sua figlia Esmeralda. Poi si decise di togliere la ‘E’ per renderlo più elegante e più italiano.”

Guardo giù ascoltandola, proprio mentre sorvoliamo lentamente l’Hotel Cala di Volpe, una delle icone della Costa Smeralda. La sua architettura è inconfondibile, con forme arrotondate e dettagli che ricordano un antico borgo.

Veronika aggrotta la fronte, leggendo un passaggio. “Aspetta… qui dice che vicino all’hotel ci sono delle rovine medievali.” Poi si ferma e sorride. “Senti questa, sono rovine false, create ad arte. La guida dice che furono progettate dall’architetto Jacques Couëlle. Pensava che un’aria di antichità avrebbe reso tutto più esclusivo, così ha costruito delle finte rovine medievali accanto all’hotel.”

Scoppio a ridere. “Quindi… hanno letteralmente inventato una storia per rendere il posto più esclusivo.”

“E non è l’unica cosa surreale successa qui. Negli anni, in Costa Smeralda si sono organizzate le cose più assurde: gare di cavalli sulla spiaggia, feste su yacht da milioni di euro, persino James Bond ci è passato nel 1977, nel film La spia che mi amava.” Prosegue, divertita. “Abbiamo appena sorvolato spiagge protette dove è vietato persino camminare per non rovinare la sabbia… e qui sotto c’è gente che atterra in elicottero per prendere un caffè da 50 euro.”

Sorrido. “Due mondi diversi, separati da pochi chilometri.”

Il contrasto tra la natura selvaggia della Gallura e l’opulenza della Costa Smeralda è evidente mentre sorvoliamo la costa. Poi, con una virata lenta, iniziamo a lasciarci alle spalle il lusso sfrenato, puntando verso la nostra prossima destinazione.

Bastano pochi chilometri per passare dal selvaggio al lusso ma il vero viaggio è saper riconoscere entrambi.

Porto Cervo visto dal Cessna (foto flight simulator 2024)

Crescendo di emozioni

Tornando verso nord il lusso e l’eleganza della Costa Smeralda lasciano spazio a una natura più selvaggia e autentica. Le spiagge affollate scompaiono, sostituite da insenature rocciose e tratti di costa quasi inaccessibili.

Dopo Cala di Volpe in cabina è calato un silenzio quasi strano. Veronika è rimasta assorta nei suoi pensieri, lo sguardo fisso sull’orizzonte. La conosco bene: sta aspettando il momento giusto per dire qualcosa che le gira in testa.

Penso di sapere cosa ma comunque non devo aspettare molto.

“Alloraaaaaa” dice all’improvviso, rompendo il silenzio “torniamo a parlare di cose serie?”

Prima che possa risponderle Skippy salta in avanti con un piccolo balzo e si sistema sulle gambe di Veronika, incrociando le braccia mentre mi osserva.

Sorrido “Ma quindi è tutto un complotto? Stavate aspettando di essere lontane dal giro turistico per tornare all’attacco?”

Veronika sorride “Ti abbiamo fatto vedere le cose che volevi tanto osservare dall’alto. Ora tieni pure il tuo scetticismo per un po’” dice, scrollando le spalle. “Ma sentimi bene…”

Sospiro con esagerazione, come se stessi per ascoltare una teoria improbabile, anche se in realtà sono curioso di sapere dove vuole arrivare.

Lei prende il pezzo di stoffa con il simbolo che abbiamo trovato e lo indica con il dito.

“Okay, quindi?”

“Quindi questo simbolo non è casuale.”

Veronika si ferma un attimo, come se stesse cercando le parole giuste. Poi, con un gesto deciso, rigira il tessuto e lo inclina leggermente verso la luce del finestrino.

“E non c’è solo il simbolo” continua. “Ricordi la scritta?”

Ricordo le parole spezzate, incomplete ma con un senso chiaro:

“…su tempus… nos eramus… su tempus… torneremos…”

Veronika incrocia le braccia. “Nel tempo eravamo, nel tempo torneremo. Se lo colleghiamo al simbolo… potrebbe essere un riferimento ai Giganti.”

Sollevo un sopracciglio. “Ai Giganti di Mont’e Prama?

Lei annuisce con convinzione. “Alcuni sostengono che la loro civiltà sia molto più antica di quanto pensiamo. E se questo fosse un indizio che qualcuno di loro è sopravvissuto più a lungo?”

Mi appoggio allo schienale e sorridendo le chiedo “Se erano giganti… perché la scritta è così piccola?”

Skippy sbuffa e si gira di scatto, la coda che si muove seccata. È chiaro: per lei sono senza speranza.

Veronika sospira. “Sei insopportabile quando fai così.”

Rido. “Mi stai dicendo che dei colossi alti tre metri incidevano testi in miniatura?”

Lei mi lancia un’occhiataccia, poi guarda il pezzo di stoffa, come se cercasse una nuova chiave di lettura. “Forse non erano loro a scriverlo… ma qualcuno che conosceva la loro storia.”

Ora ha la mia attenzione, anche se cerco di non darlo a vedere.

“Stai dicendo che potremmo trovare un altro pezzo di questo puzzle in questo sito archeologico che vuoi visitare?”

“Non lo sto dicendo io. Lo dice la storia. Lo dicono queste immagini.” Avvicina di nuovo la stoffa allo schermo, sovrapponendola all’immagine.

Skippy batte la zampa prima contro la stoffa, poi contro il tablet, approvando con entusiasmo la teoria di Veronika.

Rido e scuoto la testa. “E così siamo passati dal viaggio turistico alla caccia al tesoro?”

Veronika si gira verso di me, gli occhi brillano. “No, Camillo. Siamo passati dal turismo all’indagine storica. Questa potrebbe essere una scoperta importante.”

Guardo di nuovo l’immagine sul tablet, poi osservo la costa sotto di noi. Santa Teresa di Gallura è ormai vicina.

Inspiro profondamente. Non so ancora cosa stiamo cercando ma so che ormai non posso più ignorarlo. Il loro entusiasmo è contagioso… e ora sono dentro anch’io.

Ogni indizio è una porta sul passato ma solo chi sa guardare oltre può trovarne la chiave.

Santa Teresa di Gallura vista dal Cessna (foto flight simulator 2024)

Santa Teresa di Gallura

Arriviamo a Santa Teresa di Gallura, adagiata sulla costa settentrionale della Sardegna. Il porto, con le sue barche ordinate e le strade perfettamente allineate danno alla cittadina un’aria quasi ligure, un dettaglio che si nota subito dall’alto.

Guardo di sfuggita Veronika. Sorride, gli occhi fissi sulla terra che si avvicina, il tablet ancora tra le mani, come se già stesse immaginando cosa troveremo laggiù.

Skippy, invece, è decisamente meno discreta. È appoggiata con tutto il musetto al vetro, la coda che oscilla con impazienza. Il messaggio è chiaro: atterriamo e muoviamoci.

Sorrido. Anche se non lo ammetterò mai, mi stanno contagiando.

Un ultimo sguardo al porto, poi mi dirigo verso la pista che è più davanti. Mi concentro sulla discesa. La pista è un semplice campo volo con fondo in erba ed fatico ad individuarla. Niente cemento o asfalto questa volta, nulla che non abbia già affrontato ma richiede comunque più attenzione di un normale atterraggio su pista.

Finalmente la vedo, effettuo una virata e abbasso la velocità, il muso del Cessna si inclina dolcemente mentre allineo l’aereo alla traiettoria finale. L’erba si avvicina rapidamente.

Le ruote toccano terra con un leggero sobbalzo e il rumore dell’erba sotto di noi è più ovattato rispetto all’asfalto. Rallento con delicatezza mentre il velivolo scivola sulla superficie naturale, lasciando una scia sottile tra i fili d’erba mossi dal vento.

Silenzio.

Poi, un suono inconfondibile:

Skippy che stacca le cinture con un gesto deciso, pronta a scattare fuori anche se l’aereo è ancora in movimento.

Veronika ridacchia. “Siamo sicuri che riesca ad aspettare che spegniamo il motore?”

Skippy si gira verso di me, sbuffa e incrocia le braccia, chiaramente esasperata dalla nostra lentezza.

Scuoto la testa, ridendo. Spengo il motore, tiro i freni di parcheggio e mi giro di nuovo verso di lei.

“Adesso puoi.”

Neanche il tempo di finire la frase. Veronika allunga la mano, la portiera si apre di scatto e Skippy schizza fuori come un proiettile.

Io e Veronika ci guardiamo.

Sospiro, scuoto la testa e slaccio la cintura.

“Bene… immagino che la nostra esplorazione sia ufficialmente iniziata.”

l’avventura continua anche quando mettiamo piede a terra.

Atterrati a Santa Teresa di Gallura (foto flight simulator 2024)

06 + Diario di Viaggio Elba

Una sorpresa speciale

Dopo l’atterraggio a Marina di Campo spendiamo più tempo del previsto per sistemare le ultime formalità. Documenti da firmare, dettagli sulla sosta del Cessna… il protocollo viene prima di tutto. Solo dopo possiamo finalmente lasciare l’aeroporto e recuperare un’auto a noleggio.

Mentre ci avviamo all’uscita, un piccolo dettaglio cattura la mia attenzione: un cartello al chiosco delle informazioni turistiche.

Cena storica alla Fortezza Falcone – piatti napoleonici, racconti teatralizzati.

L’idea mi affascina all’istante. Controllo rapidamente, ci sono ancora posti disponibili. Non ci penso due volte: prenoto per tutti e tre. Un’occasione del genere non si trova tutti i giorni e, senza volerlo, ho appena aggiunto un tocco speciale a questa nuova visita sull’Elba.

Nonostante l’entusiasmo, la stanchezza si fa sentire. È ancora mattina presto, ma le giornate di viaggio hanno lasciato il segno. Decidiamo di concederci una pausa nella casetta che abbiamo affittato a Procchio prima di ripartire alla scoperta dell’isola.

Arrivati, troviamo una sorpresa inaspettata: una terrazza che si apre su una vista mozzafiato del mare. Non ci avevo fatto caso al momento della prenotazione, ma ci è subito chiaro che non potevamo capitare in un posto migliore.

«Questa casetta è meravigliosa!» esclamo, avvicinandomi alla ringhiera per assaporare la vista.

Veronika si guarda intorno soddisfatta. «Perfetta per rilassarsi un po’ prima della serata, hai scelto bene.» Poi, con un sorriso leggermente imbarazzato, aggiunge: «Ti dispiace se mi prendo un po’ di tempo per me? Ho davvero bisogno di uno shampoo fatto bene e di una sistemata generale. Ieri, a casa della signora Marina, non sono riuscita a sistemarmi come volevo.»

Le sorrido, capendo perfettamente il suo bisogno di sentirsi al meglio.

«Prenditi tutto il tempo che ti serve. Io resto qui a godermi la terrazza. Ho bisogno di riposare un po’ anche io.»

La osservo mentre si allontana, poi mi accomodo su una poltroncina di vimini. La brezza marina, il suono delle onde che si infrangono sulla riva, il tepore del sole del mattino. Mi lascio avvolgere da questa calma perfetta.

Skippy, con la sua solita capacità di cogliere il momento giusto per rilassarsi, si acciambella sulla poltroncina accanto a me e si addormenta quasi subito. Anche lei, evidentemente, ha accumulato un bel po’ di stanchezza.

Questo è esattamente ciò di cui avevamo tutti bisogno.

Ogni viaggio, anche il più breve, è l’occasione per fermarsi, riflettere e prepararsi al nuovo capitolo che ci attende. A volte è nella quiete che troviamo la vera ricchezza del viaggio

la spiaggia di Procchio (foto hotelvillasangiovanni.com)

Una Lezione di Carlo

Mi sto rilassando, ma la testa mi si riempie di pensieri. Prendo il telefono e decido di chiamare Carlo.

Dopo qualche squillo, la sua voce squillante arriva dall’altro capo con la consueta energia.

Parliamo qualche minuto di cose leggere: dove siamo, le prossime tappe, piccoli dettagli di viaggio. Gli racconto di Skippy, che in questo momento dorme acciambellata accanto a me. Di Veronika, che si è presa un momento per sé, un piccolo rituale per tornare a sentirsi splendente.

È una conversazione tranquilla eppure, sotto la superficie, c’è qualcos’altro. Lo sento io, lo sente Carlo. Alla fine, con un respiro profondo, lo dico.

«Carlo… avrei voluto chiamarti prima. È successa una cosa, ma ho preferito lasciarla sedimentare un po’ prima di disturbarti.»

Lui non interrompe. Aspetta.

«Abbiamo dovuto fare un atterraggio d’emergenza.»

Il silenzio dall’altra parte dura giusto un battito. Poi il suo tono cambia, diventa più fermo, più attento.

«State bene? Veronika? Skippy?»

«Sì, sì. Nessun problema.» Mi passo una mano sulla testa, cercando le parole giuste. «Era un volo tranquillo verso l’Elba, poi il tempo è peggiorato all’improvviso. Vento forte, pioggia fitta, lampi. La visibilità è andata a zero in pochi minuti. Avevo segnato un campo volo d’emergenza sulla rotta, come mi hanno insegnato, e l’ho usato. Ma è stato veloce… troppo veloce.»

Carlo ascolta senza interrompere. Poi, con la sicurezza di chi sa, dice una cosa semplice e vera:

«Camillo, se me lo stai raccontando significa che hai fatto tutto nel modo giusto.»

Annuisco, stringendo il telefono con più forza.

«Sì… ma continuo a ripensarci. Avrei potuto evitarlo? Potevo fare qualcosa di diverso?»

Dall’altra parte arriva una risata breve, piena di esperienza.

«Le emergenze non si evitano, si gestiscono. E tu l’hai fatto.»

Resto in silenzio, mentre le sue parole si incastrano nei pensieri che mi tormentano da giorni.

«Hai mantenuto la calma, hai valutato le opzioni, hai preso una decisione. Questo fa un pilota. Il resto è teoria, e tu eri in una situazione reale.»

Respiro a fondo.

«E se fosse stato qualcosa di più grave?»

Carlo non esita.

«Avresti fatto la stessa cosa. Ti saresti adattato. Capisci perché ci prepariamo sempre per il peggio? Oggi sei in Italia, con strutture, comunicazioni, un piano B. Domani ti troverai in posti dove tutto questo non c’è e allora l’unica cosa che conterà sarà la tua capacità di decidere sotto pressione.»

Lascio che le sue parole sedimentino. Lo sapevo già, in fondo. Sentirlo dire da lui, però, è diverso.

«Camillo» aggiunge con un tono più leggero, «ogni volo insegna qualcosa. E ogni atterraggio da cui esci in piedi è un buon atterraggio.»

Sorrido.

«Grazie, Carlo. Veramente.»

«Di nulla. E comunque, se hai bisogno di parlare con me, sappi che sei ufficialmente entrato nella cerchia di quelli che possono chiamarmi a qualsiasi ora senza mai disturbare.»

Ridiamo entrambi e la telefonata continua ancora per un po’, scivolando su dettagli più leggeri. Mi chiede della prossima tappa, di come se la cava Skippy, di Veronika che – gli dico – ha già segnato una lista di posti da vedere talmente lunga che ci vorrebbe un altro giro del mondo per spuntarla tutta.

Parliamo ancora per un po’, poi chiudiamo la chiamata. Carlo mi ha lasciato con un’ultima frase che mi risuona nella testa:

“Il cielo è pieno di lezioni. Noi siamo qui per impararle.”

Rimango con il telefono in mano, guardando il sole che cala sull’Elba. La testa ha ancora mille pensieri, ma mi sento più sereno.

La vera forza di un pilota non sta nel volare senza difficoltà ma nell’affrontare le sfide con calma e determinazione

il terrazzino della casa a Procchio (foto leonardo.ai)

La Villa di Napoleone: Un Tuffo nel Passato

Mi sto godendo il sollievo delle parole di Carlo quando Veronika esce dal bagno. È luminosa, rilassata, e non posso fare a meno di notarlo.

«Sei bellissima,» le dico, e il suo sorriso, compiaciuto e sincero, vale più di qualsiasi risposta.

Nel frattempo, Skippy, acciambellata sulla poltrona accanto, inizia ad agitarsi come sempre quando sogna, fino a rotolare giù con un piccolo tonfo. La guardiamo, lei ci guarda: noi preoccupati, lei infastidita… sbuffa rumorosamente, si acciambella di nuovo sul pavimento e ci lancia uno sguardo offeso.

Scoppio a ridere.

«Tranquilla, hai tutto il tempo di svegliarti mentre faccio la doccia anch’io.»

Lei solleva appena una zampetta in un gesto teatrale, poi si abbandona di nuovo al sonno.

Prima di entrare in bagno, lancio a Veronika un’idea.

«Perché non facciamo un salto alla residenza di Napoleone qui all’Elba prima di cena? Sarebbe un buon modo per entrare nell’atmosfera della serata.»

Così, un’ora dopo, siamo a Portoferraio, davanti alla residenza che fu il cuore del breve regno di Napoleone sull’Elba.

Dall’esterno, Villa dei Mulini è semplice, elegante, affacciata sul porto, come se l’imperatore avesse voluto tenere lo sguardo sempre rivolto verso il mare, verso la Francia.

All’interno, le stanze raccontano un uomo che, pur in esilio, non si arrese all’idea della sconfitta. Qui Napoleone non si limitò a vivere: riorganizzò l’isola, migliorò le infrastrutture, diede impulso al commercio e persino creò una bandiera per l’Elba.

Ogni ambiente conserva tracce del suo passaggio, dalla biblioteca piena di volumi strategici al suo studio, dove lavorava ai piani per il futuro. Un sovrano in gabbia, forse, ma tutt’altro che domato.

Usciti dalla villa, con il mare davanti a noi e il tramonto che tinge il cielo, ci incamminiamo verso la serata, pronti a immergerci ancora di più nella sua storia.

Ogni luogo ha il suo passato e ogni storia raccontata ci porta più vicino a comprendere chi siamo oggi.

Villa dei Mulini (foto isoladelba.online)

Una Serata Napoleonica alla Fortezza

Dopo una piacevole passeggiata a Portoferraio, ci dirigiamo verso la Fortezza Falcone.

Le mura imponenti, illuminate dalle luci calde della sera, creano un’atmosfera unica, come se ci stessero invitando a immergerci in un’altra epoca.

All’ingresso ci accolgono con gentilezza, vestiti a tema, confermando la nostra prenotazione. Skippy, come sempre, attira subito qualche sorriso e commento amichevole. Seguendo le indicazioni, veniamo accompagnati a un grande tavolo apparecchiato per otto persone, posizionato in una sala che conserva ancora i dettagli architettonici originali della fortezza.

Oltre a noi, al tavolo, ci sono una signora sulla settantina con un viso dolce e i capelli raccolti in un’acconciatura semplice e, accanto a lei, una ragazzina che ci saluta timidamente con un sorriso mentre si siede accanto a Skippy.

Di fronte, una coppia di italo-tedeschi: lui, con una barba curata e un’aria riflessiva, e lei, solare e sorridente, di evidenti origini italiane.

Ci presentiamo tutti rapidamente, scambiando qualche battuta cortese, ma la serata prende subito il via con l’arrivo di un oratore che si posiziona al centro della sala.

Vestito in abiti d’epoca, con un tono solenne ma coinvolgente, inizia a raccontare la storia di Napoleone sull’Elba.

«Signore e signori, benvenuti in questa serata dedicata a Napoleone Bonaparte, il grande stratega e leader che, sebbene in esilio, trasformò quest’isola in un regno pieno di innovazione e dinamismo…»

La storia, quando viene raccontata con passione, non è solo un racconto del passato ma una finestra aperta verso le emozioni che quel passato può ancora suscitare in noi

Forte Falcone visto dall’alto (foto museiarcipelago.it)

Antipasto. L’Inizio del Mito: La Giovinezza di Napoleone

Accompagnati da un calice di Ansonica dell’Elba, i camerieri servono al tavolo un assortimento di antipasti semplici e raffinati: pane nero integrale, frittata di erbe aromatiche e olive condite con agrumi, un richiamo ai sapori autentici dell’epoca napoleonica.

L’oratore, camminando per la sala, continua a parlare con voce sicura e gesti misurati.

«… ma prima di parlare del suo esilio, voglio raccontarvi da dove tutto è iniziato. Napoleone nacque ad Ajaccio, in Corsica, il 15 agosto 1769. Era il secondo di otto figli in una famiglia che, seppur modesta, nutriva grandi ambizioni.»

Veronika, seduta accanto a me, si avvicina leggermente.

«Passeremo ad Ajaccio quando saremo in Corsica?» mi chiede sottovoce.

Sorrido e annuisco.

«Sicuro, lo mettiamo in programma.»

Nel frattempo, l’oratore continua:

«Grazie all’abilità diplomatica del padre, Carlo Maria Buonaparte, Napoleone riuscì a studiare nelle migliori accademie militari francesi. Nonostante fosse un ragazzo riservato e talvolta solitario, la sua mente brillante e la sua ambizione fuori dal comune lo portarono a eccellere in matematica, storia e strategia militare.»

Assaggio un pezzo di frittata, notando l’equilibrio perfetto tra semplicità e intensità dei sapori. Veronika sembra altrettanto conquistata dal piatto.

L’oratore prosegue con una pausa drammatica per enfatizzare:

«A soli 16 anni Napoleone divenne ufficiale, un traguardo straordinario per l’epoca. E fu durante la Rivoluzione Francese che la sua ascesa prese forma. La brillante difesa di Tolone, nel 1793, lo rese generale a soli 24 anni, gettando le basi per il mito del suo nome.»

Il racconto si interrompe temporaneamente, lasciando a tutti il tempo di godersi gli ultimi bocconi degli antipasti.

Intorno al tavolo scambiamo qualche parola. Veronika riflette ad alta voce:

«È affascinante vedere come abbia sfruttato ogni occasione per dimostrare il suo valore.»

Annuisco.

«E pensare che questa è solo la sua giovinezza. Le sue imprese saranno sicuramente al centro della prossima portata.»

La sala si riempie di una conversazione leggera, con commenti sul cibo e curiosità appena apprese, mentre i camerieri iniziano a preparare il servizio per la prima portata.

Accanto a noi, la ragazzina ci lancia un’occhiata curiosa, poi ci chiede timidamente:

«Scusate se mi sono permessa di ascoltare prima, ma ho capito che state per andare in Corsica. Vero?» chiede, accarezzando il bicchiere d’acqua che ha davanti.

«Sì, partiremo domani mattina» rispondo con gentilezza. «Ci fermeremo anche ad Ajaccio per scoprire qualcosa in più su Napoleone

La signora, che scopriamo essere la zia, seduta accanto a lei, sorride con un’aria complice.

«Noi viviamo in Corsica. O meglio, io vivo lì. La Corsica è splendida, sono certa che vi piacerà.»

Non faccio in tempo a risponderle che i camerieri ci distraggono, iniziando a servire la portata successiva con l’oratore che torna a parlare.

“Non è la posizione che fa un uomo, ma l’uomo che fa la posizione.” – Napoleone Bonaparte

l’oratore della serata (foto leonardo.ai)

Prima Portata. L’Ascesa di un Imperatore: Ambizione e Conquiste

I camerieri ci servono la prima portata, una zuppa di pesce elbana, preparata con pescato locale e arricchita da erbe aromatiche tipiche dell’isola. Il profumo è invitante, e il calice di Aleatico Bianco, servito insieme, esalta i sapori con la sua dolcezza leggera e il retrogusto fruttato.

L’oratore torna a raccontare, la sua voce sicura riecheggia nella sala.

«Dopo la brillante difesa di Tolone, Napoleone non solo dimostrò il suo genio militare, ma iniziò a costruire il mito del suo nome. Le sue campagne militari furono epiche: dal 1796 al 1797, guidò l’Armata d’Italia, conquistando il nord del paese e stabilendo il dominio francese. Non era solo un comandante, ma un leader che ispirava i suoi uomini a compiere l’impossibile.»

L’oratore si prende una pausa drammatica, poi riprende:

«Napoleone non fu solo un brillante stratega militare. Le sue campagne non lasciavano dietro di sé solo confini ridisegnati e trionfi sul campo di battaglia, ma anche un’eredità culturale che avrebbe influenzato l’Europa per decenni. Se le sue conquiste cambiarono la mappa del continente, le sue riforme cambiarono la società.»

Osservo per un istante la zuppa ancora fumante davanti a me, poi lo sento proseguire:

«La spedizione in Egitto ne è l’esempio perfetto: da un lato una sfida militare complicata, dall’altro una missione scientifica senza precedenti. Con lui c’erano studiosi, ingegneri e archeologi, uomini il cui compito non era combattere, ma comprendere. Fu in quell’impresa che venne scoperta la Stele di Rosetta, che avrebbe permesso di decifrare i geroglifici e di svelare i segreti di una civiltà millenaria. Era il segno di un leader che non voleva solo dominare i territori, ma anche comprenderli e lasciare una traccia duratura nella cultura e nella scienza.»

Sorseggio un po’ di vino, lasciando che il retrogusto dolce si mescoli al pensiero di quella doppia eredità: la forza di un generale e la visione di un innovatore.

«Il suo carisma e la sua determinazione lo portarono al potere nel 1799, quando organizzò un colpo di stato e divenne Primo Console di Francia. Ma non era abbastanza. Nel 1804, Napoleone si proclamò Imperatore e, con la sua incoronazione, iniziò un’era di riforme e conquiste che cambiarono il volto dell’Europa.»

Conclude questa parte della narrazione con una riflessione:

«Napoleone non era solo un leader militare. Era un visionario, un uomo che cercava di modellare il mondo secondo i suoi ideali, trasformando ogni sfida in un’opportunità per lasciare un segno indelebile.»

La sala si riempie di un leggero brusio mentre l’oratore si interrompe, lasciandoci il tempo di gustare la zuppa e riflettere sul racconto.

Al nostro tavolo iniziamo a scambiare qualche parola.

La coppia di italo-tedeschi, seduta di fronte a noi, si unisce alla conversazione.

«Anche noi siamo qui in ferie» spiega l’uomo con un accento appena percepibile. «È la nostra seconda serata sull’isola, ma tra qualche giorno dovremo ripartire.»

«L’Elba è bellissima, sono sicura vi piacerà» interviene la signora accanto alla ragazza. «Noi torniamo in Corsica domani mattina. Sono venuta qui a prendere mia nipote, che vive qui con mia sorella, e la porto con me a festeggiare il compleanno della cuginetta. Sarà una sorpresa: ha la stessa età e non sa nulla.»

Ci limitiamo a sorridere, lasciando che la conversazione si sviluppi tra loro.

Non facciamo in tempo ad aggiungere altro che i camerieri iniziano a preparare il servizio per la seconda portata e l’oratore si prepara a riprendere il filo del discorso.

“Il vero uomo non è colui che conquista le vittorie ma colui che crea le opportunità per ottenerle.” – Napoleone Bonaparte

zuppa di pesce all’elbana (foto di Dall-E)

Seconda Portata. Dalla Gloria alla Caduta: L’Esilio di un Imperatore

Con tempismo impeccabile, i camerieri portano la seconda portata: polpette di baccalà, servite su un letto di insalata di stagione con un filo di limone, un piatto semplice e saporito che richiama la tradizione culinaria dell’epoca napoleonica. L’abbinamento con un calice di Rosso dell’Elba crea un equilibrio unico, esaltando i sapori intensi del pesce e della cucina locale.

L’oratore torna al centro della sala con lo sguardo che si sposta da un tavolo all’altro, come per coinvolgerci tutti nel racconto.

«Nonostante le sue incredibili imprese, la parabola di Napoleone raggiunse un punto critico con la Campagna di Russia del 1812, un evento che segnò l’inizio della sua caduta. Dopo essere avanzato fino a Mosca, le sue truppe furono decimate dal rigido inverno e dalla mancanza di rifornimenti. La sconfitta ridusse il suo esercito da 600.000 a meno di 30.000 uomini. Fu un colpo durissimo.»

Assaggio una polpetta, apprezzando la delicatezza del baccalà e l’equilibrio dei sapori.

L’oratore prosegue:

«Ma non fu solo la Russia. La sconfitta nella Battaglia di Lipsia nel 1813 segnò il crollo definitivo dell’Impero Napoleonico. Gli Alleati avanzarono verso Parigi e Napoleone fu costretto ad abdicare il 6 aprile 1814. Fu allora che le potenze europee decisero di esiliarlo sull’Isola d’Elba, lontano dalle grandi città ma abbastanza vicina da poterlo monitorare.»

Si ferma un istante, lasciando che le sue parole risuonino nella sala. Poi conclude:

«Immaginate un uomo, abituato a comandare milioni di soldati e conquistare nazioni, confinato su una piccola isola con soli 30.000 abitanti. Tuttavia, come vedremo, Napoleone trasformò persino l’esilio in un’occasione per lasciare il segno.»

Dalla grandeur delle sue campagne, Napoleone si ritrovò a osservare il mare da un’isola che sembrava un confine imposto sul suo destino, con l’orizzonte a ricordargli ogni giorno ciò che aveva perso. Ma il suo spirito non era domato.

La sala si riempie di un mormorio mentre gli ospiti si scambiano commenti sul piatto e sulla storia. Io e Veronika ci guardiamo con un sorriso complice quando la nostra attenzione viene catturata da una scena divertente.

La ragazzina accanto a noi, che scopriamo chiamarsi Amandine, ha stretto amicizia con Skippy. Tra un boccone e l’altro, le due giocano a rubarsi piccoli pezzi di pane dal cestino. Skippy, con la sua astuzia, riesce sempre a spuntarla, facendo ridere Amandine, che cerca di riprendersi il suo bottino.

Veronika scuote la testa divertita.

«Guarda queste due, sembra che si conoscano da sempre.»

Le sorrido.

«Skippy trova sempre il modo di conquistare tutti.»

La scena alleggerisce l’atmosfera, creando un momento di spensieratezza, mentre i camerieri iniziano a ritirare i piatti vuoti e l’oratore si prepara a introdurre il prossimo capitolo della storia.

“La gloria è fugace ma l’oscurità dura per sempre.” – Napoleone Bonaparte

Polpette di Baccalà (foto di Dall-E)

Terza Portata. L’Elba: Un Regno in Miniatura e il Sogno del Ritorno

La terza portata arriva con eleganza, portando in tavola un piatto che richiama la tradizione isolana e il periodo napoleonico: filetto di pesce al cartoccio, cucinato con agrumi e spezie locali, servito con un contorno di bietole saltate e un calice di Moscato dell’Elba, un vino aromatico e vellutato che completa alla perfezione la delicatezza del piatto.

L’oratore riprende il racconto con tono solenne ma coinvolgente:

«Quando Napoleone arrivò sull’Isola d’Elba, il 4 maggio 1814, si trovò a dover gestire un regno di soli 30.000 abitanti. Tuttavia, la sua ambizione e il suo genio organizzativo non si fermarono. In pochi mesi trasformò l’isola in un modello di efficienza e modernità.»

Fa una pausa, lasciando che i camerieri finiscano di servire il pesce e versare il vino, poi continua:

«Napoleone migliorò le infrastrutture riparando strade e costruendo ponti. Rivitalizzò l’economia attraverso il commercio e persino la riorganizzazione delle miniere. Creò anche una bandiera per l’isola, con tre api dorate su sfondo bianco e rosso, simbolo di laboriosità e unità.»

Veronika, con il bicchiere in mano, mi sussurra:

«Non immaginavo che avesse fatto così tanto in così poco tempo.»

Annuisco, prendendo un pezzo di pesce.

«Era instancabile. Persino in esilio ha trovato il modo di lasciare il segno.»

L’oratore continua:

«Ma non era solo un leader operativo. Napoleone amava passeggiare lungo le mura di Portoferraio, da cui poteva osservare il mare. Quei momenti di riflessione gli servivano per pianificare il futuro, perché non smise mai di pensare a un ritorno al potere.»

Skippy, seduta accanto a me, sembra incuriosita dalle espressioni di Amandine, che ascolta il racconto con grande entusiasmo.

Mentre il mondo lo credeva sconfitto, Napoleone trasformava l’Elba nel suo banco di prova, perché nella sua mente l’esilio non era mai stato una fine, ma solo il trampolino per un ritorno destinato a lasciare il segno.

“La vera conquista è non smettere mai di prepararsi alla prossima battaglia.” – Napoleone Bonaparte

Filetto di pesce al Cartoccio (foto di Dall-E)

Dolce. Il Ritorno dell’Imperatore: I Cento Giorni di Gloria

I camerieri tornano con un dolce che attira subito l’attenzione: una raffinata tarte aux pommes, una torta di mele tipica della tradizione francese, rivisitata con un tocco locale grazie all’uso di mele elbane e un leggero velo di miele dell’isola.

Accanto viene servito un bicchiere di Aleatico Passito, il vino dolce più iconico dell’Elba, il cui aroma fruttato e la consistenza vellutata si sposano perfettamente con il dessert.

L’oratore si posiziona nuovamente al centro della sala, alzando il tono per riportare l’attenzione su di sé.

«Dopo dieci mesi sull’Elba, Napoleone decise di lasciare l’isola. La notte del 26 febbraio 1815, salpò segretamente con un piccolo gruppo di fedeli, dirigendosi verso la Francia. Era determinato a riconquistare il potere.»

La narrazione si intensifica, catturando l’attenzione di tutti.

«Arrivò a Golfe-Juan, nel sud della Francia, il 1° marzo 1815, e da lì iniziò una marcia verso Parigi che diventò leggendaria. Ovunque andasse, le truppe mandate a fermarlo si unirono a lui e il popolo lo accolse come un eroe. In meno di un mese, il 20 marzo 1815, era di nuovo sul trono di Francia. Fu un evento straordinario conosciuto ancora oggi come i Cento Giorni

Un’impresa senza precedenti: con il solo potere del suo carisma e della sua leggenda, Napoleone riconquistò il trono di Francia senza sparare un colpo.

Mentre assaggio la torta, il sapore dolce delle mele caramellate si mescola con il retrogusto aromatico del miele, creando un perfetto equilibrio. Veronika, accanto a me, sembra altrettanto conquistata dal dessert.

L’oratore conclude questa parte del racconto con un tocco di enfasi:

«Napoleone dimostrò ancora una volta il suo genio politico e militare, trasformando un esilio in un ritorno trionfale. Ma, come vedremo, il sogno del suo secondo impero sarebbe durato poco.»

La sala si riempie di un leggero mormorio mentre gli ospiti gustano il dolce, lasciando spazio ai pensieri e ai commenti sulla storia appena ascoltata.

Skippy, seduta accanto a noi, sembra seguire con curiosità l’atmosfera attorno al tavolo, mentre il vino dolce e la torta segnano il momento perfetto per riflettere su un capitolo così straordinario della vita di Napoleone.

“La vittoria appartiene al più perseverante.” – Napoleone Bonaparte

tarte aux pommes classica (foto di Dall-E)

Amari e Caffè: Waterloo e Sant’Elena: La Fine di un’Impero, la Nascita del Mito

I camerieri servono una selezione di amari tipici dell’Elba, tra cui un limoncello elbano e una grappa al miele, accompagnati da caffè fumanti che avvolgono la sala con un aroma intenso. Gli ospiti iniziano a rilassarsi, ma l’oratore riprende la parola per affrontare uno dei capitoli più drammatici della vita di Napoleone.

«Dopo il suo ritorno trionfale in Francia e i famosi Cento Giorni, le potenze europee si riunirono per opporsi nuovamente a Napoleone. La sua ambizione e il suo genio strategico non bastarono a fermare l’inevitabile. Il 18 giugno 1815, alla Battaglia di Waterloo, in Belgio, Napoleone subì una sconfitta devastante per mano della coalizione guidata dal Duca di Wellington. Quella giornata segnò la fine del suo impero e il sogno di un secondo trionfo.»

L’atmosfera nella sala si fa più silenziosa, quasi sospesa, mentre l’oratore continua:

«Dopo Waterloo, Napoleone cercò di rifugiarsi in America, ma fu catturato dalle forze britanniche. Questa volta, le potenze europee scelsero un luogo da cui non avrebbe mai potuto fuggire: l’isola di Sant’Elena, un avamposto remoto nell’Oceano Atlantico meridionale, lontano da tutto e da tutti.»

Prendo un sorso di limoncello, sentendo il calore diffondersi, e mi appoggio allo schienale della sedia.

Faccio un gesto con le mani sulla pancia, come a dire che sono ufficialmente pieno, attirando lo sguardo di Veronika, che scuote la testa sorridendo.

Alza leggermente il bicchiere vuoto facendo segno che i tanti vini della serata sono stati di suo gradimento, anche se aggiunge con un mezzo sorriso:

«Forse ho esagerato un po’. Mi gira la testa.»

Scuoto la testa incredulo ma divertito.

«E poi dicono che io esagero» le rispondo, mentre Skippy, sempre attenta, lancia un’occhiata al cestino del pane, chiarendo con il suo comportamento che lei non ha ancora finito.

L’oratore conclude questa parte del racconto con un tono riflessivo:

«Sant’Elena non era solo un luogo remoto. Era una condanna alla solitudine. Napoleone vi arrivò nell’ottobre del 1815 con pochi fedeli accanto a lui. Per il resto della sua vita rimase confinato in quel piccolo pezzo di terra, lontano dalle luci della gloria e dal mondo che aveva cercato di dominare.»

Da Sant’Elena, Napoleone non poteva più vedere le sue armate né ascoltare il battito del mondo che un tempo aveva dominato. Gli restavano solo i ricordi e le parole con cui avrebbe cercato di costruire la sua eredità.

Il silenzio che segue è quasi palpabile, mentre ciascuno sembra riflettere sulla grandezza e sulla caduta di un uomo come Napoleone.

Veronika si appoggia con il gomito al tavolo, rompendo la tensione.

«Devo ammettere che è incredibile. Passare dal governare quasi tutta l’Europa a un’esistenza così lontana e isolata… sembra surreale.»

La signora accanto ad Amandine annuisce con un sorriso amaro.

«È la grandezza della storia. Ti ricorda che nulla dura per sempre.»

La donna Italo-Tedesca aggiunge:

«Ma è proprio questo che lo rende affascinante. Anche nei suoi momenti più oscuri, Napoleone è riuscito a lasciare il segno.»

Skippy, intanto, cattura l’attenzione di Amandine, e le due cominciano a giocare con dei pezzi di pane, regalando un momento di leggerezza a una serata intensa.

Il mormorio attorno ai tavoli torna a riempire la sala, mentre i figuranti si preparano all’atto finale.

Il celebre dipinto di Napoleone a Sant’Elena di François-Joseph Sandmann (foto reportdifesa.it)

Memorie, Saluti e Nuove Avventure

Con la sala ormai rilassata e gli amari che accompagnano gli ultimi scambi tra i commensali, l’oratore torna a parlare.

«Napoleone Bonaparte morì a Sant’Elena il 5 maggio 1821. Aveva 51 anni. La causa della morte è ancora oggi dibattuta: c’è chi parla di cancro allo stomaco, chi di avvelenamento. Ma una cosa è certa: anche negli ultimi giorni della sua vita, Napoleone continuò a riflettere sulla sua eredità, scrivendo memorie che avrebbero influenzato generazioni future. La sua vita, fatta di conquiste e cadute, è la prova che la grandezza è tanto fragile quanto straordinaria.»

Le parole dell’oratore lasciano un’eco sospesa nella sala.

Poi, all’improvviso, un applauso si leva, prima timido, poi sempre più forte. Un tributo non solo a Napoleone, ma a una serata che ha saputo far rivivere la sua storia.

Attorno al nostro tavolo scambiamo gli ultimi commenti sulla cena e sulla storia appena ascoltata.

Veronika si rivolge alla signora accanto a noi.

«È stato tutto meraviglioso, dall’atmosfera al cibo, fino ai dettagli storici. Non mi aspettavo di immergermi così tanto nella vita di Napoleone

La signora annuisce, palesemente felice anche lei.

«Questa fortezza ha visto tante storie e stasera siamo stati parte di una di esse.»

L’uomo italo-tedesco aggiunge:

«E i loro abiti, così ricchi di dettagli… sembrava davvero di essere tornati indietro nel tempo.»

Skippy, intanto, cattura l’attenzione di Amandine, che le accarezza la testa con affetto.

«Mi sono divertita molto, mi mancherai» dice la ragazza con un sorriso rivolto sia a Skippy che al resto del tavolo.

Con i saluti che si intrecciano tra i commensali, ci alziamo lentamente dal tavolo. La coppia italo-tedesca ci augura buon viaggio, mentre la signora e Amandine ci salutano calorosamente.

«Buona fortuna per il vostro viaggio in Corsica» dice la signora. «Sono sicura che Ajaccio vi regalerà altre storie da raccontare.»

Uscendo dalla fortezza, ci fermiamo nel piccolo negozietto di souvenir situato accanto all’ingresso.

Veronika si avvicina subito agli scaffali dedicati ai libri e sceglie una copia delle Memorie di Napoleone, visibilmente ispirata dalla serata.

«Penso che valga la pena leggerle» dice, voltandosi verso di me con un sorriso.

Poi aggiunge, prendendo un altro libro:

«E già che ci siamo, prendo anche una guida sulla Corsica. Ci tornerà sicuramente utile.»

Mentre pago i libri, Skippy, incuriosita, si avvicina al bancone osservando con attenzione le cianfrusaglie esposte: portachiavi, magneti, piccoli modellini di cannoni.

La ragazza alla cassa, notando il suo interesse e la sua simpatia, sorride e prende una piccola monetina turistica con l’effige di Napoleone.

«Tieni, è per te» dice, porgendogliela con gentilezza.

Skippy osserva la moneta come fosse un tesoro inestimabile, prendendola con cura tra le zampette.

Poi si volta verso di me, mostrando la monetina con entusiasmo.

«È un bel ricordo della serata» dico ridendo.

“Io chiudo gli occhi ma il mio sguardo rimarrà per sempre rivolto alla Francia.” – Napoleone Bonaparte, ultime parole

la monetina regalata a Skippy (foto Dall-E)

Ritorno a Casa: Un Momento di Pace

Lasciamo la fortezza con la brezza serale che ci accompagna. Le luci di Portoferraio scintillano in lontananza, riflettendosi sulle acque calme del porto.

Skippy cammina accanto a noi, ogni tanto fermandosi per osservare la monetina, come se stesse già immaginando di diventare un grande stratega come Napoleone.

Veronika stringe il sacchetto con i libri e sospira con soddisfazione.

«Non pensavo che una serata potesse essere così intensa e interessante.»

«Lo è stata davvero» rispondo, osservando il cielo stellato. «È stata una giornata piena ma ricca di ispirazione. Approfondiremo la sua storia anche in Corsica sicuramente.»

Raggiungiamo la nostra casetta a Procchio, accolti dal silenzio e dalla tranquillità dell’isola.

Veronika si dirige verso la camera, mentre io mi fermo un attimo sulla terrazza ad osservare il mare in lontananza.

Skippy si acciambella accanto a me, stringendo la sua monetina con orgoglio.

«Vai a dormire, piccola. Domani ci aspetta un nuovo viaggio.» dico sottovoce.

Poi entro in casa, chiudendo la porta finestra alle nostre spalle, pronto per una notte di riposo che ci prepara al volo verso la Corsica.poso che ci prepara al volo verso la Corsica.