10 + Diario di Viaggio Bonifacio
Bonifacio: tra cielo e terra
Il taxi ci lascia poco fuori dalla città vecchia di Bonifacio. L’aria della sera è piacevolmente fresca e il profumo del mare si mescola a quello della pietra scaldata dal sole. Bonifacio ci accoglie nella sua veste notturna, con le mura illuminate che si stagliano contro il cielo ormai scuro.
«Che atmosfera incredibile» sussurra Veronika mentre attraversiamo la porta d’ingresso della cittadella.
Passeggiamo lentamente lungo le stradine acciottolate, zainetti in spalla. Il silenzio è interrotto solo da qualche passo frettoloso e dalle voci soffuse di chi si gode la serata nei piccoli bistrot incastonati tra le mura. Da quassù il mare è una distesa scura, appena increspata dalla brezza.
«Vederla da terra è completamente diverso» dico, osservando il profilo della città che si allunga fino al bordo della falesia.
Veronika annuisce. «Dal cielo sembrava sospesa tra le onde, quasi un’illusione. Qui invece la senti… solida, antica.»
Attraversiamo la Rue des Deux Empereurs e saliamo verso il Belvédère de la Manichella, il punto panoramico che si affaccia sulle Bocche di Bonifacio. Il mare sotto di noi è un abisso scuro, appena spezzato dai riflessi della luna. Lontano, all’orizzonte, si intravede la sagoma della Sardegna.
«Incredibile. Di giorno sarà tutta un’altra storia. Alcuni posti rivelano il loro vero volto solo con il sole.» sussurra Veronika.
Il vento porta il rumore delle onde che si infrangono contro la base delle falesie, mentre attorno a noi la città si avvolge nei suoi secoli di storie. Poi, all’improvviso, il suono di un messaggio rompe il silenzio. Veronika fruga nello zaino e tira fuori il telefono.
«Irina mi ha scritto» dice, scorrendo il messaggio.
La osservo mentre le dita si muovono veloci sulla tastiera. È da un po’ che non la sentiamo, ma in qualche modo, da quando l’abbiamo conosciuta a Siena, è rimasta con noi.
«Ha ricevuto la cartolina che le ho mandato dal Giglio» continua Veronika, senza staccare gli occhi dallo schermo. «Le ha fatto davvero piacere. Dice che è stata una sorpresa inaspettata, che le ha strappato un sorriso.» Si ferma un attimo, poi aggiunge con un leggero sorriso: «Mi ha chiesto di spedirgliene altre. Dice che è un bel modo di viaggiare con noi, anche solo a distanza.»
Annuisco. «Te l’avevo detto che l’avrebbe apprezzato.»
Veronika rimane in silenzio per qualche secondo, poi scrive ancora qualcosa sul telefono prima di riporlo nello zaino.
«Le ho detto che la richiamerò in questi giorni, quando saremo un po’ più tranquilli qui a Bonifacio.»
«Giusto. Abbiamo qualche giorno prima di ripartire visto che anche il nostro aereo ha bisogno di attenzioni. È stato un compagno perfetto in questo viaggio e merita cura prima di continuare per le prossime tappe.»
Lei annuisce, poi torna a osservare il mare scuro sotto di noi, come se volesse già immaginare la città che scopriremo con la luce del mattino.
Ogni viaggio lascia segni invisibili, ma quelli più profondi sono nelle persone che incontriamo e nei legami che portiamo con noi, anche a distanza.

Bonifacio di giorno: tra luce e racconti
Ci svegliamo con la luce dorata del mattino che filtra attraverso le persiane della nostra stanza. L’aria profuma di salsedine che si solleva dalle falesie e si mescola ai primi aromi del caffè che arrivano dalle strade sottostanti. Dopo la lunga passeggiata della sera prima, ci siamo addormentati profondamente, cullati dal silenzio di Bonifacio.
Scendiamo per le strade della cittadella e scopriamo che ora sembra completamente diversa da quella avvolta nell’ombra della notte. I vicoli sono pieni di vita, il suono dei passi sulla pietra si mescola a quello delle voci dei commercianti che sistemano le loro bancarelle.
«Sembra ancora più bella di giorno» dice Veronika mentre raggiungiamo il Belvédère de la Manichella, lo stesso punto panoramico della sera prima. Si ferma un istante, osservando il paesaggio. «Oh wow… è meglio di come immaginavo ieri sera.»
La luce del sole colpisce la falesia bianca, facendola brillare come se fosse scolpita nel marmo. Il mare si apre davanti a noi con sfumature di blu e turchese, la Sardegna sembra quasi a portata di mano.
Dopo qualche minuto in silenzio e contemplazione, decidiamo di fermarci per una colazione prima di continuare l’esplorazione. Ci sediamo in un piccolo caffè all’aperto, con tavolini in ferro battuto che si affacciano su una piazzetta acciottolata. Il profumo dei croissant appena sfornati riempie l’aria.
Veronika mescola lentamente il suo caffè, lo sguardo perso tra le case di pietra chiara. «Bonifacio l’abbiamo vista dall’alto e ora la stiamo vivendo da dentro» dice. Poi solleva lo sguardo e sorride. «Eppure, ho la sensazione che abbia ancora tanto da raccontarci.»
Le sue parole restano sospese mentre ci godiamo la quiete del mattino, il tintinnio delle tazzine, il chiacchiericcio discreto degli abitanti che iniziano la loro giornata.
Dopo la colazione, riprendiamo il cammino verso il Bastione dello Stendardo, una delle fortificazioni più imponenti della città. Le mura spesse e le feritoie raccontano di un passato in cui Bonifacio era una sentinella del Mediterraneo. Dall’alto, la vista sulle Bocche di Bonifacio è spettacolare.
«Da quassù sicuramente riuscivano a controllare ogni nave che passava» dico guardando fuori da una feritoia, sentendomi come una vecchia vedetta.
«E chissà quante storie sono passate da qui.»
A pochi passi da noi, una donna anziana è seduta su una panchina in pietra, avvolta in uno scialle color sabbia che si fonde quasi con il paesaggio. Ha la pelle segnata dal sole e un paio di occhi chiari che sembrano riflettere il mare. Sta intrecciando delle piccole reti di corda, lavorando con gesti precisi e pazienti.
Veronika si ferma a osservarla, incuriosita dal suo lavoro. «Sta riparando una rete?» le chiede con tono gentile.
La donna solleva appena lo sguardo e annuisce. «Le mani devono sempre avere qualcosa da fare, altrimenti invecchiano prima della testa» dice con un sorriso accennato.
Ci osserva per un istante, come se ci valutasse, poi indica un tratto della costa a sud della cittadella. «Vedete laggiù?»
Seguiamo la sua mano e notiamo una rientranza nella falesia, parzialmente nascosta dalle ombre della mattina.
«Quella è la Grotta di Sdragonato» continua la donna. «Da lontano sembra una semplice insenatura ma dentro c’è un’apertura nel soffitto che, vista dal mare, ha la forma perfetta della Corsica.»
Veronika spalanca gli occhi. «Davvero?»
La donna annuisce. «Ogni pescatore qui la conosce. E non è solo per la sua forma. Si dice che il vento, entrando nella grotta, produca un suono profondo, come un respiro che sale dal mare. Alcuni lo usavano per capire quando il tempo stava per cambiare.»
Scambiamo un’occhiata. Questa è una di quelle storie che sembrano fatte per questo viaggio.
«E lei lo ha mai sentito?» chiedo.
La donna sorride, annodando un’altra sezione della sua rete. «Molte volte. Ma bisogna saper ascoltare.»
Rimaniamo per qualche istante in silenzio, lasciando che le sue parole si mescolino al vento che soffia leggero. Poi la ringraziamo e riprendiamo il nostro giro, scendendo lungo il Sentiero Campu Romanilu, un percorso che segue la linea delle falesie. Qui, il vento soffia forte e il mare sotto di noi è di un blu profondo, quasi ipnotico.
Raggiungiamo la Chiesa di Santa Maria Maggiore, la più antica di Bonifacio, con il suo chiostro tranquillo che sembra fermo nel tempo. Qui ci fermiamo per un po’, lasciando che il silenzio e il suono del vento tra le colonne completino i nostri pensieri.
Bonifacio non è solo una fortezza sospesa tra mare e cielo. È una città viva, un luogo che cambia volto con la luce e con il tempo, capace di regalare emozioni diverse a ogni passo.
Veronika si appoggia al muro di pietra, osservando il cielo terso sopra di noi. «Questa città sembra non voler svelare tutto subito. Ti lascia sempre con la sensazione che ci sia ancora qualcosa da scoprire.»
Annuisco, guardando il mare all’orizzonte. Il vento soffia tra le falesie, sollevando un sussurro che sembra davvero un respiro profondo.
«Forse è per questo che riesce a farsi ricordare.»
Ci sono luoghi che non si svelano subito ma ti lasciano sempre con la sensazione che abbiano ancora qualcosa da raccontare. Bonifacio è uno di questi: un respiro sospeso tra mare e cielo che continua a farsi ascoltare.

Un momento sospeso
Le strade di Bonifacio si snodano in un intricato labirinto di vicoli stretti, scalinate improvvise e archi che si aprono tra le case di pietra. Il sole è alto nel cielo, scaldando la città con una luce dorata che si riflette sulle pareti chiare degli edifici. Skippy cammina accanto a noi, scodinzolando con il suo solito entusiasmo, esplorando ogni centimetro come se volesse imprimerlo nella memoria.
Poi, tutto accade in un istante.
Un ringhio basso rompe l’armonia del momento. Un grosso cane legato davanti a una porta sbuca improvvisamente dall’ombra e abbaia con forza. Skippy si irrigidisce, le zampe inchiodate a terra, la coda tesa. Per un attimo tutto sembra sospeso, poi il suo istinto prende il sopravvento. Scatta in avanti con un balzo, si infila tra due vicoli stretti e scompare dietro l’angolo.
«Skippy!» La mia voce rimbalza sulle pietre ma è già troppo tardi.
Veronika impallidisce. Il respiro si spezza nel petto mentre parte di corsa, gli occhi spalancati, il panico che si fa largo nel suo sguardo. Io le vado dietro, cercando di mantenere il controllo. Non può essere andata lontano. Non può.
Ci dividiamo senza bisogno di dircelo. Io corro verso il porto, lei si infila in una delle tante scalinate che salgono verso la cittadella. Veronika corre senza fermarsi, ma il respiro è spezzato dall’ansia. La vedo stringersi una mano al petto, come se volesse trattenere il cuore che le martella dentro. Ad ogni svolta, rallenta per un istante, scruta il vicolo successivo con occhi spalancati, sperando di scorgere Skippy. Poi riparte, ancora più veloce.
A un tratto si blocca di colpo. Gira su se stessa, il fiato corto. Un rumore più avanti la fa trasalire. Uno scalpiccio rapido, un’ombra che si muove tra le case.
«Skippy?»
Ma è solo un gatto che scivola veloce dietro un muretto.
La tensione nel suo volto si fa più dura. Per un attimo, il pensiero che stavolta sia davvero diversa, che non la ritroveremo, attraversa anche me. Le nostre voci risuonano tra le vie, il nome di Skippy si disperde tra i muri antichi, tra le risate dei turisti ignari e lo scalpiccio della gente che va e viene. Ogni passo è un macigno nello stomaco.
Fermiamo chiunque incrociamo. Un’anziana scuote la testa con aria gentile, un commerciante indica un vicolo senza convinzione, un bambino ci guarda incuriosito prima di scrollare le spalle. Nessuno l’ha vista. Nessuno ha notato una piccola volpe sfrecciare tra le strade.
Il tempo si allunga in modo insopportabile.
Veronika si ferma di colpo nel mezzo di una piazzetta assolata. Le mani tremano leggermente mentre si stringe ai fianchi. Il petto le si alza e abbassa troppo velocemente, come se il respiro le sfuggisse. Quando si gira verso di me, i suoi occhi sono lucidi. Per un istante sembra che stia per piangere.
«Camillo, se l’abbiamo persa davvero?»
Mi avvicino, le poggio una mano sulla spalla. «Non l’abbiamo persa. È Skippy.» Cerco di suonare sicuro ma il nodo nello stomaco si stringe ancora di più. «E Skippy va dove c’è cibo.»
Veronika scossa la testa. «E se stavolta fosse diverso? Se qualcuno l’avesse presa? O se fosse uscita dalla cittadella? Se…»
«No.» La mia voce è più ferma di quanto mi senta davvero. «Non è successo niente di tutto questo. La troveremo.»
Ma anche dentro di me inizia a insinuarsi un dubbio, un pensiero che fino a pochi minuti fa sembrava impossibile. Se questa volta non fosse solo una delle sue marachelle? Se ci fosse davvero qualcosa di cui preoccuparsi?
Poi, all’improvviso, un suono.
Risate infantili, un brusio gioioso che rimbalza sulle pietre. Un piccolo guaito familiare. Il mio cuore fa un balzo.
«Veronika…» Lei mi guarda, poi corre nella mia stessa direzione.
Sbuchiamo in una stradina laterale e la vediamo.
Skippy è seduta in mezzo a un gruppo di bambini corsi, con le orecchie abbassate e il musetto sporco di briciole. Tra le zampe tiene stretto un pezzo di pane, mentre un bambino le allunga un altro boccone ridendo.
Veronika si blocca di colpo. Si porta una mano alla bocca, chiude gli occhi come se volesse trattenere un’emozione troppo forte da gestire. Io mi passo una mano sul viso, cercando di ritrovare un minimo di compostezza.
«Skippy.» La mia voce è più morbida adesso, quasi un sospiro di sollievo.
Lei alza gli occhi, inclina la testa di lato. Ci guarda come se fossimo noi a esserci persi, non lei.
Veronika si inginocchia lentamente, ancora troppo sconvolta per parlare. Skippy abbassa il musetto, poi le si avvicina, poggiando delicatamente la testa contro la sua spalla.
Non è un gesto qualunque. È una richiesta di scusa.
Veronika la stringe forte, affondando le dita nel suo pelo morbido. «Non farmi più una cosa del genere…» sussurra, la voce ancora tremante.
Skippy non si muove. Resta lì, immobile, come se sapesse esattamente quanto l’ha fatta preoccupare.
Finalmente, dopo un lungo momento, Veronika si stacca leggermente. Io prendo un respiro profondo e scuoto la testa. «Mi hai fatto prendere un infarto, piccola monella.»
Skippy mi lancia uno sguardo innocente, poi si stringe un po’ di più contro Veronika, che ancora la tiene stretta tra le braccia, come se volesse assicurarsi che non svanisca di nuovo.
Poi Veronika nota qualcosa tra le zampe di Skippy.
Un piccolo pezzo di corda marinara logora, consumata dal tempo e dal sale. Lo prende con delicatezza, scorrendo le dita sul nodo al centro, fatto in fretta, come se fosse stato annodato da mani piccole e veloci. Forse uno dei bambini gliel’ha infilato per gioco o forse lo ha trovato per terra, raccolto chissà dove.
Guardo il piccolo intreccio, le sue fibre ancora resistenti nonostante l’usura. Un nodo. Un legame che tiene, anche quando sembra logorato.
«È perfetto» dico. «Un nodo per ricordarci che, qualunque cosa accada, ci ritroveremo sempre.»
Skippy si accoccola meglio tra le braccia di Veronika, lasciandosi stringere ancora un istante. Salutiamo i bambini, li ringraziamo e finalmente riprendiamo la strada.
Bonifacio è la stessa di stamattina, eppure mi sembra diversa. Forse perché adesso sappiamo cosa significa davvero perdere qualcosa di prezioso.
Forse perché non importa quante avventure ci aspettano… finché siamo insieme, sarà sempre un viaggio straordinario.
Ci si può perdere in mille strade, tra dubbi e timori, ma i veri legami restano, come nodi che il tempo logora senza mai sciogliere del tutto.

L’orizzonte davanti a noi
Cercando di calmare il cuore che ancora batteva pesantemente nel petto, ci siamo ritrovati a camminare senza una vera direzione, seguendo il suono del vento e delle onde. I passi ci hanno portato fino a quello che scopriamo essere il Cimitero Marino di Bonifacio. È un luogo sospeso tra cielo e mare, in cima alle falesie, con le sue cappelle bianche che sembrano piccole case eterne rivolte verso l’orizzonte. Qui tutto è avvolto da un silenzio solenne, rotto solo dal vento che scivola tra le pietre e dal respiro del Mediterraneo che si infrange sulla roccia sottostante.
Ci sediamo su una panchina, lasciando che l’aria salmastra ci riempia i polmoni. Il sole inizia la sua lenta discesa. È uno di quei momenti in cui il tempo sembra sospendersi, in cui ogni pensiero si allinea con il ritmo della natura, come se fosse stato sempre lì, in attesa di essere ascoltato.
Veronika osserva il cimitero, il suo sguardo si perde tra le cappelle che si affacciano sul Mediterraneo. Il vento le solleva qualche ciocca di capelli ma lei non se ne accorge, assorta in un pensiero che solo dopo un lungo istante si trasforma in parole.
«Qui i morti riposano di fronte al mare. Chissà se lo sentono ancora. Chissà se, in qualche modo, viaggiano ancora anche loro.»
La guardo, poi rivolgo gli occhi all’orizzonte. Il mare è vasto, infinito, eppure così familiare. Un confine che non separa, ma collega.
«Forse sì» rispondo piano. «O forse sono loro a custodire tutte le storie che passano di qui.»
Lei annuisce lentamente. «In un certo senso, non si è mai fermi. Anche nella quiete, il tempo continua a scorrere, le onde continuano a modellare la roccia. Viaggiamo anche quando non ci muoviamo.»
Le sue parole si dissolvono nel vento e rimangono sospese nell’aria, come se Bonifacio stessa le avesse accolte, riconoscendone il senso profondo.
Mi giro verso di lei. «Siamo diversi da quando abbiamo lasciato Bologna.»
Non lo dico per dire, lo sento nel profondo. Siamo partiti con la voglia di esplorare il mondo, e invece il mondo sta esplorando noi. Ci ha messi alla prova, ci ha sorpresi, ci ha lasciato addosso le sue storie, i suoi volti, le sue cicatrici.
Veronika annuisce, il riflesso del sole nei suoi occhi chiari. «E lo saremo ancora. Ci siamo lasciati modellare da ciò che abbiamo visto e dalle persone che abbiamo incontrato. E continueremo a cambiare.»
Ci fermiamo ancora un attimo, lasciando che il senso di tutto questo viaggio si depositi dentro di noi, come la risacca che leviga la pietra, lenta ma inarrestabile.
Davanti a noi, la Sardegna è un’ombra appena accennata contro il cielo infuocato dal tramonto. Un’altra terra che ci aspetta. Un’altra avventura da vivere.
Ci alziamo senza fretta, con la consapevolezza che questa volta non ripartiremo subito. Bonifacio ci ospiterà ancora per qualche giorno. Il nostro aereo ha bisogno di attenzioni, così come noi abbiamo bisogno di lasciare sedimentare tutto quello che questo viaggio ci ha regalato prima di riprendere il volo.
L’avventura non è finita.
L’avventura, in fondo, non finisce mai.