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17 + Diario di Volo Kasserine

Verso Ovest

Sto per mettere in moto quando noto che la mano mi trema. Sono nervoso e agitato. Non è ansia da volo, non stavolta. È qualcosa che mi stringe dentro, un nodo di pensieri che non vogliono andarsene. Mentre giro la chiave di accensione dell’XCub, penso che Ali, seduto dietro di me in questo piccolo biposto, mi abbia lasciato i comandi per distrarmi, per aiutarmi a respirare un po’. Gli sono grato ma non gli ho detto grazie. Non ancora.

Prima del decollo mi mostra con calma le differenze rispetto al Cessna: i flap si controllano con una leva grande, montata in alto a sinistra, come nelle vecchie macchine agricole. Anche la posizione a terra è diversa: due ruote grandi davanti e una piccola dietro, sembra in punta di piedi. Eppure, appena prendiamo velocità sulla pista sterrata e sconnessa, sento le ruote affondare e ammortizzare dolcemente ogni buca. Poi, quasi senza accorgercene, l’XCub si stacca da terra.

È un attimo. Decolliamo in meno della metà dello spazio che servirebbe al mio Cessna.

Subito dopo la virata verso ovest ho il sole basso sull’orizzonte che colora di rame la campagna, rendendo questo paesaggio diverso da quando sono arrivato.

«Se tutto va bene arriveremo a Kasserine prima che faccia buio» mi avvisa la voce di Ali nelle cuffie.

L’XCub è scattante, agile, leggero. Sto pensando che mi piace pilotarlo quando Ali indica un fiume che brilla in lontananza illuminato dal sole che scivola tra le colline.

«È l’Oued Zeroud» mi dice «È un fiume stagionale che scorre verso ovest. Tienilo alla sinistra. Lo seguiremo per un po’.»

Guardo fuori e annuisco. Il fiume sembra una lama di luce incastonata nella terra.

Prima di decollare davvero bisogna lasciare a terra ciò che pesa dentro.

prima del decollo con l’Xcub (foto flight simulator 2024)

Grazie

Sorvoliamo una serie di rilievi nei pressi di Ouled Khalfallah. Queste colline, parte della dorsale tunisina, offrono un paesaggio suggestivo. Ali mi racconta che la zona è nota per la sua bellezza naturale e per le tradizioni locali legate alla pastorizia e all’agricoltura.

Subito dopo c’è il Barrage El Haouareb, un piccolo lago artificiale creato da una diga chiaramente visibile. La luce del tramonto, i rilievi attorno, i riflessi sull’acqua calma: tutto contribuisce a creare un’atmosfera incredibilmente rilassante.

Mi rendo conto che, come la moto, anche volare mi aiuta a calmarmi e sentirmi bene.

Prendo un respiro e, un po’ in imbarazzo, rompo il silenzio: «Grazie… Grazie di tutto, Ali. Grazie per avermi permesso di pilotare e di distrarmi… non ci conosciamo da molto ma ti sono grato per tutto quello che hai già fatto e stai facendo per me.»

«Baraka Allāhu fīk» sento in cuffia. Poi mi spiega che è un’espressione tipica: significa “Che Dio ti benedica”. È un modo tradizionale per esprimere gratitudine e benedizione nella cultura tunisina.

Poi mi stringe la spalla con la mano, una sorta di abbraccio silenzioso.

A volte basta volare bassi per sentirsi più leggeri dentro.

parte della dorsale tunisina (foto flight simulator 2024)

Le alture del Mghilla

Il sole si fa più tenue, ancora nascosto tra le nuvole all’orizzonte. Il paesaggio cambia: le colline più marcate si trasformano in rilievi decisi.

«È il Parc National de Jebel Mghilla» dice Ali mentre mi tocca la spalla sinistra e indica la montagna che si staglia alla nostra sinistra.

Mi colpisce la sua imponenza: si alza come un baluardo nella distesa ondulata che ci accompagna da Kairouan. Ali, che sembra conoscere ogni angolo di questa terra, racconta che queste montagne, un tempo frequentate solo da pastori e cacciatori, sono oggi luogo di protezione per aquile reali, lepri berbere e persino iene striate.

«Ma sai qual è la leggenda?» mi chiede con un tono di mistero. «Si dice che qui si rifugiasse un vecchio contrabbandiere che conosceva ogni sentiero e ogni grotta. Lo chiamavano l’uomo senza orme, perché nessuno riusciva mai a seguirlo.»

Sorrido. Sembra una favola ma detta da lui, con la sua strana cadenza italiana, suona come una verità nascosta.

«Ora sali un po’» dice all’improvviso. «Tagliamo il crinale e andiamo verso Sbeitla

«Sbeitla?» chiedo, cercando di orientarmi.

«Fidati, ti piacerà.»

Eseguo la manovra guadagnando quota. Lo faccio senza pensarci troppo ma dentro sento qualcosa muoversi. Torna quella sensazione di essermi allontanato da ciò che conosco per andare incontro a qualcosa che mi spaventa e mi risveglia istinti primitivi.

Prendo un respiro profondo, cercando di riprendere la calma.

Ogni quota nuova richiede di lasciare a terra una parte di sé.

verso il Parc National de Jebel Mghilla (foto flight simulator 2024)

Tempo immobile

«Ci siamo.» esclama Ali mentre superiamo l’ultimo crinale e il paesaggio si apre come un sipario su una cittadina dalle case basse. Mi fa cenno di abbassarmi leggermente, così riduco la potenza e ci lasciamo scivolare in una lenta planata.

Davanti a noi Sbeitla sembra scolpita nella terra.

Resto in silenzio per qualche secondo osservando il mosaico di pietre antiche che ho d’avanti. Tutto appare immobile, come se trattenesse il respiro.

«È l’antica Sufetula» dice Ali con voce calma «una delle città romane meglio conservate della Tunisia.»

Da quassù si vedono nettamente i resti del foro, tre templi allineati, colonne ancora in piedi, e l’ombra lunga dell’arco di trionfo che si disegna sulla terra.

«Quei tre templi lì» continua «non sono dedicati a una sola divinità ma a tre: Giove, Giunone e Minerva. Di solito i romani li riunivano in un unico edificio. Qui, no. Qui ognuna aveva il suo tempio. È unico nel mondo romano.»

Mi sporgo leggermente, cercando di cogliere i dettagli: il teatro semi-sepolto, la trama delle strade, i resti delle basiliche cristiane che si distinguono appena tra la pietra gialla e la sabbia.

«Qui si è anche combattuto» aggiunge Ali. «Nel 647 dopo Cristo, gli arabi guidati da Abdallah ibn Sa’ad sconfissero i bizantini. Fu uno degli scontri che aprirono la strada alla conquista dell’Africa del Nord. Dopo quella battaglia, Sufetula non tornò più la stessa.»

Resto in silenzio. La luce radente esalta ogni rilievo, ogni colonna spezzata, ogni traccia lasciata da mani che non ci sono più. È come volare sopra una memoria ancora viva.

«Non è solo un sito archeologico» dice Ali, come se leggesse nei miei pensieri. «È un posto che parla. Devi solo saper ascoltare.»

Faccio un cenno, lasciando che lo sguardo si posi sulle rovine una volta ancora, prima di tornare a puntare nuovamente verso ovest.

Alle nostre spalle, Sbeitla rimane lì.
Piccola e fragile.
Ma più grande di quanto avrei mai immaginato.

Ci sono luoghi che non parlano ma sussurrano. Basta saperli ascoltare dall’alto.

i tre Templi di Sbeitla (foto Dall-E)

Lampioni

«Segui la P13» mi dice Ali puntando il dito verso una linea luminosa che si snoda nel paesaggio. «Vedi la luce dei lampioni? Ci porteranno a Kasserine

Guardo giù e noto la sottile colonna di luce che serpeggia nel paesaggio sempre più scuro. Una strada che non divide ma collega. L’XCub prosegue silenzioso nelle prime luci della sera.

All’improvviso sento una leggera pacca sulla spalla. Ali mi indica qualcosa in alto alla mia sinistra: un piccolo tubicino di vetro sopra la testa. All’interno, il livello di carburante si è quasi azzerato.

«È il serbatoio sinistro» dice con tono calmo. «Quello che stiamo usando da inizio volo.»

Mi volto verso destra, intuendo che ci sia un secondo tubicino. Eccolo: il livello è visibilmente più alto. Mi colpisce la semplicità di questo sistema: due tubicini, due finestre trasparenti che raccontano con chiarezza quanto ancora possiamo volare.

Ali mi indica poi una leva rossa accanto al mio ginocchio sinistro. «Quella, ruotala per cambiare serbatoio.»

Obbedisco. Ruoto con cautela. Ali sorride e mi dà due leggere pacche sulla spalla. Non dice nulla ma il messaggio è chiarissimo: bravo.

Pochi istanti dopo compare Kasserine. La città è lì, distesa tra la terra e le montagne, accesa da mille punti luce che tremano nella penombra. Il tramonto la avvolge con gli ultimi bagliori dorati.

Restiamo in silenzio. Nessuno dice nulla. Perché a volte, quando arrivi in volo sopra una città che non conosci ma che sembra aspettarti, non c’è bisogno di parole.

Ci sono silenzi che parlano più di un debriefing.

Djebel Chambi la vetta più alta della Tunisia (foto flight simulator 2024)

Kasserine

Sopra Kasserine l’aria è immobile, il cielo sfuma ora verso il viola e la città sotto di noi sembra sospesa tra la quiete e una memoria che non dorme mai.

«La conosci la storia di questa città?» chiede Ali, mentre indica con un movimento della testa una zona più a sud-ovest.

«So solo che c’è una montagna importante qui vicino.»

«Djebel Chambi. Sì, è la vetta più alta della Tunisia. Lì, alla nostra destra: 1.544 metri»

Mi giro a osservarla. Lui continua: «Ma non è solo la montagna ad aver fatto la storia di Kasserine. Questa terra ha visto la guerra, vera. Quella mondiale.»

Resto in silenzio, incuriosito, lasciandogli spazio per continuare. La sua voce si fa più intensa.

«Febbraio 1943. Le forze dell’Asse, guidate da Rommel, hanno colpito duro gli americani nel Passo di Kasserine. Una disfatta. I soldati alleati non erano preparati alla tattica tedesca. Persero uomini, terreno… e innocenza. Quel giorno si è fatta la storia.»

La città sotto di noi ora ha un peso diverso.

«Dopo quella sconfitta, gli americani cambiarono tutto. Comandi, strategie. E da lì, lentamente, iniziarono a vincere. Ma qui… qui ci hanno lasciato il sangue.»

«Ci sono ancora segni?» chiedo.

«Ci sono. Cimiteri, resti, racconti. La gente non dimentica. Kasserine è una città fiera, dura, ancora oggi. Ha vissuto anche le rivolte degli anni ’80. E durante la Rivoluzione del 2011 è stata una delle prime a scendere in piazza. Sempre in prima linea, anche quando nessuno la guarda.»

Abbasso lo sguardo. Le luci delle case sembrano tutte accese adesso, come occhi che ascoltano.

«Sento un grande ardore dentro di te mentre racconti queste cose, Ali.»

Sorride. «Perché mio nonno c’era. Non alla guerra ma alla rivoluzione del pane. E mio padre, nel 2011, era in strada. Qui la storia non è nei libri. È nelle famiglie. La mia è stata presente.»

Resto in silenzio mentre penso che la sua voce, così enfatica e decisa mentre racconta queste cose, rispecchia il mio stato d’animo. Determinato a lottare per chiudere questa faccenda e proteggere le persone che amo.

Kasserine non è solo un punto d’arrivo. È un nodo, un incrocio di vite, lotte e memoria. E dall’alto sembra voglia darmi forza e coraggio per portare a termine la mia battaglia.

Ci sono luoghi che non si attraversano. Ti attraversano loro.

superata Kasserine (foto flight simulator 2024)

Sipario

Sembra che il cielo abbia deciso di abbassare il sipario su una giornata intensa. La luce del sole ormai è fioca. Ali mi indica una rotta precisa: «Ci siamo quasi. Dirigiti verso Thélepte

Guardo verso l’orizzonte, cercando qualcosa che mi confermi dove andare. Ma vedo solo un piccolo luccichio lontano, come una manciata di luci perse tra le pieghe del paesaggio. Forse un villaggio. Forse una cittadina. Forse solo una suggestione.

Il terreno si fa più ruvido. Arido, segnato da piccole depressioni e colline smussate. Il tipo di paesaggio che non racconta nulla, a meno che tu non sappia ascoltare.

Cerco l’aeroporto ma non lo vedo. Mi guardo continuamente attorno e Ali, notando la mia agitazione, cerca di rassicurarmi.

«Non ti preoccupare» dice con tono tranquillo. «È in basso, in una depressione. Da qui non si vede. Ma c’è.»

Poco dopo la pista compare in una sorta di conca, improvvisa come una certezza che si rivela solo all’ultimo. È stretta, spoglia, quasi invisibile nel paesaggio. Ma c’è.

Sento Ali parlare alla radio, scambiare poche parole in francese con qualcuno a terra. La risposta arriva chiara: abbiamo l’autorizzazione all’atterraggio.

«Fammi fare un giro» gli dico, prendendo leggermente quota. Voglio capire come è orientata la pista rispetto al vento e al terreno.

L’XCub risponde preciso, come se sapesse che questa è la parte in cui si gioca tutto: chiudere il volo bene, con rispetto.

Ali non dice nulla ma so che sta osservando con attenzione ogni mio movimento. Del resto questo è il suo aereo. So che se sbaglio me lo dirà con gentilezza. Ma se atterro bene… forse mi darà una di quelle sue pacche sulla spalla che valgono più di mille parole.

Nel volo, come nella vita, ci sono mani che guidano anche quando restano ferme.

verso Thélepte (foto flight simulator 2024)

Un atterraggio diverso

Abbasso la velocità agendo con attenzione sulle due leve che ho a sinistra: quella blu, che controlla il passo dell’elica, e quella nera, per la potenza del motore.

Poi, quando la velocità è idonea, abbasso la grossa leva dei flap sopra la mia testa e sento l’XCub modificare il suo assetto. Il silenzio è totale, ora che il motore non ruggisce più come prima.

Mi allineo con la pista. È corta ma so che questo aereo non è il Cessna e necessita di molto meno spazio. So anche che ha il baricentro più arretrato, le ruote grandi davanti e una piccola dietro. Se sbaglio l’assetto, potrei rimbalzare malamente o, peggio, farlo impennare.

Resto concentrato, allontanando tutti i pensieri.

Sento le ruote toccare con una delicatezza che non mi aspettavo. Morbide, grandi, come se affondassero appena nel terreno. Un leggero rimbalzo. Poi la seconda toccata, più stabile. Sorrido. Accarezzo i freni, sento l’XCub rallentare senza fretta.

Due pacche leggere sulla spalla. Le riconosco subito. Ali.

Ho fatto un buon lavoro.

Rulliamo verso le piazzole a fondo pista. Noto subito un dettaglio: alcune tende bianche, pulite, ordinate, con sopra un simbolo medico. Un emblema umanitario.

Ali mi indica con un cenno dove parcheggiare. Eseguo senza dire una parola. Spengo motore, strumenti, luci. Un silenzio nuovo ci avvolge. Scendiamo.

L’aria, nonostante l’ora, è ancora calda. Sospesa. Profuma di terra e vento.

Un uomo si avvicina dal buio della pista. Indossa una pettorina rifrangente ma l’abbraccio con cui accoglie Ali rivela qualcosa di più. Si conoscono. Da tempo.

«Dov’è il grande capo?» chiede Ali in inglese, con un tono a metà tra lo scherzoso e il rispettoso.

L’uomo indica una delle tende bianche, sul margine esterno della pista, lontano da tutto e da tutti.

Ali si gira verso di me. Mi guarda. E senza una parola mi fa segno di seguirlo.

Ci sono atterraggi che segnano la fine di un volo. E altri l’inizio di qualcosa.

sulla pista di Kasserine (foto flight simulator 2024)

16 – Diario di Viaggio Qayrawan

Benvenuti a Casa

La polvere rossa si sta ancora posando lentamente sul terreno quando scendiamo dall’aereo. Ali si avvicina con passo sicuro, spalanca le braccia e ci accoglie con un ampio sorriso. Meriem, sua moglie, ci raggiunge subito dopo. Ha uno sguardo calmo, accogliente. Incrocia quello di Veronika e, come se si fossero riconosciute da sempre, le porge la mano con un gesto delicato, poi le sfiora le spalle con un abbraccio laterale e due baci rapidi sulle guance.

«Marhba bikum… benvenuti.»

Ali, con un italiano marcato ma comprensibile, ci invita a seguirli. «Prego, venite.»

Ci incamminiamo lungo un sentiero di terra battuta con il sole che accende i colori della campagna. La casa è bellissima, intonacata a calce bianca, con infissi azzurri e una tettoia di canne intrecciate che regala ombra alla piccola veranda. All’interno l’aria è sorprendentemente fresca grazie ai muri spessi. Il salotto è semplice ma pieno di dettagli: tappeti berberi, cuscini colorati, fotografie incorniciate alle pareti, scatti in bianco e nero, momenti di volo, istantanee familiari. Un modellino di aereo fatto a mano troneggia su una mensola accanto a un vecchio casco da pilota.

Meriem ci porge tre bicchieri bassi di tè alla menta, caldo e profumato.

«Zouj choia sucrée? Poco zucchero?» chiede a Veronika, che annuisce sorridendo. Sul tavolino, una ciotola con datteri, mandorle e un pane tondo ricoperto di semi di sesamo completa l’accoglienza.

Bevo un sorso. Il sapore è forte, dolce e profondo. Poi appoggio il bicchiere e mi rivolgo ad Ali. «Durante il volo… abbiamo avuto un problema. La pressione del carburante è calata all’improvviso. Non si è ripresentato ma non mi convince. Hai per caso strumenti più tecnici per controllare bene il regolatore e il circuito?»

Ali si gratta la barba e annuisce. «Sì, certo. Ho tutto. Facciamo insieme. È importante.»

Ci alziamo e ci dirigiamo verso il piccolo hangar accanto alla casa, lasciando Veronika e Skippy in compagnia di Meriem.

Rimaste sole le due donne si guardano un attimo in silenzio. Poi Meriem si siede accanto a Veronika e le porge un altro dattero. Parlano piano, mescolando italiano e inglese. In pochi minuti, tra loro si crea una confidenza semplice, sincera. Fatto di gesti, sorrisi, e silenzi condivisi.

Ci sono luoghi che ti accolgono con una tazza di tè e uno sguardo sincero. E in quel gesto… sei già a casa.

Ali e Meriem (foto Dall-E)

Scoperte

Ali si avvicina al Cessna e si infila sotto l’ala con naturalezza, come se lo facesse ogni giorno. Lo seguo in silenzio con in mano la torcia e la chiave inglese lunga che mi ha passato.

Iniziamo controllando il vano motore, poi seguiamo la linea del carburante. Passiamo molto tempo in assoluta concentrazione, scambiandoci poche parole, finché Ali, inginocchiato sul lato destro della fusoliera, si blocca e mi chiama con un cenno.

«Qui. Vicino all’attacco della pompa meccanica… vedi questo tubo?»

Mi chino per osservare meglio. È uno dei condotti che convoglia il carburante dalla pompa meccanica verso l’unità di controllo aria-carburante. A prima vista sembra tutto in ordine ma, quando Ali spinge leggermente un raccordo, noto una sottile traccia di benzina secca proprio lì dove non dovrebbe esserci nulla.

Ali si alza lentamente, lo sguardo serio. «Questo… non è bene. È stato allentato. Apposta.»

Lo guardo fisso. Le parole si fermano tra i denti. Non era un guasto. Era una manomissione intelligente. Un intervento preciso su un punto chiave del circuito, dove una piccola perdita avrebbe potuto peggiorare col tempo, causare un calo di pressione, indebolire il motore… lontano da testimoni, lontano da chiunque potesse aiutarci.

«Qualcuno voleva farci precipitare ma… non subito. Voleva che ce ne andassimo… per poi sparire nel nulla.» La mia voce è bassa, contratta.

Le immagini si affollano nella mia mente: quell’uomo che ci fotografava a Cagliari, l’uomo incappucciato al mercato di Tunisi, il mio sospetto che cresceva senza prove. Ora le prove sono lì, sotto gli occhi.

Sono furioso.

Ali resta composto. Non parla ma mi guarda con un rispetto silenzioso.

Riprendo fiato. «Dove possiamo trovare questo pezzo per la sostituzione?»

Ali scuote la testa. «No. Non qui. È specifico. Regolatore… raccordo per questa zona del circuito. Qui in Tunisia… mesi per averlo.»

Mi passo una mano sul viso, cercando di controllare la rabbia e trovare una soluzione. Poi prendo il telefono e compongo il numero di Carlo. Risponde al terzo squillo.

«Carlo… il Cessna è stato sabotato. Credo a Tunisi. Hanno allentato un raccordo vicino alla pompa del carburante e manomesso il regolatore. È stato fatto apposta. Hanno giocato con la pressione ma senza fretta.»

Dall’altra parte, il silenzio dura un istante. Poi Carlo, con voce bassa ma ferma: «Camillo te lo avevo detto. State disturbando qualcuno. Qualcuno che ha paura che arriviate troppo vicini a qualcosa che non vuole venga scoperto.»

«Lo so Carlo… ormai è chiaro anche a me. Ali dice che potremmo restare qui settimane perché questo specifico tipo di ricambio non è disponibile probabilmente in questa zona.»

«Dammi un’ora. Faccio un po’ di telefonate. Conosco qualcuno in zona. Tu intanto resta lì e mi raccomando… occhi aperti.»

Annuisco chiudendo la chiamata e resto in silenzio, immerso nei mille pensieri mentre osservo il Cessna. Rientriamo in casa con le scarpe impolverate e il cuore gonfio; Ali vuole controllare dei siti web specializzati della zona per capire se hanno una soluzione.

Quello che trovo in cucina è un contrasto totale rispetto al mio stato d’animo. Veronika, Meriem e Skippy sono attorno al tavolo. Le mani delle donne impastano insieme sottili sfoglie di pasta.

«Si chiamano brik» spiega Meriem, indicando le forme triangolari. «Si preparano con pasta sottile e si farciscono con uova, tonno e prezzemolo. Poi si friggono fino a doratura.»

Skippy osserva Veronika sorridere di gusto. L’atmosfera è calda, serena. C’è odore di cumino e farina tostata.

Rimango sulla soglia, con un sorriso che non riesce a essere sincero. Per ora, preferisco non dire nulla.

La verità a volte sta tutta in un dettaglio. Una vite allentata, un odore secco… e un istante in cui capisci di essere nel mirino.

manutenzione al cessna (foto Dall-E)

Un pranzo denso di pensieri

Il pranzo viene servito sotto il portico, all’ombra di una tettoia di canne intrecciate. Il tavolo è basso, coperto da una tovaglia decorata a mano con motivi geometrici. Al centro un grande piatto colmo di kaftaji, un mix fritto di patate, peperoni verdi, uova, pomodori e spezie. Accanto, ciotoline con olive nere, harissa, carote speziate, datteri freschi e pane piatto, caldo e profumato, spezzato con le mani e distribuito senza formalità.

Meriem appoggia un brik triangolare nel piatto di Veronika. «Si mangiano caldi, appena fritti. Sono semplici ma se li fai con calma… sono buonissimi.»

Ali, seduto accanto a me, annuisce. «Il kaftaji è povero… ma potente. Ti resta dentro. Come Qairouan.»

«Qairouan… è così che si pronuncia?» chiede Veronika, appoggiando il cucchiaio per un momento.

«Sì. Qairouan. In arabo si dice Al-Qayrawān. Vuol dire “accampamento” o “luogo di raduno”.»

Ali si piega in avanti, coinvolto dal racconto. «Fu fondata dagli arabi nel settimo secolo, come punto strategico tra mare e deserto ma poi è diventata sacra. La quarta città santa dell’Islam, dopo La Mecca, Medina e Gerusalemme. C’è una leggenda che dice che ogni sette pellegrinaggi a Qairouan valgono come uno alla Mecca.»

Ascolto distrattamente. Muovo il cucchiaio nel piatto con gesto meccanico. Non ho fame. Sono ancora teso, la mente piena di immagini e sospetti. Cerco di tornare in me.

Ali mi osserva con la coda dell’occhio, poi cambia tono cercando di coinvolgermi nella conversazione. «Sai cosa dicono gli anziani da queste parti? Che Qairouan è come il tè alla menta: se la bevi una volta, torni sempre. Ma se la bevi due volte… ci resti per sempre.»

Meriem sorride mentre riempie nuovamente i piatti, offrendo un altro pezzo di pane caldo.

Accenno un sorriso, più per educazione che per fame.

Ali lo capisce. Non insiste. Prende un boccone, poi si pulisce le mani con un tovagliolo e cambia argomento con discrezione.

«Dunque… quell’uomo che cercate. Il posto che mi hai descritto prima… lo conosco. È isolato ma ci si può arrivare. Se volete, vi accompagniamo con piacere. Possiamo andare subito dopo pranzo, prima che il sole si abbassi troppo.»

Veronika si volta verso di me. Alzo lo sguardo dal piatto e annuisco, anche se quell’uomo e la sua storia ora, per me, sono l’ultima cosa a cui riesco a pensare. Ma devo capire come chiudere questa storia. Come farci lasciare in pace.

Bevo un sorso d’acqua.

«Sì. Andiamo.»

Ci sono tavole dove il cibo parla. Ma a volte, anche il piatto più caldo non riesce a scaldare quello che porti dentro.

il pranzo a casa di Ali e Meriem (foto Dall-E)

Verso il cuore del silenzio

Il grande SUV bianco di Ali scivola lungo una pista di terra battuta che si allontana sempre più dalla strada asfaltata. La campagna intorno è piatta ma viva: ulivi nodosi si alternano a palmeti radi e la terra assume sfumature ramate sotto il sole del primo pomeriggio. Il cielo è terso, immobile. Solo il vento tra le foglie rompe il silenzio.

Meriem si gira verso Veronika, indicando col dito un dosso in lontananza. «Lì c’era una sorgente, una volta. Gli anziani dicevano che l’acqua veniva dal sottosuolo benedetto. Ora è asciutta… ma qualcuno viene ancora a pregare.»

Poco dopo, superiamo un vecchio pozzo in pietra, poi un albero solitario che Meriem chiama l’olivo della promessa. «Dicono che le donne ci legavano nastri se volevano un figlio. Se l’olivo fioriva entro l’anno era segno buono.»

Ascolto senza dire una parola. Veronika mi osserva in silenzio; ormai le è chiaro che qualcosa non va.

Dopo quasi un’ora di guida, il SUV rallenta. Davanti a noi, una piccola struttura in pietra, isolata, con il tetto piatto e l’intonaco scolorito. Nessuna recinzione, nessun rumore.

Ali parcheggia sotto una palma, spegne il motore e si gira verso di noi. «Siamo arrivati. Lui è lì dentro. Ma noi restiamo qui. È meglio.»

Meriem annuisce. «Vi aspettiamo. Prendetevi il tempo che serve.»

Apro la portiera. Il silenzio fuori è quasi solido. Un vento caldo mi accarezza il volto.

Veronika e Skippy mi seguono mentre mi avvio verso la porta con passo lento ma deciso.

Nessuno parla.

Tutto in questo momento e in questo luogo sembra sospeso.

Ci sono silenzi che non fanno rumore ma, quando li attraversi, sai che qualcosa sta per cambiare per sempre.

ulivo della promessa (foto Dall-E)

Il Custode del Segreto

L’anziano esce sul piccolo portico. Non ci chiede nulla ma quando i suoi occhi incrociano la fibula in rame donataci da Adnen, si ferma. Lo sguardo cambia.

Ci osserva uno a uno, poi ci fa cenno di entrare. Nessuna parola. Nessuna esitazione.

È un uomo alto, magro, il corpo leggermente incurvato dagli anni ma con una presenza che riempie lo spazio. Le mani sono forti, segnate dal legno e dal tempo. Gli occhi invece… sono vivi. Di un’intensità che mette a nudo.

«Se avete quella…» dice piano «e siete arrivati fin qui… allora sapete già chi sono. E so perché siete qui.»

Ci accomodiamo. La casa è piccola ma ogni oggetto ha un peso. Oggetti intagliati, utensili antichi, frammenti lignei… reliquie. Pezzi di storia.

«Ho servito tutta la mia vita come custode del segreto del nostro Ordine. Quando è iniziata la scissione e ho scelto da che parte stare… mi hanno fatto capire che il mio tempo era finito. Vi dirò quel che posso. Ma oltre questo… c’è solo silenzio.»

La sua voce è limpida. Perfetto italiano ma attraversato da un accento maghrebino che lo rende ancora più grave.

«Ampsicora… non si tolse la vita. Fu fatto fuggire. Dopo la sconfitta guidò i pochi rimasti in un esilio volontario. Un esilio voluto per proteggere un sapere che i vincitori non volevano solo dimenticare… volevano cancellarlo. Non erano solo i Romani. Era la religione del potere. Quella che l’Impero portava ovunque. E che ancora oggi… veste altri nomi.»

Indica una statua in legno: alta, sproporzionata, potente. I contorni sono grezzi ma lo spirito scolpito dentro è antico e fiero.

«Durante la battaglia con Roma non tutti furono uccisi. Alcuni scelsero di sparire. Ampsicora non voleva diventare un martire ma un seme. Qui, in questa terra accogliente, dove la sabbia protegge più che nascondere fondò un nuovo Ordine. I suoi figli… e poi i figli dei figli… hanno continuato a custodire il segreto. Fino a noi.»

Fa una pausa. Abbassa lo sguardo.

«Ma oggi… il tempo dell’Ordine è alla fine. I giovani non vogliono più vivere nell’ombra. Sono distratti, affamati di visibilità, rapiti dal mondo veloce che ci gira intorno. Alcuni nell’ordine credono che il mondo sia pronto per la verità. Altri… sanno che il momento è passato. E forse… hanno ragione.»

Alza gli occhi. Lo sguardo si fa tagliente.

«Loro… quelli di Roma e dei loro alleati… oggi sono ancora più forti. Controllano i media. Le menti. La narrazione. Se dicessimo oggi ciò che sappiamo… se mostrassero ciò che nascondiamo ci descriverebbero come pazzi. Complottisti. E la verità… morirebbe ridicolizzata.»

Estrae una shisha da sotto il tavolo. L’accende con calma e l’aroma caldo del tabacco speziato riempie la stanza.

«E poi… se scoprissero che siamo ancora attivi… non ci darebbero nemmeno il tempo di spiegare. Loro hanno eserciti. Hanno banche. Hanno delegazioni nei posti giusti. Noi… siamo solo ombre. E peggio ancora: divisi.»

Aspira lentamente. Espira.

«Da anni ormai l’Ordine è spaccato in due. Una parte vuole mostrare tutto. L’altra vuole cancellare ogni traccia. E chi si avvicina troppo… viene fermato. In qualunque modo.»

Mi irrigidisco. Sento la rabbia salire come un’onda.

«Lo so. Hanno sabotato il nostro aereo. Ci seguono da giorni. E non si fermeranno. Vogliono metterci a tacere. Per sempre.»

Veronika sgrana gli occhi. Skippy si stringe alla sua gamba, ora consapevole del rischio che abbiamo corso e che stiamo correndo.

L’anziano mi guarda con più attenzione. Annuisce.

«È la fazione del silenzio. Sono fanatici. Per loro… voi siete un rischio che non possono permettersi.»

Mi alzo. Il cuore mi batte forte. Le mani strette a pugno.

«E allora che facciamo? Come si ferma questa follia?»

L’anziano rimane in silenzio. Lo vedo riflettere. Poi si alza anche lui, lentamente.

«C’è solo una persona che può decidere il destino di questa storia. Il Maestro Venerabile. Vive a Gafsa. È l’ultimo discendente diretto di Ampsicora. Entrambe le fazioni gli devono rispetto. È l’unico che può proteggerli… e forse, proteggere anche voi.»

«Un… suo discendente?» sussurra Veronika.

«Sì, a differenza di quel che hanno sempre raccontato. Ampsicora ebbe una nuova progenie in Tunisia. L’ultimo discendente non ha mai lasciato Gafsa. È lui che custodisce ciò che nessun altro ha mai visto. Ma non vi aprirà le porte con leggerezza. Chi ha voluto sapere… ha dovuto rinunciare a molto. Perché sapere, figli miei… significa portare un peso. E non tutti sono pronti a portarlo.»

Stringo i pugni. Lo sguardo fermo.

«Lo troveremo. Qualsiasi cosa ci chieda… lo faremo. Ma questa storia va chiusa. Una volta per tutte.»

L’anziano cammina verso una vecchia cassapanca. La apre. Dentro, tra tessuti consumati, prende un oggetto avvolto in un panno. Lo scarta lentamente.

È un medaglione. Il simbolo è quello: un cerchio spezzato con una punta ricurva. Lo stesso che aveva Adnen. Lo stesso inciso sulla spilla di Skippy.

Ce lo porge. Nessuna parola.

Il nostro viaggio…

…non è ancora finito.

Ci sono verità che non si cercano. Ti scelgono loro ma chiederanno qualcosa in cambio… sempre.

l’anziano custode (foto Dall-E)

Decidere in silenzio

Esco dalla piccola casa con il cuore in tumulto e i pensieri che si accavallano come onde.

Cammino deciso verso l’auto, Veronika e Skippy mi seguono in silenzio. Non c’è bisogno di parole. Hanno capito. Lo vedo nei loro occhi.

Salgo in macchina senza dire nulla. Mi siedo accanto ad Ali, fisso il finestrino e mi lascio inghiottire dal paesaggio. Lui mi osserva senza dirmi nulla, poi mette in moto.

La campagna tunisina sembra più secca, più dura rispetto all’andata. Forse rispecchia il mio stato d’animo.

Ali e Meriem non fanno domande. L’auto si muove lenta, come se volesse darci tempo.

Poi il telefono vibra nella tasca. Lo tiro fuori. Sullo schermo compare il nome di Carlo.

Rispondo subito. La chiamata dura poco ma basta a rimettere in moto qualcosa dentro di me.

Rifletto un attimo, prendo un respiro profondo e mi volto verso Ali.

«Carlo ha trovato una soluzione. A Kasserine c’è ancora una delle sedi del vostro gruppo. Una vecchia base usata per le missioni umanitarie. C’è un uomo lì, un ex tecnico aeronautico. Si chiama Jonas Meijer. È olandese. Carlo mi ha detto che è preciso, silenzioso… ma se qualcosa si può fare, lui lo fa.»

Ali annuisce prima ancora che finisca.

«Conosco bene quel posto. Ci passo spesso e conosco Jonas. È uno che non parla ma agisce. Se Carlo ha detto di andare da lui, allora si può fare.»

Lo guardo, serio. «Voglio partire subito. Appena possibile.»

Ali non ci pensa due volte. «Allora vengo con te. Ma prendiamo il mio Xcub. Non ti lascio andare da solo e non puoi volare in sicurezza con il Cessna.»

Mi volto verso Veronika. Lei mi fissa, immobile.

Meriem, intuendo i nostri pensieri, ci dice con un mezzo sorriso:

«Tranquillo… loro resteranno con me. Faremo una vera serata tra donne.»

Il sole, fuori, sta già calando. Ma dentro… il fuoco non si è mai spento.

Ci sono momenti in cui non puoi aspettare il domani. Perché è adesso che si decide tutto.

in viaggio verso casa (foto Dall-E)

Preparativi

Il sole inizia la sua discesa quando rientriamo alla casa di Ali. Non perdiamo tempo: ognuno sa cosa fare. Io recupero il mio zaino e qualcosa da bere, mentre Ali apre le porte dell’hangar con un gesto lento, quasi cerimoniale. Lì dentro, sotto una luce calda e bassa, l’XCub sembra una creatura pronta a scattare.

Mi avvicino con rispetto. Non è il nostro Cessna e si vede subito. Questo è più alto da terra, con ruote anteriori molto grandi pronte a mordere la polvere. La fusoliera snella, le ali allungate come braccia tese al vento.

«È come passare da una station wagon… a un fuoristrada nervoso» mormoro tra me.

Ali sorride. «E vola come una gazzella se la sai trattare.»

Controlliamo insieme i flap, l’elica Hartzell, i livelli. Poi lui sale sulla pedana laterale e apre il portellone. L’interno è spartano ma moderno: pannelli digitali, sedili leggeri, tutto pensato per il bush flying. Mi passa le cuffie e mi fa segno di salire nel posto del pilota.

«Tocca a te. Io solo co-pilota oggi.»

Annuisco. Non mi tiro indietro. Non più e poi sarà divertente.

Nel frattempo, alle nostre spalle, le voci delle donne si intrecciano come fili di seta. Veronika e Skippy sono in veranda con Meriem, che si è avvicinata a lei con passo leggero.

«Stasera serata speciale» le dice con un sorriso. «Solo donne. Henné, musica, racconti. Una mia amica viene… ne ha sempre voglia.»

Veronika la guarda sorpresa. «Henné?»

«Sì. È un rito antico. Decoriamo le mani e i piedi. Parliamo. Cantiamo. Niente uomini, solo noi.»

Skippy emette un verso di approvazione, ha già deciso che le va benissimo.

Veronika annuisce, quasi emozionata. «Mi sembra perfetto. Dopo tutto questo… ci vuole proprio una serata tra donne.»

Meriem le stringe le dita tra le sue. «E ti farà bene. Il disegno non è solo decoro. È protezione.»

Ali mi fa cenno: è ora.

Saliamo a bordo. Il portellone si chiude con un clic metallico.

Il mondo fuori si fa silenzioso.

Dentro, il motore ci attende.

Fuori… la notte arriverà con nuove storie da scrivere.

Ci sono partenze che somigliano a un ritorno. Basta il rumore del motore… e tutto ricomincia.

casa di Ali e Meriem (foto Dall-E)

16 + diario di volo Kairouan

Risveglio nella medina

Il richiamo del muezzin ci sveglia prima ancora che il sole si affacci sui tetti. Una voce lontana, lenta, trascinata dal vento, si diffonde tra le mura della medina e rimbalza nei vicoli come un’eco senza tempo.

È la nostra prima alba in Tunisia. Eppure lo sento: dovremo abituarci… e non la dimenticheremo.

Dopo il canto, arrivano i suoni della vita: le prime voci basse, i passi leggeri sul selciato, il cigolio dei carretti, il tintinnio dei cucchiaini contro il vetro sottile dei bicchieri. Un ritmo nuovo, familiare e sconosciuto insieme.

Veronika si gira nel letto, si stira con lentezza. Skippy la imita con uno vistoso sbadiglio. Lei mi guarda, si avvicina e mi sfiora la guancia con un bacio. «Buongiorno.»

Apro un occhio appena. Poi lo richiudo. Negli ultimi giorni ho dormito poco e male. Il mio corpo lo sa e loro, ormai, lo sanno meglio di me.

Non insistono.

La porta si chiude piano qualche minuto dopo, lasciando entrare un filo di luce.

Mi addormento di nuovo. Profondamente.

Quando mi risveglio non ho idea di quanto tempo sia passato… ma i profumi… quelli sì che parlano chiaro.

Veronika e Skippy sono rientrate in punta di piedi ma si portano addosso l’odore della strada: spezie calde, pane appena sfornato, gelsomino… e soprattutto, caffè.

«Ti ho portato un caffè» dice Veronika, porgendomi un bicchiere di vetro spesso, senza manico. «Non è espresso… ma si difende.»

È scuro, lungo, profumatissimo.
Il caffè tunisino è diverso dal nostro: più simile a quello turco, viene servito nei makhraj, piccoli bicchieri cilindrici, spesso aromatizzato con cardamomo o acqua di fiori d’arancio.
Questo è allungato, dolce al punto giusto ma con quel fondo denso che lo tiene ancorato alla tradizione.
Una specie di caffè americano… in abiti arabi.

La guardo. Le prendo la mano e le do un bacio leggero sul dorso.
«Ti adoro» sussurro.

Poi mi siedo sul letto, appoggiando la schiena al muro e prendo il telefono dal comodino.
Lo sblocco e, a bassa voce, dico: «Ah… Carlo ha risposto.»

Veronika si volta verso di me, sorpresa.
Si siede ai piedi del letto, in silenzio.

Bevo un altro sorso di caffè. Devo ancora abituarmi a questo sapore denso, speziato, ma in fondo mi piace.
Poi le riassumo:
«Dice che in quella zona, non proprio a Kairouan ma nemmeno troppo lontano, vive un suo ex collega dell’associazione. Si chiama Ali. È anche lui un pilota in pensione e ha una piccola pista sterrata accanto a casa, da cui decolla con il suo XCub

Veronika ascolta senza interrompermi.
«Carlo mi assicura che possiamo atterrare lì con il Cessna, la pista è un pò corta ma non dovremmo avere problemi. Ali è abituato a ospitare amici che arrivano in volo e nessuno farà domande. Lo sta già avvisando del nostro arrivo. Mi ha mandato le coordinate e qualche dettaglio utile.»

Lei sorride.
«Perfetto. Vuol dire che si va?»

Annuisco ma dentro una parte di me continua a cercare un motivo per farle cambiare idea.
Non lo trovo.

Fuori la medina si è ormai svegliata del tutto. Il vocio sale come un’onda leggera, portando con sé il primo sole del giorno.

Ci sono risvegli che sanno già di scelta. Anche quando una parte di te cerca ancora una via per tirarsi indietro.

Muezzin (foto Dall-E)

Briciole e leggende

Ho da poco finito il caffè quando sento il mio stomaco brontolare. Forte.
Abbasso lo sguardo e, solo in quel momento, noto le briciole sulla faccia di Skippy, stesa sul letto accanto a me, intenta a giocherellare con una piccola mano di Fatima in metallo che chissà dove ha preso.
Le briciole sono ovunque tra il naso e le guance, come se avesse infilato la testa in un sacchetto di pane.

«Ma avete fatto colazione?» chiedo, indicando il vuoto che ho davanti. «Niente da mangiare per me?»

Veronika scoppia a ridere.
«In realtà lo avevo preso… ma Skippy ha pensato che fosse per lei. Ha lasciato solo il caffè, giusto per cortesia.»

«Maledetta mangiona!» borbotto.
Allungo le braccia, la afferro e la tiro verso di me. Lei si divincola fingendo una fuga ma è già troppo tardi: le faccio il solletico sotto la pancia, come si fa con i bambini.
Skippy ride e si dimena con le zampette in aria.

«Dai, è la scusa perfetta per farti alzare e muoverci» dice Veronika, alzandosi con energia.
«Ti vesti?»

Annuisco riluttante, infilando la maglietta mentre lei, appoggiata al davanzale, sfoglia la guida.
«Sai che il nome “Tunisi” potrebbe derivare dal verbo berbero ens, che vuol dire “addormentarsi”? Ironico, vero? Visto che non hai dormito quasi per niente.»

«Molto spiritosa.»

«Oppure da Tynes, una dea fenicia. Qui tutto ha radici profonde. Anche Cartagine era la capitale di un vero e proprio impero. Hanno combattuto Roma per secoli.»

«E hanno perso.»

«Sì. Ma prima l’hanno fatta tremare.»

Prendo lo zaino, controllo che ci sia tutto e, con un cenno, le faccio strada.

Uscendo dalla porta veniamo subito inghiottiti dai vicoli della medina. Luce obliqua, odori pungenti, voci che si rincorrono tra le pietre antiche. Tunisi ci accoglie come una città che non ha mai davvero dormito.

Ogni risveglio è una scelta: restare dove sei o iniziare, passo dopo passo, a farti strada nel mondo.

Skippy prima del solletico (foto Dall-E)

Decollo da Tunisi

In attesa dell’autorizzazione della torre, con le cuffie già in testa e le dita leggere sulla cloche, sento ancora in bocca il sapore della colazione fatta poco prima di arrivare in aeroporto.
Un paio di makroud presi al volo tra i vicoli della medina: morbidi, profumati di datteri e miele, con quel retrogusto di semola che sa di casa anche se è lontanissima dalla mia.

La voce della torre arriva mentre sto ancora pensando alla differenza tra il caffè lungo e rotondo che bevo ogni mattina e quello tunisino, denso, speziato, che lascia una scia persistente sul palato.
Più un rituale che una bevanda.

«SWA172 pronto al decollo.»
Entriamo in pista e do subito manetta.

Il Cessna risponde con un ruggito sommesso e in pochi secondi lasciamo la pista dietro di noi.
Tunisi si stende sotto di noi, ampia, bianca, brulicante. I tetti piatti, le cupole, i cortili nascosti.
Scivoliamo verso nord-est in direzione della costa, quando improvvise folate di vento forte mi colgono di sorpresa facendomi pensare che potrebbe essere un volo più movimentato del solito.

«Eccole» dice Veronika, indicando le rovine all’orizzonte.
Cartagine. Fondata dai Fenici nel IX secolo avanti Cristo. È una delle città più leggendarie del Mediterraneo.»

Poi apre la guida sulle ginocchia.
«Sai cosa colpiva di più i Romani? Le terrazze affacciate sul mare. Le chiamavano “le ville delle lacrime”. Perché quando Cartagine fu distrutta, molti dei suoi conquistatori… ci tornarono come turisti.»

«Piuttosto morbosi, come turisti.»

«Be’, qui è nata anche Didone. La regina che, secondo Virgilio, si è innamorata di Enea… e poi si è uccisa per lui.»

«Romanticismo antico.»

«O propaganda latina. I Fenici erano commercianti geniali. Hanno lasciato tracce ovunque: in Spagna, in Sardegna, a Malta… e soprattutto qui.»

La guardo.
«Ti piace questa parte del viaggio, vero?»

«Moltissimo. È come sorvolare una pagina di storia… che non ci hanno mai fatto leggere davvero.»

Le rovine si fanno sempre più nitide sotto di noi.
Le colonne, il promontorio, il mare che riflette il sole come uno specchio antico.

Volare sopra le rovine di Cartagine è come sfogliare una pagina strappata di storia, che ancora oggi chiede di essere riletta.

Ricostruzione di Cartagine (foto Dall-E)

Verso Sousse

«Cartagine è stata rasa al suolo dai Romani, che poi l’hanno ricostruita. Per secoli è rimasta una delle città più importanti dell’Africa romana. Quando passavano di qui le navi, la vedevano brillare sul promontorio… come un faro silenzioso» continua Veronika, mentre io completo la virata verso sud lungo la costa.

Alla nostra sinistra il Mediterraneo luccica. A destra, il paesaggio si apre su strade sottili, palmeti, campi brulli. La Tunisia moderna scorre a tratti: capannoni industriali, piccole città dai tetti piatti, villaggi che sembrano appoggiati sulla sabbia. Una linea sottile tra antico e presente.

«E Tunisi oggi…» riprende lei «è un mix strano. C’è la parte europea con i boulevard, le caffetterie, le vetrine… e poi la medina. Dove si entra e si esce come da un altro tempo. In un solo pomeriggio puoi attraversare tre secoli diversi.»

Annuisco ma non rispondo. Proprio mentre raggiungiamo il litorale del Golfo di Hammamet, una nuova raffica improvvisa ci investe di lato. Il Cessna si sbilancia bruscamente e per un attimo perdo l’assetto. Stringo i comandi, correggo, respiro. Torniamo stabili. Faccio una leggera virata e mi accorgo che il vento ora ci spinge alle spalle. Un alleato inatteso.

«A cosa stai pensando?» chiede Veronika, poggiando la guida sulle ginocchia.

«A quell’uomo… quel custode. A quello che ci aspetta.»

Lei non risponde subito. Skippy sbuca con la testa tra i sedili, incuriosita, come se avesse capito che non stiamo parlando di monumenti.

«Il figlio di Adnen ha detto che è anziano. Che non parla con nessuno da anni. Che si è isolato per scelta… o forse perché gliel’hanno chiesto.»

«È stato un custode dell’Ordine, no?» chiede lei piano.

«Sì. E speriamo che sia ancora tra quelli che vogliono far emergere la verità.»

Veronika mi osserva. «Tu che pensi?»

«Penso che siamo finiti in mezzo a qualcosa che va ben oltre la curiosità storica.»

Sorvoliamo la medina di Sousse: le mura squadrate, la casba, i minareti bassi, il mercato coperto. Il mare lambisce la città, come se volesse trascinarla via e, invece, lei resta lì ancorata al tempo.

Veronika sfoglia un paio di pagine della guida. «Lo sai che Sousse ha una delle medine meglio conservate del Maghreb? È più piccola di quella di Tunisi ma incredibilmente compatta. Qui dentro hanno girato anche delle scene di Indiana Jones. E poi c’è il ribat… un’antica fortezza-monastero dove vivevano i guerrieri religiosi. Dormivano sulle terrazze per avvistare le navi nemiche.»

«Ma quindi» chiedo, stranito «medina non vuol dire solo una cosa di Tunisi?»

Lei sorride. «No. Medina vuol dire “città vecchia”. Ogni città araba ne ha una. È il cuore. Il labirinto. Il luogo che resiste.»

Guardo giù. Sousse si allontana. La costa continua. E qualcosa, dentro di me, stringe appena.

Non tutte le città antiche sono fatte di rovine: alcune respirano ancora, anche sotto il peso del tempo e dei segreti.

Sousse con la sua medina e il porto visti dal Cessna (foto Dall-E)

El Djem e il respiro sospeso

Continuo verso sud, rientrando leggermente nell’entroterra. Veronika mi guarda e poi indica un punto sulla guida. «Ma non dovevamo andare a Kairouan? Secondo questa mappa dovrebbe essere più a ovest.»

«Sì» le rispondo, accennando un sorriso «ma prima vorrei sorvolare l’anfiteatro romano più famoso del Nord Africa. È una deviazione, ok… ma fidati, ne vale la pena.»

«Lo stai facendo per Skippy, vero?» sorride lei.

«Anche per lei. Ma soprattutto per me. Ti sto assecondando in questa tua ricerca ed è giusto. Ma nonostante tutto, io voglio ancora scoprire il mondo dall’alto. Questa avventura non mi cambierà fino a quel punto.»

Skippy batte le zampette contro la plancia in segno di approvazione.

Qualche minuto dopo, la distesa urbana di El Djem appare all’orizzonte. Un groviglio di strade, case, tetti piatti… e proprio al centro, come un gigante intrappolato tra le epoche, l’anfiteatro romano.

«Eccolo» sussurra Veronika. «È l’anfiteatro di El Djem. Terzo per grandezza nel mondo romano, dopo il Colosseo e quello di Capua. Ma il meglio conservato di tutti. Trentacinquemila spettatori, nel cuore della città.»

«È surreale. Sembra il Colosseo… ma circondato da una periferia africana.»

«E pensa che ancora oggi lo usano per concerti. A volte di musica classica, altre per i festival locali. La pietra restituisce il suono in modo perfetto.»

Giriamo in cerchio sopra questa magnifica creazione dell’uomo. Le arcate si rincorrono, uniformi. I livelli sono quasi intatti. Dal cielo sembra un monumento dimenticato in mezzo alla vita quotidiana.

Skippy resta immobile, incantata. Poi si volta verso di me e fa un suono basso, prolungato, come a dire “questo sì che vale il viaggio”.

Sorrido. Ne valeva davvero la pena.

Riprendiamo la rotta verso Kairouan, lasciandoci alle spalle l’anfiteatro. Quando ormai stiamo risalendo verso nord-ovest, succede.

Un rumore netto mi gela. Un colpo secco sotto ai piedi. Un singhiozzo metallico. Il motore comincia a tossire. Il Cessna vibra. La potenza scende di colpo. Un allarme si accende per un secondo, poi scompare.

«Cos’è stato?» Veronika è già tesa. Skippy ha gli occhi spalancati.

«Pressione carburante… momentaneamente in calo» dico tra i denti, mentre controllo in rapida sequenza tutti gli strumenti. «Nessuna perdita. Nessuna temperatura fuori norma.»

Agisco come mi hanno insegnato, effettuando tutte le procedure di emergenza e alla fine il motore ruggisce, tossisce ancora… e finalmente si riprende.

Per qualche secondo restiamo sospesi in una bolla. Il silenzio nelle cuffie pesa più del suono.

Poi, lentamente, tutto torna alla normalità. Il rombo si stabilizza. L’altimetro è stabile. La pressione regolare.

«Tutto ok?» chiede Veronika, cercando i miei occhi.

«Sì… credo di sì. Forse un residuo nel carburatore. O una bolla d’aria. Niente di grave.»

Ma non ci credo nemmeno io.

Ora che torniamo verso nord-ovest, il vento ci viene incontro. Ma il Cessna, fedele e ostinato, avanza con determinazione.

Un singhiozzo nel motore, un battito sospeso nel petto ma il volo continua. Testardo, come noi.

l’anfiteatro di El Djem (fotot Dall-E)

Avvicinamento a Kairouan

Il cielo è limpido. Il motore sembra stabile ma io non riesco a rilassarmi. Controllo gli strumenti ogni trenta secondi. Vibrazioni, giri motore, pressione dell’olio. Tutto sembra in regola… ma non mi fido.

Skippy, con la testa tra i sedili, osserva gli indicatori con la mia stessa attenzione. Veronika sfoglia la guida, ma lo fa con quel gesto rigido che tradisce la tensione. Tiene il segnalibro troppo stretto.

Alla nostra destra, una vasta superficie biancastra si estende fino all’orizzonte. «Quella è la Sebkha Sidi El Hani» dice, cercando di rompere il silenzio fitto che avvolge la cabina. «Un lago salato. In estate si asciuga quasi del tutto ma, d’inverno, può trasformarsi in un pantano. In passato lo consideravano un luogo magico. O maledetto.»

Non rispondo. Guardo fuori ma senza vederlo davvero. Poi noto qualcosa.

Il livello del carburante ha iniziato a scendere più velocemente del previsto. Un valore che non dovrebbe essere così. Spengo l’allarme sul Garmin con un tocco secco e resto in ascolto. Il motore gira regolare ma se la discesa continua così… potremmo restare a secco prima di vedere la pista. Manca poco. Ma quel “poco” ora pesa.

Sotto di noi compare Kairouan o Qayrawān, come la chiamano qui. Una città di tetti piatti, minareti squadrati, strade dritte che si incrociano come trame in un tessuto.

«È la quarta città santa dell’Islam» riprende Veronika. «La Grande Moschea è una delle più antiche del mondo musulmano. Un tempo qui passavano carovane, pellegrini e studiosi. Oggi sembra più quieta… ma il cuore spirituale pulsa ancora.»

Vorrei ascoltarla ma la mia attenzione è altrove. Una vibrazione secca, sotto i piedi, mi riporta al presente.

«Spero di trovare velocemente quella pista» mormoro, stringendo la cloche con più forza del necessario. «E spero anche che Ali abbia attrezzi, qualcosa per controllare il Cessna come si deve. Prima di ripartire voglio essere sicuro.»

Veronika si gira verso di me. «Se, come dice Carlo, ha un aereo anche lui… vedrai che ha tutto quello che ci servirà.»

Non riesco a scrollarmi di dosso questa sensazione. Lì sotto ci aspetta qualcuno. E qui sopra… qualcosa potrebbe ancora rompersi.

Lì sotto ci aspetta qualcuno. E qui sopra… qualcosa potrebbe ancora rompersi.

la grande moschea di Qayrawān (fotoDall-E)

Atterraggio brusco

Siamo sopra la zona indicata da Carlo. Ho inserito nel Garmin le coordinate che mi ha inviato ma da quassù tutto sembra identico: lingue di terra, campi chiari, tratti sterrati, piccole costruzioni isolate.

Giro in tondo, cercando un riferimento preciso. Qualcosa che dica: qui è sicuro. Ma non posso sbagliare. Non posso atterrare nel campo sbagliato o, peggio, nella proprietà di qualcuno che non ci aspetta.

La mano mi trema leggermente sulla cloche. Veronika prova a dire qualcosa, forse per calmarmi ma la zittisco con tono troppo brusco. «Scusa» aggiungo subito dopo, abbassando lo sguardo per un istante. Lei annuisce. Capisce. Non è il momento per le parole.

Skippy, silenziosa, si allaccia le cinture e fissa il parabrezza, lo sguardo teso e vigile come il mio.

Poi, finalmente, lo vedo. Una sagoma familiare: le ali larghe, l’assetto alto da bush flying. Uno XCub, parcheggiato sul bordo di una striscia chiara di terra battuta.

«Eccolo.» Punto il muso in direzione della pista e verifico il vento. Soffiando da nord-est. Mi allineo per l’atterraggio controvento, come previsto.

Il terreno è più sconnesso di quanto immaginassi. L’atterraggio è pieno di sobbalzi secchi e ravvicinati. Anche la pista è più corta del previsto e, per un istante, ho la sensazione che potremmo arrivare lunghi.

Tiro indietro la manetta, freno con decisione. Il Cessna ruggisce, vibra, si siede sulle ruote.

Ci fermiamo. Un sospiro. Un battito lento. Solo ora il mio cuore riprende un ritmo normale. Solo ora noto due figure che si avvicinano dalla casa poco distante: un uomo con passo deciso e una donna dai capelli raccolti sotto un foulard chiaro.

Ali e, probabilmente, sua moglie stanno venendo verso di noi. E non sembrano affatto sorpresi.

In certi momenti, l’unico suono che conta è il battito che torna lento nel petto.

15 – Diario di Viaggio Tunisi

Tunisi

Usciti dall’aeroporto, Tunisi ci viene incontro come un’onda calda di suoni, polvere e contrasti. Dall’alto sembrava una distesa bianca e compatta, adesso invece ci avvolge in un disordine perfetto, fatto di clacson, venditori ambulanti, insegne consumate dal sole e vecchie Peugeot 205 che si incastrano nei vicoli come in un gigantesco puzzle che solo chi ci vive sa risolvere. L’aria ha l’odore del motore esausto, del pane cotto al bordo della strada e di qualcosa che non sappiamo riconoscere.

Il nostro tassista si chiama Nizar. Ha una barba curata, un braccialetto d’ambra al polso e un sorriso disarmante, di quelli che ti fanno pensare che puoi fidarti, anche se non sai bene perché. Conduce il taxi come se fosse un’estensione del suo corpo, evitando buche e carretti con la precisione di un ballerino. Parla un italiano strano ma pieno di vita, imparato in anni di contatti con i turisti. Ci ascolta, ci scruta dallo specchietto, risponde ad alcune nostre domande, poi scuote la testa e sorride.

«La medina non si spiega, si vive. È vecchia quanto il tempo… e a volte ti confonde apposta, per vedere chi sei.»

Sorride ancora, dalla radio una melodia malinconica, ci guarda un attimo e poi indica con la mano le strade attorno a noi.

«Qui tutto parla. Ma non con la bocca. Con gli odori, i colori… e le ombre.»

La città si infittisce. L’asfalto si sbriciola. Un venditore di fichi d’India urla in dialetto. Due ragazzini si rincorrono tra le file di bancarelle. Poi all’improvviso tutto rallenta. Il taxi si ferma davanti a una grande porta in pietra, con un arco a ferro di cavallo e due torrette smussate dal tempo.

«Bab el Bhar» dice Nizar, accennando un inchino con la testa. «La porta del mare. Da qui… si entra in un altro mondo.»

Scendiamo e lo ringraziamo per tutte le preziose informazioni che ci ha fornito. Il caldo sa di spezie, gas di scarico e pietra arroventata. Davanti a noi la medina si apre come un labirinto vivo.

La medina ci ha inghiottiti in un caos che sa di storia, odori e passi dimenticati

il nostro tassista tunisino (foto Dall-E)

Il respiro della medina

Superata Bab el Bhar la medina ci inghiotte come un respiro profondo. Le strade si stringono, i rumori si moltiplicano, l’aria cambia odore ogni due passi. Incenso, menta, cuoio, fritto. L’asfalto lascia il posto alle pietre lisce e irregolari, levigate da secoli di passi e storie. Camminiamo con Skippy stretta tra noi due per paura di perderla di vista, mentre cerchiamo di seguire il percorso tracciato sulla mappa, che dopo pochi minuti inizia già a sembrare inutile. Anche Google Maps, qui dentro, sembra essersi arreso.

Veronika guarda a sinistra, io a destra, entrambi alla ricerca dell’insegna che ci ha descritto Nizar: un’insegna scolorita, con lettere arabe e francesi, sopra una porta di legno azzurro. Ma ogni bottega qui ha un suo colore, una sua voce, una sua confusione. Lungo le pareti si rincorrono tappeti stesi, stoffe appese come bandiere e lanterne dai vetri colorati che riflettono frammenti di sole sulle pietre.

Un ragazzo passa correndo con un vassoio di tè alla menta in equilibrio su tre dita. Una donna anziana ci sorpassa con passo deciso, avvolta in un velo candido e con una busta piena di pane ancora caldo. Più avanti un artigiano batte il metallo con un ritmo ipnotico, mentre poco più in là un vecchio gira uno spiedo lentissimo con delle polpette fumanti. La medina vive, pulsa, respira. E noi ci lasciamo trascinare.

All’improvviso, un profumo irresistibile ci costringe a rallentare. Poco più avanti, sotto un tendone rattoppato, un uomo infarina velocemente delle ciambelle rotonde e le tuffa in un grande padellone sfrigolante. L’olio danza. Le ciambelle, dorate e gonfie, vengono scolate con maestria e ricoperte da una spolverata di zucchero e un tocco di miele. L’odore mi rapisce.

«Che dite, merenda?» chiedo guardando Veronika. Lei sorride. Skippy annuisce con foga, allungando il naso verso l’odore dolce e croccante. «Trois s’il vous plaît» dico al venditore con il mio pessimo francese, indicando con un cenno le ciambelle fumanti. Lui ci sorride sotto i baffi e ci passa un piattino di metallo con le tre ciambelle appena fatte.

«Bambalouni» dice intuendo che siamo italiani. «Tipico qui. Farina, acqua, sugar… Buono. Molto buono dolce Tunisia!» La lingua si arrampica tra le parole ma l’orgoglio è chiarissimo.

Ci scambiamo uno sguardo. Il primo morso è un’esplosione: croccante fuori, morbido e profumato dentro. Miele, zucchero, forse un accenno di limone. Camminiamo lentamente, assaporando ogni boccone, mentre le voci della medina ci guidano sempre più a fondo.

A volte, un morso dolce è l’unico modo per non perdersi

bancarella dei Bambalouni (foto Dall-E)

La bottega

La medina ci mette alla prova. Tra nomi di strade che cambiano ogni trenta metri, indicazioni confuse e vicoli che sembrano girare in tondo, passiamo più di un’ora e mezzo a cercare quell’insegna azzurra, descritta con tanta convinzione da Nizar. Chiediamo a due venditori, poi a un ragazzo che trasporta una cesta piena di datteri, ma nessuno sembra sapere di cosa stiamo parlando. O non ci capiscono. O non vogliono capire.

Quando stiamo per rinunciare è Veronika a notarlo. Un’insegna consumata dal sole, scritta in arabo e in francese, sopra una porta di legno semiaperta. Accanto, una teiera appesa e una pila di vecchi tappeti arrotolati.

Entriamo. L’interno è buio e polveroso ma accogliente in un modo difficile da spiegare. Ci sono vecchie lampade, piatti in ceramica, cornici antiche, specchi opachi, libri dalle copertine scolorite e un bastone da passeggio con l’impugnatura in avorio. Una donna anziana è seduta dietro un bancone di legno basso, forse una vecchia cassa. Sta sgranando dei semi e canticchia una melodia sottovoce. L’odore è forte, tostato, qualcosa tra il cumino e il coriandolo bruciato.

Ci guardiamo intorno, poi mi avvicino. «Salam aleikum… stiamo cercando…» esito un attimo «…Adnen. Sa dove possiamo trovarlo?» Lei solleva lo sguardo, un po’ confusa e non risponde. Si porta una mano all’orecchio, come a dire che non sente bene. Ripeto il nome, aggiungendo qualche dettaglio. Veronika prova con qualche parola in francese. Skippy si arrampica sul bordo del bancone e la osserva con occhi curiosi.

Alla fine la donna annuisce lentamente. Fa un gesto con la mano come a dire che è passato del tempo. Poi, con un misto di parole e gesti, ci fa capire che l’uomo è morto. Non ne siamo molto sorpresi, era quello che immaginavamo. «Allah yrahmou,» mormora, portandosi la mano al petto.

Ma è in quel momento, mentre il nome “Adnen” sembra fluttuare ancora nell’aria della bottega, che una figura si muove oltre le tende. Dai tappeti appesi emerge un uomo. Forse poco più giovane di me. Camicia sbottonata sul collo, sguardo stanco, capelli neri e corti. Ci osserva in silenzio.

Ma non con sospetto. Con qualcosa di più tagliente. Come se stesse valutando se siamo un pericolo… o solo una perdita di tempo.

A volte bisogna perdersi davvero per trovare ciò che non sapevi di cercare

il negozio che stavamo cercando (foto Dall-E)

Incontro

Ci avviciniamo con calma. «Lei conosce Adnen?» chiede Veronika. L’uomo rimane immobile, le braccia lungo i fianchi, lo sguardo sempre fisso su di noi, come se cercasse il motivo per cui dovremmo andarcene.

«Ci manda il professor Lissia, dalla Sardegna» dico, tenendo la voce bassa ma ferma. «Pensavamo di trovare Adnen. Siamo… siamo spiacenti per la sua scomparsa.»

Lui non reagisce. Né un cenno, né un grazie. Come se quelle parole si fossero fermate a mezz’aria, troppo leggere per smuoverlo. A quel punto Veronika prende il filo del discorso e prova a spiegare meglio. Parla in francese, con calma, cercando di mostrarsi gentile ma anche determinata. Lui abbassa lo sguardo un attimo, poi torna a fissarla.

Ci dice qualcosa in arabo, in un tono che è più secco che neutro. E poi aggiunge una frase che suona come un “andate via”.

Veronika insiste. Gli mostra un taccuino con alcuni appunti scritti a mano, le parole “Ordine”, “memoria”, “simbolo”. Niente. Lo sguardo del ragazzo si fa più duro.

Ripete quella frase in arabo, ancora e ancora, facendo un gesto chiaro con la mano verso l’uscita. Nessuna esitazione.

Veronika prova ancora. «Ti prego, è importante. Non siamo qui per fare danni, vogliamo solo capire…»

Ma non riesce nemmeno a finire la frase. Il ragazzo alza una mano, deciso. Un altro gesto. Più brusco. Non vuole ascoltare.

È in quel momento che Skippy si muove. Si slaccia lo zaino con un gesto sicuro e, senza dire nulla, ne tira fuori l’anello. Quello del professor Lissia. Lo tiene alto, dritto davanti a lui, come un piccolo trofeo silenzioso.

Il ragazzo si blocca. Abbassa lentamente lo sguardo verso la zampa tesa di Skippy. Fa un passo avanti. Poi un altro. Si china leggermente, socchiude gli occhi. Riconosce l’anello. Lo guarda come si guarda un oggetto che non ci si aspettava più di rivedere. Si osserva la mano dove porta un anello identico.

Si raddrizza e, per la prima volta da quando è uscito dai tappeti, il suo sguardo cambia. Non è più freddo. È teso. Allarmato. Ma non ostile.

Porta un dito alle labbra, come a chiederci silenzio. Poi si gira e scosta i tappeti appesi. Ci fa cenno di entrare nel retrobottega.

Senza dire una parola, lo seguiamo.

A volte non servono parole. Basta un gesto giusto nel momento giusto per aprire una porta chiusa

l’anziana signora (foto Dall-E)

Il peso delle storie

Il retrobottega è piccolo e in penombra ma ordinato. Un tappeto steso a terra, scaffali colmi di oggetti avvolti nella stoffa, una teiera in metallo brunito poggiata su un fornellino a gas. Il ragazzo chiude il passaggio dietro di noi, controlla che nessuno ci abbia seguiti, poi si volta.

«Scusate… per prima» dice, con un italiano fluido che non ci aspettavamo. «Non mi aspettavo che qualcuno si presentasse… così. Con quell’anello.»

Ci guarda entrambi. Poi si rivolge a Skippy, accennando un mezzo sorriso. «Il professor Lissia… era un uomo generoso. L’ho conosciuto grazie a mio padre. Collaboravano. Condividevano storie. O meglio… pezzi di storie che nessuno aveva mai osato mettere insieme.»

Si muove verso la teiera, accende il fuoco, aggiunge foglie di menta fresche e zucchero con gesti rapidi e precisi. Il profumo del tè alla menta riempie lentamente la stanza. Ce lo porge in piccoli bicchieri decorati. Accettiamo senza dire nulla.

«Allora…» sospira, sedendosi su uno sgabello di legno. «Cosa volete sapere esattamente?»

Gli spieghiamo tutto. La Sardegna. I simboli. Il frammento. Le parole incise. Lui ascolta, teso, senza interrompere. Quando finiamo, resta un attimo in silenzio. Poi si irrigidisce. Le dita tamburellano sul vetro del bicchiere.

«Non dovreste essere qui» dice alla fine, con lo sguardo basso. «Ci sono persone che non vogliono che queste storie vengano a galla.»

Sembra sul punto di chiudersi di nuovo. Poi butta fuori l’aria come se stesse scrollandosi di dosso qualcosa di pesante. Si passa una mano sulla nuca e parla.

«Mio padre era ossessionato da questa storia. Parlava spesso di un gruppo… di uomini arrivati dalla Sardegna molto tempo fa. Diceva che custodivano un segreto, qualcosa di troppo importante per essere raccontato a chiunque. Ma qualcosa è andato storto.»

Beve un sorso di tè. Poi continua.

«All’inizio erano voci. Poi iniziarono le pressioni. Visite. Persone che venivano a cercarlo senza presentarsi. Poi sparizioni. Libri scomparsi dalla biblioteca. Contatti che smettevano di rispondere. I suoi colleghi cominciarono ad avere paura. Anche il professor Lissia fu minacciato. Lui però non si è mai fermato. Ha fatto credere di aver smesso di cercare questa verità ma la notte, a casa, studiava reperti, lettere, testi antichi cercando di capire.»

Ci guarda. Stavolta con occhi diversi. Come se cercasse di capire se siamo pronti a sentire il resto.

A volte i segreti più antichi sopravvivono solo grazie a chi ha il coraggio di continuare a cercarli

il retrobottega (foto Dall-E)

Il Cerchio

«Mio padre… non parlava mai a voce alta dell’Ordine. Lo chiamava il cerchio. Diceva che non era fatto di simboli o gerarchie. Era fatto di silenzi. Di legami invisibili. Di doveri tramandati da generazioni senza bisogno di firme.»

Si alza, prende da uno scaffale una scatola di metallo, la posa sul tappeto tra noi. Ma non la apre.

«Aveva capito che questo Ordine non era nato qui ma era venuto dalla Sardegna. Da molto lontano, molto indietro. Gente che si era spinta fino a Cartagine, in fuga da qualcosa, poi ancora più a sud, nascondendo il loro segreto o forse cercando di proteggerlo. Nessuno sa cosa fosse esattamente.»

Abbassa la voce. «Mio padre credeva che avessero portato con loro un sapere antico, capace di mettere in discussione tutto. Religioni. Storia. Origini. Era convinto che la chiave fosse in un codice, forse in una lingua dimenticata. Ma ogni volta che si avvicinava a qualcosa di concreto… qualcosa o qualcuno lo respingeva.»

Fa una pausa. Ci guarda. Poi, con voce più bassa: «Lui e il professor Lissia erano convinti che l’Ordine esiste ancora. Che alcuni di loro si nascondono qui in Tunisia tra gli artigiani, gli anziani, nei villaggi dove la memoria orale passa solo di bocca in bocca. Persone senza nome che si riconoscono con gesti e strani simboli.»

Si alza di nuovo. Questa volta apre lentamente la scatola. Dentro, fogli piegati, un rosario in legno, due fotografie sbiadite e una stoffa ingiallita con un simbolo tracciato a mano.

«L’ultima cosa che mi disse prima di morire fu: “Se qualcuno un giorno verrà con l’anello… portalo da lui.”»

«Chi?» chiede Veronika, inclinando appena la testa.

«Un uomo, un ex falegname ormai molto anziano. Vive lontano, quasi al confine con il nulla ma lui… lui faceva parte dell’Ordine.»

Ci sono segreti che non si scrivono mai ma che si tramandano con uno sguardo, una stoffa, un nome sussurrato nel tempo

la piccola scatola (foto Dall-E)

Il Segno

Il ragazzo richiude lentamente la scatola, come se quel gesto servisse a rimettere ordine anche nei pensieri. Poi prende un foglio di carta ingiallito da una pila accanto a sé, si siede e inizia a scrivere con una calligrafia nervosa ma precisa. Nessuna spiegazione. Solo qualche parola in arabo, un nome e una località.

Quando finisce, soffia leggermente sulla carta e ce la porge senza dire nulla. Sul foglio: un nome proprio e una direzione. Kairouan. Un villaggio poco fuori città, isolato. Nessun indirizzo esatto. Solo un riferimento a una bottega di falegnameria un simbolo strano e la frase: «chiedete di lui».

«Mio padre diceva che era l’ultimo di loro ancora disposto a parlare» sussurra. «Non fatelo per curiosità. Fatelo solo se siete pronti a non tornare più indietro.»

Lo guardiamo in silenzio. Veronika annuisce. Io infilo il foglio nel taccuino e chiudo la cerniera. Skippy lo osserva ancora, come se volesse dire qualcosa, ma stavolta resta ferma, seria. C’è qualcosa in quel ragazzo che non dimenticheremo tanto presto.

Poi, prima di uscire, lui si china di nuovo verso la scatola. Fruga per qualche secondo, finché le dita non trovano ciò che cerca. Quando si rialza, ha in mano un oggetto piccolo e scuro. Lo tiene tra pollice e indice, come si fa con le cose fragili. È una fibula in rame, antica, ossidata. La forma è strana: un cerchio spezzato, con una punta ricurva.

Si piega verso Skippy e le porge la fibula senza dire nulla. Lei la prende con entrambe le zampette, con quella solennità naturale che solo lei sa avere.

«Mio padre diceva che questo simbolo serviva per riconoscersi. Se l’anziano falegname è ancora quello di un tempo… vi accoglierà. Ma non fate mai il nome di mio padre. Neanche per sbaglio. Non voglio altri problemi. Noi non ci siamo mai visti e… mai ci rivedremo.»

Skippy lo fissa per un lungo istante, poi infila la fibula nello zaino e lo richiude con un piccolo clic.

Quando usciamo dal retrobottega, la luce del pomeriggio ci acceca per un attimo. La medina è ancora lì, viva, piena di voci, colori e profumi. Ma ora ci sembra diversa. Come se qualcosa, nel frattempo, fosse cambiato.

Ogni viaggio cambia qualcosa fuori, ma certi incontri cambiano ciò che portiamo dentro

la piccola Fibula (spilla) in rame (foto Dall-E)

Sconosciuto

Camminiamo in silenzio. Abbiamo il foglio. Un nome. Una meta. E uno scopo.

Veronika e Skippy camminano leggere. Per un attimo sembrano entrambe parte di un gioco affascinante, complicato ma comunque un gioco.

Io, invece, sento i primi brividi. Come una corrente fredda che mi passa tra le scapole. Non so spiegare perché ma il mio sesto senso mi richiama all’attenzione.

Le voci attorno a noi si confondono in un rumore continuo, ritmato, quasi ipnotico. Il cuore della medina batte ancora forte. Veronika si ferma davanti a una bancarella di ceramiche dipinte a mano, attratta dai colori brillanti e dalle forme imperfette. Skippy, come ipnotizzata, infila il musetto in un cesto di stoffe ricamate, sfiorandole come se cercasse qualcosa.

Io sono leggermente più indietro, le osservo invidiando la loro spensieratezza. Ci sono molte persone in questi vicoli stretti, turisti, gente del posto, mercanti ed è in quell’istante che sento una mano afferrarmi il braccio.

Non forte. Ma precisa. Come se sapesse esattamente dove mettere le dita per farmi restare immobile.

Mi volto di scatto. Davanti a me c’è un uomo. Tunisino. Età indefinita. Un tagelmust chiaro gli avvolge il volto lasciando scoperti solo gli occhi, due fenditure scure incise dal sole e dal tempo. Indossa una tunica che odora di polvere e strada. Ma è lo sguardo che mi blocca. Non ha fretta. Non ha rabbia. Solo una calma spaventosa. Come se sapesse già tutto.

Si avvicina al mio orecchio. E in un italiano spezzato, lento, quasi sussurrato dice: «È meglio… se lasciate stare.»

Poi mi lascia. Si gira e sparisce nella folla come se non fosse mai esistito. Un passo dopo l’altro. Né veloce né lento. Come il vento che cambia direzione senza motivo.

Resto fermo. Immobile. Il respiro corto. Provo a cercarlo con lo sguardo ma tutto si è già confuso. Stoffe appese, bancarelle, odore di spezie e zucchero bruciato. Niente. Come se la medina lo avesse risucchiato.

Skippy mi guarda, inclinando la testa. Ha capito che è successo qualcosa.

In quel momento Veronika si avvicina con una piccola tazza di ceramica in mano, sorridendo. «Guarda che bella, sembra fatta a ma…» Poi si blocca, notando il mio sguardo.

«Tutto bene?»

Annuisco. «Sì… sì. Tutto a posto.»

Anche se non lo è. E non lo sarà per un bel po’.

Ci sono momenti che passano in silenzio, ma restano addosso come una polvere che non se ne va

l’uomo al mercato (foto Dall-E)

Linea Rossa

Il ristorante di cui ci ha parlato Nizar non ha insegne. Solo un vecchio portone in legno intagliato, con i battenti decorati da borchie nere e un piccolo simbolo inciso a mano, qualcosa che sembra più un segno antico che un nome. Nizar ci aveva detto: “Lì mangerete uno dei couscous più veri di tutta Tunisi”. Ma non ci aspettavamo di trovarlo nascosto in un vicolo così stretto da far passare appena due persone.

Appena entriamo, la luce si abbassa e l’aria cambia. Dentro è fresco, silenzioso, con muri bianchi e archi in pietra che sembrano sorreggere il tempo. Le pareti sono coperte da piastrelle blu e turchesi, i tavoli bassi vestiti di lino grezzo. In un angolo, una donna taglia erbe aromatiche, mentre un ragazzo dispone datteri su un vassoio d’argento con movimenti attenti, quasi rituali.

Ci sediamo vicino a una finestra con grate in ferro battuto. Ordiniamo couscous alle verdure, che ci arriva con una piccola ciotola di harissa. Il cameriere ci guarda un attimo, accenna un sorriso e dice solo: «C’est très fort.»

Il profumo è intenso, pieno, avvolgente. Cumino, coriandolo, verdure stufate e olio caldo. Intingiamo il pane nella salsa rossa, e l’odore pizzica già solo a respirarlo. È tutto buonissimo. Ma io non riesco a stare tranquillo.

«Vero…»

Lei alza lo sguardo. Lo conosce. Sa già che sto per dire qualcosa di pesante.

«Ci stiamo infilando in qualcosa che forse non riusciamo a controllare.»

Appoggia la forchetta. Silenziosa. Presente.

«Il tipo al museo di Cabras… lo sguardo che ci ha lanciato. Non guardava i reperti, guardava noi. E poi, a Cagliari… quando stavamo facendo i check pre-volo, c’era qualcuno dietro la recinzione. Stava fermo. Forse ci fotografava. Non te l’ho detto per non allarmarti ma prima… prima un uomo, al mercato…»

Faccio una pausa. Un respiro più lungo. «…mi ha preso per un braccio. E mi ha detto chiaramente che è meglio se lasciamo perdere.»

Un silenzio spesso si poggia tra noi. Il cucchiaino nel bicchiere vibra appena.

«Comincio a pensare che non siamo più al sicuro. Che qualcuno… ci stia seguendo.»

Veronika prende un sorso d’acqua. Poi parla. La voce calma, ma dentro un’onda.

«E quindi? Vuoi tornare indietro? Chiudere tutto?»

«Non lo so. Voglio solo capire se ha senso rischiare.»

«Per scoprire la verità? Sì, ha senso. Se esiste un Ordine, se questa storia è vera… allora c’è qualcosa che qualcuno non vuole farci sapere. E se ci fermiamo ora, daremo loro ragione.»

«Per scoprire cosa, però? Una verità sepolta da millenni? A che serve, se può metterci in pericolo? E se succede qualcosa a te? A Skippy? Nessuno ci paga per questo. Nessuno ci protegge.»

Skippy smette di masticare. Ci guarda. Prima me. Poi Veronika. Le orecchie piegate, ma lo sguardo acceso. Combattuta. Ma dentro… propende per andare avanti. Come sempre.

Veronika scuote la testa. «Siamo arrivati fin qui. Non per gioco. E lo sai anche tu.»

Sbuffo, infastidito. Poi abbasso lo sguardo sul piatto. Skippy, intanto, sta tirando fuori l’anello di Lissia dallo zainetto. Lo tiene tra le zampe. In silenzio.

Annuisco. Ma dentro… un turbine. Rabbia, paura, tensione. E qualcosa di più sottile. Un confine.

Va bene, penso. Ma alla prima crepa vera… tiro il freno. Lo farò io. E sarà la fine di questa storia.

Veronika intuisce. Non dice nulla. Ma il modo in cui mi prende la mano sotto il tavolo mi dice che ha capito.

Ogni verità nascosta ha un prezzo. La domanda è: siamo disposti a pagarlo?

dentro il ristorante (foto Dall-E)

Oltre la soglia

Usciti dal ristorante, la sera ci accoglie con un cielo color rame e l’aria più fresca che respira tra i vicoli stretti. Camminiamo lenti, senza fretta, in cerca del nostro hotel, lasciandoci guidare dai suoni ovattati e dalle luci calde che filtrano dalle finestre. La medina si svuota piano piano, ma non smette mai davvero di vivere. Alcuni negozi restano aperti, le lanterne accese ondeggiano lievemente al passaggio del vento.

Passiamo davanti a un portale monumentale. È la Moschea Zitouna, la grande moschea attorno alla quale è cresciuta l’intera medina. La sua cupola svetta oltre i tetti bassi, custodita da colonne antiche e silenzi profondi. Veronika si ferma un attimo a guardarla, mentre Skippy, accoccolata tra noi, si gira indietro come per imprimersi ogni dettaglio.

«Qui tutto è costruito attorno a qualcosa di sacro,» mormora lei. «E noi giriamo in cerchio, come se cercassimo un centro che ci sfugge.»

La osservo in silenzio. Ho mille pensieri che mi bloccano le parole. Le prendo la mano. E insieme riprendiamo a camminare.

Troviamo il nostro albergo, proprio come ci ha indicato Nizar, in una piccola piazzetta immersa nel cuore della medina. Una minuscola struttura riadattata, con un cortile interno, tende leggere alle finestre e il profumo persistente del gelsomino nell’aria.

Mentre mi tolgo le scarpe, Veronika si siede sul letto e si gira verso di me.

«Quindi?» dice, senza giri di parole. «Andiamo a incontrare questo anziano falegname o no?»

Mi sembra quasi una prova. Come se stesse testando la mia fede in questa ricerca.

Sbuffo. «Ovviamente. Che domande.» Ma la voce mi esce più secca del previsto.

Lei scuote la testa con un sorriso appena accennato. «Non ti preoccupare. Non succederà niente. E se succede… lo affrontiamo.»

Skippy salta sul letto, si stende accanto a lei, una zampa sul cuscino e gli occhi già mezzi chiusi. Io rimango affacciato alla piccola finestra della stanza, che dà su un vialetto stretto ma ancora animato, anche a quest’ora.

Veronika si addormenta quasi subito. Skippy la segue poco dopo, rannicchiata tra le lenzuola. Il loro respiro è lento. Calmo.

Io invece resto sveglio.

Gli occhi aperti nel buio.

Il pensiero torna a quell’uomo al mercato. A quello dietro la recinzione di Cagliari. A quello sguardo fisso al museo di Cabras.

Mi chiedo se ci stiano solo osservando.
O se ci stiano aspettando.

Scorro la mappa sul tablet, ingrandendo la zona intorno a Kairouan.
Niente. Nessuna pista visibile, nessun aeroporto. Solo sabbia e strade dritte che si perdono nel vuoto.

Sospetto che atterrare lì non sarà semplice.
E forse… nemmeno sicuro.

C’è solo una persona che può aiutarmi.

A volte non è la meta a spaventare, ma le ombre che ci osservano lungo il cammino

pensieri alla finestra (foto Dall-E)

15 + Diario di Volo Cagliari Tunisi

Risveglio e Preparativi

La notte mi ha tenuto prigioniero. Nonostante la stanchezza accumulata, il sonno è rimasto un miraggio irraggiungibile, come se sapesse che oggi non è un giorno qualunque. Mi rigiro nel letto, ascoltando i pensieri che si rincorrono in testa come aeroplani in holding sopra un aeroporto chiuso. Alla fine mi arrendo, sposto piano le coperte e mi alzo, deciso a non sprecare nemmeno un minuto di questa veglia forzata.

Sul mobiletto nella camera dell’hotel in cui siamo c’è una macchinetta del caffè. Piccola, essenziale. Come me stamattina. Inserisco una cialda con un gesto meccanico e schiaccio il pulsante.

Nel silenzio assoluto della stanza, il suono dell’erogazione mi sembra quasi un’esplosione. Non è forte in sé ma rimbomba nelle pareti come se amplificasse tutto il peso che ho addosso. Guardo verso i letti: Skippy è a pancia in su, con una zampa fuori dalle coperte; Veronika è rannicchiata sotto il lenzuolo, immobile. Nessuna delle due si muove.

Beate loro, penso.

Sorseggio il caffè in piedi, poi mi siedo sulla poltroncina con il tablet sulle ginocchia. È ora di preparare tutto.

Organizzare un volo internazionale non è uno scherzo, specialmente se non si tratta di una compagnia aerea ma di un piccolo Cessna con a bordo tre anime e una storia che ci brucia tra le mani.

Comincio dal piano di volo: punto di partenza, destinazione, quota prevista, tempi stimati. Deve essere chiaro, preciso e inviato in tempo utile alle autorità. Per entrare nello spazio aereo tunisino servono autorizzazioni specifiche: copia dei passaporti, una motivazione valida per il viaggio e tutti i dettagli dell’atterraggio. Per fortuna ho preparato tutto in anticipo per questo lungo viaggio. Apro la cartella protetta nel cloud, scarico i documenti, li inoltro al tablet e poi li invio direttamente all’ATC.

Ora non resta che aspettare la conferma.

Intanto faccio un controllo rapido al nostro equipaggiamento. Le regole doganali tunisine sono chiare: niente alimenti freschi, niente dispositivi non dichiarati. In teoria siamo a posto ma meglio controllare tutto due volte. Apro lo zaino, passo in rassegna ogni tasca, ogni borsa. Nessuna sorpresa. Bene così.

Mi appoggio un momento allo schienale. La luce fuori inizia a cambiare. La città si sveglia. Noi, invece, stiamo per lasciarla.

Ci sono notti in cui il viaggio comincia prima ancora di partire.

Skippy dorme beata (foto Dall-E)

Arrivo in aeroporto

Quando Veronika apre gli occhi, sono già vestito da un pezzo. Le porgo la tazza di caffè con un goccio di latte, come piace a lei. Sorride appena, con quella faccia da “dammi ancora cinque minuti” che conosco bene. Mi siedo accanto al letto mentre beve i primi sorsi, poi le scompiglio i capelli con un gesto lento.

Skippy sbuca dalle coperte poco dopo, con una zampa in testa e il muso schiacciato su un lato. Si stiracchia come un gatto e mi guarda come per dire: “Oggi si vola, eh?” Le sorrido. «Già. E si cambia continente.»

All’aeroporto ritroviamo il nostro Cessna parcheggiato al margine dell’area operativa. Ci muoviamo tra attrezzature e zaini con la solita precisione. Siamo rodati ormai. Veronika è poco distante, sta parlando al telefono. Non ho bisogno di ascoltare per sapere con chi. Da Siena in poi, ogni volta che può, chiama Irina. Sono sicuro che le stia raccontando tutte le novità e cosa stiamo per fare.

Io continuo coi controlli. Mi fermo accanto all’ala sinistra per verificare l’estensione del flap quando…

Sento qualcosa. O meglio, avverto qualcuno.

Mi volto verso la recinzione, istintivamente. Siamo abbastanza vicini al bordo dell’aeroporto, e tra le sterpaglie e la vegetazione rada c’è una figura. Ferma. Nascosta a metà tra il verde e il metallo.

Non capisco bene cosa stia facendo. Mi sposto di un passo in quella direzione, per osservare meglio.

In quel momento un pulmino passeggeri mi attraversa la visuale. Lo seguo con lo sguardo, immobile. Quando finalmente libera la visuale… non c’è più nessuno.

Resto lì. Con la sensazione che qualcosa non torni. Ripenso a quello che ho visto o che credo di aver visto. Una sagoma, forse un uomo e tra le mani… qualcosa. Una fotocamera? Sì, probabilmente. Grossa. Sembrava proprio una reflex. E l’atteggiamento… quello di chi cerca di non farsi notare.

Potrebbe essere stato chiunque. Potrei essermi sbagliato o potrei aver visto esattamente ciò che c’era.

Fotografava noi o gli aerei? È durato troppo poco per esserne certo.

Probabilmente è solo la stanchezza. Il peso della giornata, il poco sonno, la tensione. E la testa che a volte inventa più di quanto vede.

Non dico nulla a Veronika. Non voglio agitarla. Le faccio solo un cenno da lontano, mentre lei è ancora al telefono. «Salutami Irina… e Carlo!»

Lei sorride e alza il pollice.

Io torno all’aereo ma quella sensazione… non se ne va.

A volte basta un dettaglio per far traballare la realtà.

Decollo da Cagliari (foto flight simulator 2024)

Decollo e Sorvolo di Cagliari

Pochi minuti dopo siamo in volo. Stiamo prendendo quota e il mio sguardo scivola verso terra dove, tra i palazzi e le vie di Cagliari, riconosco l’ospedale dove siamo stati il giorno prima.

Il pensiero corre subito al professor Lissia. Non so quanto tempo gli resti ma spero con tutto il cuore di riuscire a raccontargli la verità su questa storia prima che sia troppo tardi. Lui ha speso la vita a cercare una risposta che nessuno ha mai voluto davvero trovare. E se, per una volta, fossimo noi quelli destinati a portargliela?

Sono ancora assorto nei pensieri quando la voce di Veronika nelle cuffie mi coglie di sorpresa, facendomi quasi sbandare.

«Sai che Irina mi ha raccontato una cosa bellissima su questa città?» dice con tono leggero. «Una festa religiosa. La Festa di Sant’Efisio. La celebrano qui ogni anno dal 1656, senza aver mai saltato un’edizione. Neanche durante le guerre.»

«Mai sentita.»

«È una delle processioni più importanti e toccanti di tutta la Sardegna. Parte da Stampace, un quartiere qui in centro e arriva fino a Nora. Quattro giorni di cammino, tra petali di fiori sparsi a terra, campane che suonano e le sirene delle navi nel porto che salutano il santo. Irina diceva che è impossibile non commuoversi quando il cocchio del santo si muove lentamente tra la folla, in un silenzio che pare sacro. Tutta la Sardegna partecipa, con costumi tradizionali e carri decorati… si chiamano traccas, se non ho capito male.»

Il Cessna continua a salire. L’obiettivo sono gli ottomila piedi previsti dal piano di volo. Un raggio di sole filtra tra le nuvole e colpisce il mare in lontananza, facendolo brillare come oro liquido.

«Quattro giorni a piedi, per onorare un voto fatto durante un’epidemia di peste. La città si affidò a Efisio e, da allora, ogni anno mantengono la promessa. Irina dice che nessun sardo mancherebbe mai a quell’appuntamento… è qualcosa che va oltre la religione.»

Resto in silenzio per qualche istante, poi la guardo e le dico: «Mi piacerebbe vederla, un giorno.»

Veronika sorride. «Anche a me.»

Alcuni voti attraversano i secoli come fossero appena stati pronunciati.

Vista dall’alto del quartiere di Stampace a Cagliari (foto flight simulator 2024)

Verso il Mare Aperto

La costa scivola lentamente sotto di noi. Stiamo sorvolando la zona di Villasimius, con le sue insenature perfette, le spiagge bianche e quel mare che sembra dipinto.

Le nuvole sparse, morbide e leggere, disegnano ombre sottili sull’acqua. Da quassù tutto appare immobile, come se il mondo stesse trattenendo il respiro.

«Wow…» dice Veronika con un tono a metà tra lo stupore e la preoccupazione. «Siamo molto più in alto del solito!»

Annuisco mentre controllo gli strumenti. «Sì, dobbiamo salire fino a 8.000 piedi, circa 2.400 metri. È una delle condizioni imposte dall’ATC per l’attraversamento di questo tratto di mare. Inizia ufficialmente il volo IFR, quello strumentale. Tra poco imposterò anche il pilota automatico, è la prima volta che lo usiamo.»

«che spettacolo da quassù.»

«gia» rispondo, lanciando uno sguardo fuori dal finestrino «sembra un altro pianeta.»

Sotto di noi le curve della costa iniziano a dissolversi lentamente, come se la Sardegna si stesse ritirando in silenzio. Il Cessna punta deciso verso sud-est, lasciandosi alle spalle la terra ferma e dirigendosi verso il vuoto azzurro del Mediterraneo.

Ci sono partenze che sembrano silenzi. Ma sono promesse.

Saluto all’Italia (foto flight simulator 2024)

Rotta verso Sud

Vedo la costa allontanarsi alle nostre spalle e penso all’Italia. Chissà quando la rivedremo. Chissà come saremo cambiati dopo questo viaggio in giro per il mondo. Non si tratta solo di distanza ma di un addio momentaneo a qualcosa che conosciamo bene, per andare incontro a tutto ciò che ancora non sappiamo.

Mi schiarisco la voce. «Ok Skippy… ci siamo. Pronta a inserire l’autopilota?»

Lei si raddrizza di colpo, le orecchie dritte, poi balza in avanti con un saltello elegante e si sistema in braccio a Veronika, con lo sguardo fisso sul pannello. È tutta occhi.

«Guarda qui» dico, indicando lo schermo del Garmin 1000. «Come sai quella linea viola che vedi è la rotta che ho già impostato nel piano di volo. In pratica, ci basta seguirla. Siamo leggermente fuori rotta ora ma niente che il pilota automatico non possa correggere.»

Skippy inclina la testa, incuriosita.

«Per attivarlo non dobbiamo fare molto. Prima premiamo NAV, così il sistema capisce che vogliamo seguire quella linea viola. Poi AP, che sta per Auto Pilot, e da lì inizia a fare tutto da solo: mantiene la quota, corregge la direzione, gestisce il trim. Io sto qui a guardare… e a fidarmi.»

Un bip. Una vibrazione sottile e poi, come se fosse guidato da una volontà propria, il Cessna si inclina leggermente, si corregge, si riallinea con calma e precisione alla rotta.

È strano. Dopo quasi duemila chilometri volati a mano, seguendo il profilo del terreno, leggendo il paesaggio come una mappa viva… sentire l’aereo che si muove da solo è quasi surreale. Come se avesse preso il comando.

«Mi fa effetto» ammetto, tenendo comunque le mani vicine ai comandi. «È come se stesse dicendo: tranquillo, da qui ci penso io.»

Veronika sorride. Skippy si sistema meglio in braccio a lei, soddisfatta.

E il nostro piccolo Cessna, sospeso nel blu, continua dritto verso sud.

A volte bisogna solo fidarsi. E lasciarsi portare.

Sorvolando il mediterraneo direzione Sud (foto flight simulator 2024)

Gioco tra le Nuvole

Sono passati solo pochi minuti da quando ho attivato l’autopilota ma già mi sento… insofferente.

Il panorama è anche affascinante visto da quassù, con il mare che si stende sotto di noi come un tappeto blu punteggiato da nuvole sparse. Ma non sto pilotando. Non sto facendo nulla. Mi sembra quasi di essere diventato un passeggero del mio stesso aereo.

Allungo una mano verso il Garmin 1000, più per tenermi occupato che per necessità. Passo in rassegna schermate, dati, impostazioni. Poi premo un tasto di troppo, per sbaglio.

Silenzio. Poi, pochi istanti dopo, una voce secca dall’ATC nelle cuffie:

«SWA172, non riceviamo più il segnale dal vostro transponder. Si prega di riattivare immediatamente.»

«Ops…» sussurro, più a me stesso che agli altri. Rimedio subito, riattivandolo in una frazione di secondo e poi mi appoggio allo schienale facendo finta di niente, con l’aria di chi sta semplicemente riflettendo sull’esistenza.

Veronika, che ha sentito la comunicazione in cuffia, mi lancia uno sguardo di quelli che non hanno bisogno di parole, poi risponde alla radio con la sua solita calma composta:

«Copiato, confermiamo disattivazione involontaria. Problema risolto. Grazie per l’assistenza.»

Per fortuna siamo ancora in spazio aereo italiano. Avremmo potuto creare e avere problemi.

Per distrarmi lei inizia a giocherellare con Skippy, indicando le nuvole sparse all’orizzonte.

«Guarda quella! Non ti sembra un delfino con la coda in su?»

Skippy si solleva in piedi sulle gambe posteriori e imita la forma con le zampette tese in aria. Scoppiano entrambe a ridere.

Ne indicano un’altra che, secondo loro, sembra un gelato rovesciato. Provo a indovinare «fungo» e Skippy scoppia a ridere indicandomi come se fossi ridicolo.

Il tempo passa così, tra una nuvola e l’altra ma la traversata mi pesa.

Il blu è sempre uguale, l’orizzonte è lontano e immobile.

Controllo la rotta e la mappa sul tablet. Ormai non dovrebbe mancare poco, spero di avvistare presto la costa. Anche solo una linea sottile all’orizzonte. Un segno che stiamo arrivando.

Quando il cielo si fa eterno, anche le nuvole diventano gioco e rifugio.

Tra le nuvole (foto flight simulator 2024)

Avvistamento

Tra le nuvole sparse finalmente compare una linea chiara all’orizzonte.

Mi raddrizzo all’istante, abbandonando la posizione svogliata in cui ero sprofondato da un po’.

Veronika, che stava ancora giocando con Skippy, se ne accorge subito e mi osserva.

«Ci siamo quasi» dico con un sorriso che sa di sollievo e stupore insieme.

Lei non dice nulla ma si china a prendere lo zaino e con un gesto teatrale lo apre. Affonda una mano dentro, poi la solleva come una prestigiatrice e annuncia:

«Ta-daaa! La guida della Tunisia, comprata questa mattina in aeroporto.»

Scoppio a ridere. «Non ci avevo nemmeno pensato… ero troppo assonnato anche solo per ricordartelo.»

«Infatti» risponde soddisfatta, sfogliando le prime pagine con Skippy che si avvicina, curiosissima, le orecchie tese e lo sguardo fisso sulle immagini.

«Dovremmo arrivare sulla costa all’altezza di Biserta, giusto?»

«Sì, più o meno tra cinque minuti.»

Lei cerca la sezione nella guida, poi legge ad alta voce:

«Eccola. Biserta, conosciuta anche come Bizerte, è una delle città più antiche della Tunisia. Fondata dai Fenici è stata poi occupata dai Romani con il nome di Hippo Diarrhytus. In epoca moderna è stata un importante porto francese, tanto che fu l’ultima città tunisina a essere restituita all’indipendenza, nel 1963. Il suo porto militare è ancora oggi attivo e il centro storico ha mantenuto molte tracce dell’epoca coloniale.»

Mentre parla, inizio a distinguere i contorni più netti della costa: il porto, le case bianche disposte a ventaglio attorno alla baia e poi un edificio in particolare cattura la mia attenzione.

«Quello cos’è?» chiedo, indicando con il dito una struttura allungata, vicina alla linea dell’acqua, con una forma che spicca tra le costruzioni più basse del centro.

Veronika stringe gli occhi, cercando di seguire la direzione che indico. Sfoglia ancora un paio di pagine della guida, poi mi dice:

«Dovrebbe essere il Musée de la Marine. Qui dice che si trova proprio nel porto vecchio. È un museo dedicato alla storia navale della Tunisia, con collezioni che vanno dalle imbarcazioni puniche fino ai sottomarini dell’epoca francese. L’edificio era una caserma, poi è stato riconvertito negli anni Sessanta.»

«Lo vedo benissimo da qui» mormoro. «Ha un’aria austera, militare. Ma affascinante.»

«Come tutto in questo paese» aggiunge lei con un sorriso. «Un miscuglio di epoche, culture, dominazioni. E in mezzo a tutto questo, eccoci qua…»

Skippy sbircia fuori dal finestrino, poi torna a guardare la guida come se volesse capire meglio anche lei dove siamo finiti.

Il nostro piccolo aereo prosegue lento, sospeso tra cielo e mare. Davanti a noi, la Tunisia si apre come un nuovo inizio.

Quando vedi una nuova costa all’orizzonte, capisci che stai per ricominciare da capo.

Avvistamento della costa Tunisina (foto flight simulator 2024)

Bizerte

Durante il sorvolo di Biserta, il mio sguardo viene attirato da un’ampia distesa d’acqua interna.

«È il Lac de Bizerte» dice Veronika, che evidentemente ha notato la stessa cosa. Osserva il suo contorno quasi circolare, separato dal mare solo da una sottile lingua di terra.

Pochi minuti dopo, ne appare un altro sulla sinistra. Più stretto, sinuoso, con acque calme e grigie.

«E quello?» chiedo, indicando la Lagune de Ghar El Melh. «Com’è possibile che ci siano due bacini così grandi a ridosso della costa? A cosa servono?»

Veronika alza la guida e sfoglia con attenzione. «Sono aree lagunari, utilizzate da secoli per la pesca e come zone umide protette. Ghar El Melh, in particolare, è un’antica base navale ottomana, poi diventata un importante centro commerciale. Oggi è anche una riserva naturale, soprattutto per gli uccelli migratori

Scorriamo leggeri sopra Sebkha Ariana e anche qui l’acqua si estende silenziosa, mescolandosi a tratti con il sale, creando sfumature tra l’azzurro e il bianco.

«Anche questa piena d’acqua…» mormoro, affascinato. «Sembra che il mare si sia infilato ovunque.»

Poi la voce dell’ATC ci interrompe con un tono chiaro e tranquillo:

«SWA172, potete proseguire in VFR, autorizzati alla discesa.»

«Ricevuto, continuiamo in VFR.»

Imposto la nuova quota e inizio la discesa, felice di riprendere il controllo manuale. Le nubi si fanno più vicine, striate e basse, come se stessero accarezzando la città. E tra di esse, appare Tunisi.

È molto più grande di quanto immaginassi. Un intreccio fitto di edifici, strade, minareti e tetti piatti, incastonato tra altri specchi d’acqua.

Da quassù la terra sembra acqua, e l’acqua… una mappa segreta che solo il cielo può leggere.

Bizerte dall’alto (foto flight simulator 2024)

Tunisi dall’Alto

Sorvoliamo Tunisi con le nuvole che continuano a coprire gran parte della visuale mentre scendo. Riesco solo a distinguere scorci della città, interrotti da veli bianchi che si muovono lenti sotto di noi. L’aeroporto dovrebbe essere poco lontano ma, per ora, non riesco ancora a vederlo.

Nel frattempo mi colpiscono due nuovi specchi d’acqua, vasti, silenziosi, che si aprono ai lati della città come laghi interni.

Poi finalmente scendiamo sotto il livello delle nuvole e la vista si apre. L’aeroporto appare alla nostra sinistra, grande, moderno, con due piste parallele. Ma prima di allinearmi alla discesa, un groviglio di tetti e strade strette mi attira lo sguardo.

«È la Medina, vero?» chiedo a Veronika, mentre controllo gli strumenti.

Lei annuisce. «Sì, il cuore antico della città. È lì che dobbiamo andare… per cercare Adnen o suo figlio.»

Non serve aggiungere altro. Entrambi ricordiamo bene le parole del professor Lissia e l’anello che Skippy stringe ancora con cura nello zaino.

«Speriamo di trovarlo» mormoro.

Mi allineo con calma, mantenendo la rotta. Subito dopo, allineandoci con la pista, sorvoliamo il Lac de Tunis e, proprio al centro, noto un isolotto collegato alla terraferma da una sottile lingua di strada.

«Cos’è quello?» chiedo, indicando il piccolo promontorio isolato.

Veronika, ancora con la guida in mano, dà un’occhiata rapida prima di chiuderla per il finale di volo.

«È l’Île Chikly,» risponde. «C’è un fortino sopra, si chiama Fort Chikly. Lo costruirono gli spagnoli nel Cinquecento, ma in realtà era un sito molto più antico, usato già dai cartaginesi. Per secoli è stato abbandonato, poi l’hanno restaurato da poco. Adesso è una riserva naturale, non si può visitare liberamente.»

«Interessante,» mormoro, mentre inizio a ridurre la velocità e abbassare i flap per la discesa finale.

Tunisi è apparsa viva, immensa, piena di storie. E noi stiamo per toccare terra.

Non tutti gli atterraggi segnano una fine. Alcuni… sono l’inizio di qualcosa che non possiamo ancora vedere.

Tunisi vista dal Cessna (foto flight simulator 2024)

Atterraggio a Tunisi

I carrelli toccano terra con un leggero sobbalzo. Freno con delicatezza e lascio che il Cessna rallenti progressivamente sulla lunga pista dell’aeroporto di Tunisi-Cartagine.

Seguiamo le indicazioni del ground control e iniziamo un lungo rullaggio tra taxiway ampie, affiancati da jet di linea e piccoli aerei d’affari. L’aeroporto è più grande e trafficato di quanto immaginassi.

Quando raggiungiamo finalmente la piazzola assegnata, spengo motore e avionica. L’elica rallenta, si ferma. Il silenzio che segue ha un suono strano, sospeso.

Scendiamo con zaini e documenti in mano. Un addetto in uniforme ci accoglie con cortesia e ci accompagna in un edificio secondario, dove iniziano le pratiche di ingresso.

Consegniamo il piano di volo stampato, i passaporti, le autorizzazioni ricevute via email. Poi tocca ai controlli doganali: uno sguardo nei bagagli, domande su dispositivi elettronici e medicinali.

Quando uno degli agenti apre lo zaino di Skippy, il suo sguardo si fa più attento. Tira fuori uno alla volta i piccoli oggetti raccolti durante il viaggio: la monetina di Napoleone, la campanellina di Calvi, la testa dei giganti e tutti gli altri.

«Cosa sono questi?» chiede il doganiere, rivolgendosi a Veronika con un’espressione che si è fatta più sospettosa.

«Souvenir» risponde Veronika, con voce calma. Apre la guida turistica che aveva nello zaino, poi sfila una bustina in plastica dove sono indicati i nomi dei musei visitati. «Vengono tutti da esposizioni pubbliche. Nessun pezzo originale, solo riproduzioni comprate nei bookshop o regalate da persone che abbiamo incontrato.»

L’uomo li osserva uno per uno, perplesso. Poi, mentre li sta riponendo nello zaino, nota l’anello di bronzo e il bottone inciso. Li prende in mano, li gira tra le dita.

Un brivido mi corre lungo la schiena. Sono gli unici due oggetti autentici.

Li osserva ancora per un attimo, poi li rimette nello zaino senza dire nulla dandogli evidentemente poca importanza.

Un altro agente ci consegna i passaporti timbrati.

Possiamo passare.

Ci ritroviamo fuori, nel piazzale assolato dell’aeroporto. L’aria è diversa. Più calda, più secca.

Non c’è quella brezza salmastra che accarezzava le mattine in Sardegna. Qui l’aria resta ferma, avvolgente, come se trattenesse il respiro.

Sento un odore che non riconosco subito. Una miscela di terra asciutta, spezie lontane e qualcosa di ferroso, antico. Come se la città ci stesse annusando a sua volta, prima di lasciarci entrare.

Veronika mi guarda con un sorriso leggero, lo stesso che aveva quando ci siamo alzati stamattina. Ma ora lo sento anche carico di attesa.

Io ho ancora una sola domanda in testa:

Troveremo questo Adnen?

Ogni confine attraversato non è mai solo geografico. È una soglia tra il conosciuto e l’imprevisto.

Atterraggio con vista sul forte (foto flight simulator 2024)

14 – Diario di Viaggio Cagliari

Cagliari

La sera scivola lenta tra i vicoli di Cagliari, con il cielo che conserva ancora un riflesso dorato mentre l’aria inizia a farsi più fresca. Abbiamo scelto una trattoria fuori dal centro turistico, in una piazza poco illuminata, dove il tempo sembra dilatarsi. Pochi tavoli, luci calde e tovaglie consumate dal tempo: tutto suggerisce che qui la gente viene per mangiare davvero, non per fare fotografie.

L’oste ci accoglie con uno sguardo rapido e profondo, il tipo di sguardo che ti inquadra in un istante. Non dice subito niente, ci lascia sistemare, ci porta l’acqua e un menù scritto a mano, poi torna con un sorriso di quelli veri, senza mestiere. Si ferma accanto al tavolo, osserva Skippy che, curiosa ma composta, si sistema sulla sedia tra me e Veronika.

«Non siete turisti» dice all’improvviso, quasi tra sé e sé.

Ci scambiamo un’occhiata. Veronika sorride. «No, in effetti. Stiamo viaggiando ma non nel senso classico.»

L’oste annuisce, si appoggia allo schienale di una sedia vuota e poi si siede. Il locale è quasi vuoto e il profumo che viene dalla cucina è quello di qualcosa che cuoce piano. «Lo si vede dallo sguardo. I turisti guardano. I viaggiatori cercano. Voi… osservate come chi ha tempo, come chi è in ascolto.»

Skippy inclina la testa, forse lusingata anche lei.

«Cagliari non si mostra subito» continua lui. «È una città che ha vissuto con il vento in faccia e la schiena contro la roccia. I suoi quartieri sono salite e discese, come la sua storia. È stata punica, romana, pisana, spagnola… ma sempre sarda. Non ha mai smesso di esserlo.»

Prende una caraffa e ci versa del vino senza chiedere. Poi aggiunge, abbassando un po’ la voce: «Qui il tempo ha imparato a fare silenzio. Chi resta, spesso ha scelto di farlo. Chi va, se ne porta dietro il sapore. E chi arriva, se è come voi, capisce che le storie vere non si raccontano in piazza… ma tra un boccone e l’altro.»

Veronika si sporge, affascinata. «E quali storie vale la pena ascoltare, qui a Cagliari?»

Lui ci guarda un attimo, poi si volta verso la cucina e grida: «Due piatti di malloreddus alla campidanese. E una terza porzione per la mascotte.» La cuoca, invisibile, risponde con un “sì” cantato.

Poi si rimette comodo, si strofina le mani e abbassa un po’ la voce, come se stesse per raccontare qualcosa di importante. «Qui a Cagliari ci sono strade che poggiano sopra altre strade. Case costruite sopra grotte. Cripte sotto chiese. Non so se l’avete vista ma sotto il quartiere di Castello c’è un tunnel che un tempo usavano i frati cappuccini. Serviva per portare i corpi dei poveri al cimitero, senza che nessuno li vedesse. Lì sotto c’è ancora una cappella scavata nella roccia, con una scritta che dice: Ricordati che anche tu sarai polvere.»

Skippy sgrana gli occhi. Veronika si appoggia allo schienale in silenzio.

«La gente vive qui sopra e non lo sa nemmeno. Ma le storie di questa città non sono tutte nei libri. Alcune… si respirano nei muri. Basta restare in silenzio e ascoltare.»

Ci guardiamo, tutti e tre. Nessuno dice niente per un istante. Poi l’oste ci osserva uno a uno e conclude:

«Voi… state cercando qualcosa, vero? Non so cosa sia ma qualunque cosa sia… la troverete. Basta che non vi dimentichiate da dove siete partiti.»

Poi sorride. «Ora mangiate. E ricordate: qui, chi sa ascoltare, trova più risposte che domande.»

Qui, chi sa ascoltare, trova più risposte che domande.

Malloreddus alla campidanese (foto Dall-E)

Mattino e Parole di Sardegna

La notte è passata irrequieta. Veronika si è girata e rigirata tra le lenzuola più volte, mormorando parole a metà in un sonno agitato e Skippy, accoccolata accanto a lei, si muoveva a scatti come se stesse inseguendo qualcosa in sogno. A un certo punto si è alzata, ha camminato per la stanza sbuffando e poi si è riaccomodata al mio fianco, posandomi la testa sul braccio come se volesse dirmi che era stanca persino di dormire.

Io? Ho chiuso occhio a tratti. Di sicuro non abbastanza. Ho sonno, penso mentre entriamo in una piccola caffetteria appena fuori dal centro, scelta a caso seguendo l’aroma che usciva dalla porta semiaperta. Dentro ci sono solo un paio di clienti abituali e una barista con lo sguardo sveglio di chi ha già vissuto una giornata intera prima delle otto del mattino. Ci avviciniamo al bancone e lei ci scruta con un sorriso complice.

«Due cappuccini?» chiede.

«Per loro» rispondo indicando Veronika e Skippy. «Per me… due caffè americani. L’uno dietro l’altro. Nottata lunga.»

«Uhm…» la barista ci osserva. «Notte lunga o notte pensante?»

Veronika sorride. «Entrambe.»

La donna annuisce senza aggiungere altro. Prepara con calma, in silenzio. Quando ci serve le tazze, appoggia anche un piattino con delle seada tagliata a metà. «Sono avanzata da ieri ma hanno dormito meglio di voi, sicuro.»

Ci accomodiamo a un tavolino vicino alla vetrina. Fuori la città si sta svegliando ma non ha fretta. La luce è limpida, con quel tono gentile che solo certe mattine mediterranee riescono ad avere. Skippy, ancora un po’ frastornata dal sogno notturno, si arrampica sulla sedia accanto a Veronika, si sistema composta e afferra il cucchiaino con aria studiata. Non dice nulla ma osserva il mondo passare come se stesse aspettando che qualcosa si sveli.

Dopo qualche minuto, la barista si avvicina di nuovo, appoggiando una zuccheriera con calma. «Voi non siete di qui. Ma non siete nemmeno turisti. Si vede da come vi muovete.»

«L’ha detto anche l’oste ieri sera» commento, incuriosito.

Lei sorride. «Noi sardi lo capiamo. Abbiamo vissuto per secoli tra chi arrivava e chi partiva. E chi resta, impara a leggere gli occhi.»

Veronika si sporge un po’ in avanti. «E cosa vede nei nostri?»

«Vedo gente in viaggio ma non solo per vedere cose nuove. State cercando qualcosa, anche se magari ancora non sapete cosa.»

Ci fermiamo un attimo. È la seconda volta in meno di dodici ore che qualcuno ci legge dentro così, senza bisogno di sapere nulla.

La barista si siede accanto a noi, poggiando il gomito sul tavolo. «La Sardegna è strana» dice. «È piena di verità che non vengono raccontate e di storie che la gente ha paura di dire. Abbiamo paesi che esistono da tremila anni e nessuno sa cosa c’è sotto le loro fondamenta. Gente che parla lingue antiche e non lo sa. Territori che sembrano deserti ma nascondono più vita di una metropoli.»

Poi si ferma, prende una bustina di zucchero e la fa ruotare tra le dita. «Qui ogni verità è nascosta dentro il silenzio. Ma non è un silenzio vuoto. È un silenzio che parla. Solo che bisogna restare abbastanza fermi da sentirlo.»

Veronika annuisce, colpita. Skippy, come sempre, sembra capire. Io finisco il secondo caffè con un sospiro più lungo del previsto.

«Grazie» dico alla fine, mentre ci alziamo. «Per il caffè. E per tutto il resto.»

«Buona fortuna, viaggiatori» risponde lei. «Ma ricordate: se state cercando qualcosa che non si vede è perché non vuole farsi trovare. E se un giorno lo farà… vi chiederà di cambiare qualcosa dentro di voi.»

Qui ogni verità è nascosta dentro il silenzio. Ma non è un silenzio vuoto. È un silenzio che parla.

Cagliari (foto  viaggi.corriere.it)

Nora

Il viaggio da Cagliari a Nora scorre in silenzio. Sto ancora cercando di far girare a pieno regime il cervello, avvolto nella stanchezza di una notte insonne. La strada segue la costa, il mare si allunga alla nostra sinistra come un nastro d’argento frastagliato di luce. Il vento trasporta l’odore del sale e della macchia mediterranea, un profumo che sa di tempo e di storie sospese.

Arrivati al Centro di documentazione archeologica di Nora, il cortile è deserto. Il piccolo edificio dalle pareti chiare sembra quasi assopito sotto il sole ma, dentro, il suono delle voci e il rimbombo leggero dei passi ci accolgono con il respiro di un luogo vissuto.

Ci avviciniamo alla reception. Una donna anziana, con i capelli corti e ordinati, ci osserva con aria pratica da dietro il bancone. È una di quelle persone che ha visto passare centinaia di visitatori e che sa distinguere con un’occhiata chi è davvero interessato e chi è solo di passaggio.

Veronika si schiarisce la voce. «Buongiorno, cercavamo il professor Lissia.»

Un attimo di esitazione. La donna stringe le labbra, lo sguardo si fa più attento. «Lissia?» ripete, come se il nome le suonasse familiare ma al tempo stesso fuori posto.

«Sì» intervengo. «Ci ha mandato la direttrice del museo di Cabras. Dobbiamo parlargli di una ricerca.»

La donna sospira piano e si sistema gli occhiali. «Ah… il professore. Sì, certo. È in pensione da un po’ ma continua a venire sempre qui. Ora che ci penso… è qualche giorno che non lo vedo.»

Si volta verso un collega poco distante, un uomo robusto, sulla cinquantina, con una camicia a quadri e i baffi folti. «Efisio, hai visto per caso il professore in questi giorni?»

Lui si ferma un attimo, ci guarda e poi scuote lentamente la testa, senza dire una parola.

Veronika inclina la testa. «Sa quando torna? O dove possiamo trovarlo?»

La donna si irrigidisce appena, poi risponde con calma: «Non lo so. Di solito è abbastanza metodico, sì, ma non ci ha mai detto se e quando sarebbe venuto.»

Il cuore mi scivola in gola. Sento Veronika trattenere il fiato accanto a me. Skippy, seduta sulla mia spalla destra, solleva le orecchie e osserva la donna con attenzione.

«Non avete provato a cercarlo?» insiste Veronika, la voce tesa.

La donna si irrigidisce visibilmente. «No» risponde con un tono che questa volta ha una sfumatura secca. «Come le ho detto è in pensione. Non lavora più qui. Non è tenuto a dirci dove va e noi non siamo tenuti a saperlo.» Fa una breve pausa. «Magari ha solo deciso di prendersi qualche giorno. Non sarebbe la prima volta.»

Il silenzio che cala subito dopo non è di quelli pieni di preoccupazione. È un silenzio che pesa per un altro motivo, come quando si nomina una persona che ha lasciato una traccia troppo lunga nel posto sbagliato.

Veronika stringe le mani a pugno. Il pensiero è chiaro: e se fosse successo qualcosa? E se fossimo arrivati troppo tardi?

Non diciamo nulla. Solo un attimo di vuoto. Usciamo nel piazzale, il sole ci investe in pieno ma non scalda. Veronika estrae il telefono con un gesto rapido e seleziona il numero di Gavina.

Mentre aspettiamo che risponda sento la tensione crescere dentro di me. Qualunque fosse la traccia che stiamo seguendo… qualcuno o qualcosa, sembra volerla cancellare.

Qualcuno o qualcosa, sembra volerla cancellare.

Parco Archeologico di Nora (foto lastatalenews.unimi.it)

Attesa a Pula

Veronika cammina avanti e indietro nel piazzale assolato, con il telefono all’orecchio e lo sguardo basso. La voce di Gavina, dall’altra parte, è ferma ma prudente. Le parole arrivano a tratti: “Non ne so molto… lasciami fare un paio di chiamate… vi faccio sapere.” Poi il silenzio.

Quando Veronika chiude la chiamata ha lo sguardo teso. «Ha detto che proverà a informarsi, che ci richiamerà appena ha notizie certe.»

Annuisco, cercando di alleggerire la tensione. «Allora perché non facciamo due passi? Magari scendiamo fino a Pula. Ci sediamo, beviamo qualcosa… io ho ancora bisogno di caffeina. E magari anche di pensieri meno pesanti.»

Veronika annuisce. Skippy fa un piccolo salto giù dalla mia spalla e ci segue camminando al nostro fianco, con la coda che si muove piano, quasi in sintonia col nostro stato d’animo.

Pula ci accoglie con il suo ritmo lento e le strade ordinate, costeggiate da basse costruzioni color pastello. Sembra un paese dove il tempo si è fermato un attimo prima di diventare fretta. Ci fermiamo in una piazza tranquilla, scegliamo un tavolino all’ombra di un ficus e ordiniamo due caffè e un succo di frutta per Skippy, che si siede composta con le zampe incrociate.

Mentre aspetto il mio caffè, lo sguardo mi cade su un piccolo pannello turistico accanto alla fontana della piazza. Mi alzo, incuriosito, e leggo: “Secondo alcuni studi sotto l’attuale centro abitato di Pula si troverebbero ancora i resti sommersi di un’antica necropoli punica non ancora del tutto esplorata.” Alzo lo sguardo verso la cittadina ordinata e silenziosa e mi viene da pensare: quanti segreti possono restare nascosti semplicemente sotto le scarpe di chi non sa che ci sta camminando sopra?

Torno al tavolo. Il caffè è arrivato, lo sorseggio lentamente ma il gusto non ha il tempo di lasciare traccia.

Il telefono di Veronika vibra sul tavolo. Gavina.

Veronika risponde subito con una voce tesa. Dall’altra parte la voce di Gavina si è fatta più calma. Finalmente una risposta. «L’hanno trovato. Il professor Lissia è all’ospedale di Cagliari. È stato male ma ora sta meglio. È vigile, lucido. La direttrice gli ha parlato di voi. Vi sta aspettando.»

Veronika mi guarda, stavolta con un’ombra di sollievo. Skippy fa un piccolo battito di mani silenzioso, poi si rimette seria come se capisse che non è ancora il momento di festeggiare.

Non diciamo nulla per qualche secondo. Qualcosa si è sbloccato. Non abbiamo ancora capito dove stiamo andando… ma almeno non siamo più fermi.

Bevo l’ultimo sorso di caffè. È diventato freddo ma in questo momento va bene anche così.

Quanti segreti possono restare nascosti semplicemente sotto le scarpe di chi non sa che ci sta camminando sopra?

Pula (foto pulasardegna.it)

L’incontro con il professore

L’ospedale di Cagliari ha quell’odore che mescola disinfettante e attesa. Cerchiamo il reparto indicato da Gavina e all’ingresso chiediamo della stanza del professor Lissia. Un’infermiera ci accompagna lungo un corridoio silenzioso, dove la luce entra obliqua dalle finestre, accarezzando i pavimenti come a rallentare ogni passo. Camminiamo in silenzio. Veronika tiene Skippy stretta a sé, come se temesse che qualcosa potesse dissolversi al primo rumore.

«Pochi minuti» ci dice l’infermiera prima di lasciarci davanti alla porta.

La stanza è semplice, con le pareti chiare e un’unica finestra aperta sulla luce del tardo pomeriggio. Il professor Lissia è seduto con la schiena leggermente sollevata. Magro, il volto scavato dal tempo e dalla malattia ma gli occhi… gli occhi sono vigili, profondi, quasi brillanti.

«Allora… siete voi» mormora e nella voce c’è più ironia che debolezza.

«Buongiorno, Professore» risponde Veronika. «E’ un piacere conoscerla di persona. Ci manda… la direttrice del museo di Cabras. Ci hanno detto che poteva aiutarci.»

Lissia chiude per un istante gli occhi, come se stesse cercando un punto da cui iniziare. Poi li riapre e ci guarda, uno a uno. «Ho sperato per anni che qualcuno si facesse avanti. Che qualcuno portasse… un tassello, un frammento. Anche solo una nuova domanda. Ma il silenzio è durato troppo a lungo.»

Si interrompe, il respiro lento ma stabile. «I Giganti… erano veri. Non simboli, non statue rituali. Veri. Erano parte di qualcosa che oggi abbiamo paura perfino di immaginare. L’ho sempre saputo ma dire una cosa simile ha un costo. Un prezzo che si paga con l’emarginazione, con le porte che si chiudono… con le carriere che si spengono. Io non sono mai riuscito, mio malgrado, a dimostrarlo con la prova finale.»

Non lo interrompiamo. Capiamo entrambi che ogni parola ha un peso.

«Ampsicora…» dice poi, lasciando il nome nell’aria come se stesse evocando un fantasma. «Non è morto dove dicono. Non si è tolto la vita. Ne sono convinto da decenni. Aveva una rete… nascosta, ramificata, determinata. Un ordine segreto e non parlo di leggende o folklore: parlo di nomi, lettere, simboli. Nella mia carriera ho trovato più volte frammenti che sembravano fuori contesto. Frasi cifrate, mappe incomplete, nomi antichi celati dietro parole nuove. Segni che raccontavano di una fuga… e di un sapere che non doveva essere perduto.»

Abbassa la voce, ci fa cenno di avvicinarci. «Quando sono stati sconfitti, per non far cadere questo sapere nelle mani romane che lo avrebbero sicuramente distrutto lo hanno portato lontano. In Tunisia. Non so dove esattamente, né chi li abbia protetti dopo ma c’è chi non ha mai voluto che questa storia venisse alla luce. Non si può dire chi… ma erano in molti. E molto potenti. Non solo qui, non solo in Italia. Persone con voce nelle accademie, nei fondi di ricerca, nelle pubblicazioni. Gente che sorveglia e cancella.»

Si ferma un istante, il respiro più affannoso. Poi prosegue, più piano. «Una verità sui Giganti, se davvero confermata… sconvolgerebbe tutto. La storia, la fede, le fondamenta di ciò in cui crediamo. Ci sono forze che da secoli impediscono che emerga. Non posso fare nomi ma… non servono. Voi avete già capito.»

Fa una pausa, poi aggiunge, con un filo di voce: «Una volta ci sono arrivato vicino. Forse troppo. Avevo in mano qualcosa che avrebbe potuto cambiare tutto. Ma non ero pronto o, forse, ero troppo legato a tutto ciò che avevo: la cattedra, i miei studenti, mia moglie…»

Guarda il soffitto per un istante, poi torna su di noi. «Non lo dico con vergogna. Scelsi la vita. Scelsi di restare, di proteggere quello che amavo. Ma a volte mi chiedo cosa sarebbe successo se avessi avuto più coraggio.»

«Io ho solo trovato tracce. Il mio lavoro… è stato un inseguimento. Sempre a metà. Sempre ai margini di qualcosa che si nascondeva appena oltre la carta. E ogni volta che mi avvicinavo… bastoni tra le ruote. Tagli ai fondi. Minacce velate. Colleghi che si allontanavano. Ma voi… voi siete liberi. Non siete legati a istituzioni, né appesi ai contratti. Voi potete arrivare dove io non sono mai riuscito.»

Poi ci fissa con intensità. «Ora… io non ho più niente da perdere ma non ho nemmeno più le forze per investigare. Voi sì. Voi avete ancora una strada davanti e questa strada, se la percorrete fino in fondo… non sarà facile, sappiatelo.»

Veronika si stringe a me. Skippy si avvicina al letto e appoggia una zampa sul lenzuolo, in silenzio.

Il professore accenna un sorriso stanco. «In Tunisia… cercate un uomo che si chiamava Adnen. Era un archeologo, un uomo onesto. Aveva un piccolo negozio di antiquariato nel souk della Medina di Tunisi, il cuore antico della città. Ci scrivevamo spesso. Non so se sia ancora vivo. Ma aveva un figlio… più giovane, attento. Mi disse che avrebbe continuato il lavoro del padre. Forse lui… potrebbe aiutarvi.»

Un colpo di tosse gli interrompe la voce. L’infermiera si affaccia alla porta e ci fa cenno che il tempo è finito. Lissia solleva una mano, solo un attimo. «Aspetti…» dice.

Ci guarda ancora. Stavolta con un’ombra più fragile ma anche più intensa. Poi fa cenno a Skippy di avvicinarsi. Lei si avvicina piano, in silenzio.

Il professore le prende la zampa tra le dita, con un gesto lento. Poi si sfila dal dito un anello antico, in bronzo, decorato da un piccolo motivo geometrico incassato, simile a quelli visti nei nuraghi. Lo porge con delicatezza. «Se servirà per farvi riconoscere… mostrate questo. Adnen ne aveva uno identico. Era un riconoscimento per un lavoro che facemmo insieme, anni fa. Una piccola grande soddisfazione. So che lui lo indossava sempre. Se lo vedrà, capirà che vi mando realmente io.»

Skippy prende l’anello con entrambe le zampette, senza dire nulla, ma i suoi occhi si fanno lucidi.

«Io non ne ho più bisogno ormai» aggiunge Lissia, con voce più bassa. «Ma forse… voi sì.»

Veronika si avvicina e gli stringe la mano con delicatezza. «Grazie, Professore. Faremo il possibile. E se scopriremo qualcosa… glielo faremo sapere.»

Lui annuisce, con un filo di sorriso. «Portatemi almeno la fine di questa storia. Perché possa scriverla… anche solo nella mente.»

Usciamo in silenzio mentre la porta si chiude alle nostre spalle. E per la prima volta da giorni non sappiamo più se siamo noi a seguire le tracce… o se sono le tracce a seguire noi.

Scelsi la vita ma a volte mi chiedo cosa sarebbe successo se avessi avuto più coraggio.

Professor Lissia (foto leonardo.ai)

Ritorno in Albergo

Usciamo dall’ospedale ancora scossi. Veronika accende il telefono, seleziona l’ultimo numero: quello di Gavina.

Risponde subito.

«Gavina… abbiamo parlato con Lissia. Ci ha confermato che l’Ordine segreto esiste, che Ampsicora non è morto dove dicono. E’ convinto che siano fuggiti in Tunisia portando con loro qualcosa di importante… sapere, forse reperti. Ci ha dato un contatto: un uomo che lavorava nel souk della medina di Tunisi. Un archeologo. Siamo pronti a partire. Anche domani.»

Dall’altra parte il silenzio si fa lungo. Poi Gavina sospira.

«Veronika… io vi voglio bene, lo sai. Ma vi state muovendo in un terreno pericoloso. E non parlo solo di archeologia. La Tunisia non è la Sardegna. Lì ci sono altri codici, altre regole. E questa storia… non è finita. È viva. A volte mi chiedo se sia davvero il caso di andare avanti.»

Solo adesso la sua voce tradisce una cautela, quasi un timore. Come se solo nel sentirci parlare così apertamente, così vicini al cuore del mistero, avesse compreso la portata reale di ciò che stiamo affrontando.

«Ma se ci fermiamo adesso che senso avrebbe tutto quello che abbiamo fatto finora?» risponde Veronika, con la voce ferma. «Ci siamo spinti fin qui. Siamo arrivati a lui. Ora abbiamo una direzione.»

Ancora silenzio. Poi Gavina, con voce bassa: «Solo… fate attenzione.»

La chiamata si interrompe.

Veronika resta qualche secondo a fissare lo schermo, poi si gira verso di me. «Io ci voglio andare, Cami. Anche da sola se serve.»

«E se stessimo facendo un errore?» dico piano, quasi senza volerlo. «E se questa storia non fosse solo archeologia ma qualcosa che ancora oggi qualcuno vuole tenere nascosto?»

Veronika non risponde subito. Si siede sul bordo del letto, con lo sguardo basso. «Forse è così. Ma se è ancora viva… allora vuol dire che conta.»

Mi guarda. Gli occhi non hanno esitazione. «Io non voglio avere rimpianti, Cami. Se anche ci fermassimo adesso… non potrei mai più dormire tranquilla.»

La sua voce non è accesa, non è rabbiosa. È solo vera.

«E tu?» mi chiede. «Tu davvero vuoi tornare indietro adesso?»

La guardo. È stanca, lo siamo entrambi. Ma i suoi occhi brillano di una determinazione che non vacilla.

Rientriamo in albergo senza dire una parola. La strada è la stessa dell’andata ma ora ha perso i contorni. Le luci dei lampioni scorrono come scie stanche sui vetri e tutto sembra sospeso, rallentato. In camera, appoggiamo le nostre cose senza pensarci troppo. Skippy si rannicchia in un angolo della poltroncina, in silenzio. Sembra stanca, triste. Forse per lei è stato difficile vedere il professore in quelle condizioni… sapere che la sua vita gli sta scivolando via.

Mi stendo sul letto, le mani intrecciate dietro la testa, guardo il soffitto. Veronika si avvicina piano. Si infila sotto le coperte e mi abbraccia, poggia la testa sul mio petto. Skippy si trascina sul letto e si accoccola accanto a me, dall’altro lato, con un sospiro felino. Cercano conforto. Protezione.

Provo a darne. Anche se dentro di me non ne ho più di loro.

«La Tunisia fa parte del mondo, no? E noi stiamo facendo il giro del mondo.»

Veronika mi stringe. Un grazie silenzioso.

Le luci si spengono. Il silenzio torna.

Io resto sveglio. Con gli occhi aperti nel buio e la mente piena di domande.

E se questa traccia non fosse solo una traccia? Se ci stesse portando in qualcosa che non possiamo controllare? Che non posso controllare? Qualcosa che le possa mettere in pericolo?

Non lo so.

So solo che domani voleremo verso sud.

E che, per la prima volta da quando siamo partiti, non sono sicuro di voler conoscere la verità.

Non sono sicuro di voler conoscere la verità.

Anello del Professor Lissia (foto Dall-E)

14 + Diario di Volo Oristano Cagliari

Canti e Balli

Sono circa le 17 quando entriamo nella zona dei voli privati dell’aeroporto di Oristano. Il giro in città è stato piacevole e sono contento di aver convinto Veronika a non puntare dritto su Cagliari. Seguiremo la costa sud-occidentale allungando un po’ il volo per sorvolare i tratti più selvaggi della Sardegna.

Mentre sistemo i controlli a bordo sento, dietro di me, un ritmo di battiti irregolari. Mi volto. Veronika sta canticchiando una canzone francese che non conosco, mentre Skippy cerca di tenere il tempo tamburellando con le zampette.

Poi, all’improvviso, Skippy si gira verso di me e comincia a ballare in equilibrio precario, con le braccia allargate come se fosse pronta a spiccare il volo.

«Dai Cami, cantala anche tu!» dice Veronika, voltandosi con un sorriso che non ammette repliche.

«Mmm… meglio di no» rispondo mentre continuo a concentrarmi sul tablet di bordo dove sto impostando il piano di volo.

Skippy si blocca, mi fissa, poi inclina la testa da un lato con espressione esasperata. E insieme, all’unisono, partono con un fragoroso: «Booooooh!»

Scoppio a ridere. L’intesa tra loro è tornata quella di sempre e io, anche stonato, mi sento di nuovo parte di un trio felice e festoso, in un viaggio attorno al mondo.

La leggerezza non è una distrazione ma il modo migliore per iniziare una nuova rotta.

in decollo da Oristano (foto flight simulator 2024)

Saluti dall’alto

Poco dopo il decollo sorvoliamo Cabras per un passaggio simbolico sopra il Museo dei Giganti. Non possiamo vederle ma Veronika alza la mano e sorride: «Ciao Gavina… e ciao anche a lei direttrice!»

Skippy fa un cenno con la zampa, poi torna a fissare il paesaggio dal finestrino, con le orecchie dritte e il muso appoggiato al vetro. Lì sotto la terra è piena di storie che solo pochi sanno leggere.

Veronika apre lo zaino e tira fuori la guida sulla Sardegna e la macchina fotografica. Il movimento è fluido, istintivo. In quel gesto c’è tutto quello che siamo: lei che legge e racconta, io che volo e ascolto, Skippy che osserva come se tutto fosse un gioco.

«Tharros era un’antica città fenicia, poi cartaginese e infine romana» inizia, senza bisogno che io le chieda nulla. «Fondata probabilmente nell’VIII secolo avanti Cristo, proprio dove il promontorio si allunga nel mare… guarda là!»

Indica con la mano sinistra mentre con la destra tiene aperta la guida. Dal finestrino si vedono i resti delle strade lastricate, le terme, qualche colonna sparsa. Il promontorio di Capo San Marco le protegge come un muro naturale che ha retto a tutto tranne che al tempo.

«E vedi quella laguna? O stagno… non lo so, sembra quasi un lago. Lì dietro, nascosto tra le colline, c’è il sito di Mont’e Prama. Le statue dei giganti, i frammenti, tutto è venuto fuori da lì. Anni fa. Sotto terra. Quasi per caso.»

Osservo l’area che mi ha indicato, poi osservo lei: «Ma lì non c’è nessun monte… sembra una pianura. Perché si chiama Mont’e Prama allora?»

Veronika sorride, sfoglia qualche pagina della guida e risponde:
«In effetti non è un monte. “Prama” pare venga da pramma, che in sardo antico significa “palude” o “zona bassa e fangosa”. E il “mont’e” sarebbe più un modo di dire che una vera elevazione. Insomma, più che Mont’e Prama dovrebbero chiamarlo Collinetta del Fango.»

Poi mi guarda con un’espressione teatrale: «Ma vuoi mettere che suona meglio così che i Giganti della Collinetta del Fango?!»

Scoppiamo a ridere.

A volte, dietro i nomi più solenni, si nascondono le verità più semplici.

Capo San Marco visto dal Cessna (foto flight simulator 2024)

Ricapitolando

Lasciamo alle spalle il promontorio di Tharros e ci spostiamo lungo la costa verso Capo Frasca, dall’altra parte del golfo di Oristano. Il mare è calmo, tagliato solo da qualche scia leggera che si dissolve in fretta. La costa si allunga in curve morbide, il sole che comincia a calare alla nostra destra tinge tutto con riflessi dorati e arancio.

Veronika sfoglia la guida un’ultima volta, poi la richiude e si gira verso di me con quell’espressione da “organizzatrice di pensieri seriale”.

«Oook, ricapitoliamo un po’ di cose, così da avere la mente più lucida quando parleremo con questo professore.»

Mi guarda sollevando un sopracciglio. Alzo la mano dalla cloche e faccio un piccolo gesto che vuol dire “vai”. Skippy, che capisce l’atmosfera, balza avanti e si siede in braccio a Veronika, pronta a partecipare attivamente alla ricostruzione.

«Bene» comincia Veronika. «Grazie alle doti investigative di Skippy a Bonifacio è saltato fuori quel pezzo di stoffa con un simbolo inciso.»

«Bisso marino» le ricordo, senza staccare gli occhi dall’orizzonte. «Il che lo rende già di per sé qualcosa di importante, visto che viene creato, incredibilmente, da un mollusco.»

«Già. Un pezzo di bisso marino con alcune incisioni» ripete Veronika, puntandomi contro l’indice come per avvalorare la mia precisazione. «Non so perché mi ha catturata subito e così ho iniziato a fare ricerche che… beh, mi hanno portato a pensare ai Giganti della Collinetta di Fango.»

Scoppiamo a ridere nuovamente entrambi, mentre Skippy ci guarda confusa, probabilmente offesa per l’uso poco epico del nome.

In questo momento arriviamo sopra Capo Frasca e noto qualcosa a terra.

«Guarda lì… com’è che la sabbia si spinge così tanto verso l’interno? Sembra che salga quasi fino alle case.»

Veronika si rimette subito al lavoro. Sfoglia rapida la guida, Skippy l’aiuta con una zampa tenendole ferma la pagina. «È la spiaggia di Torre dei Corsari» mi dice. «Quel paesino che si vede là in alto che la sovrasta.»

Poi alza gli occhi, quasi divertita: «Quella sabbia si muove. Pare che, con il vento giusto, riesca a salire fin sopra la strada. È uno dei pochi posti dove puoi parcheggiare e trovare la macchina mezza insabbiata al ritorno… anche se era ferma.»

«Un parcheggio volante, praticamente.»

Lei ride. «Sì, ma naturale. Una duna di venti metri che avanza piano piano, anno dopo anno. E nessuno riesce a fermarla davvero.»

A volte la sabbia avanza più in fretta delle certezze.

verso Capo Frasca (foto flight simulator 2024)

Buggerru

«Quindi eravamo al fatto che pensavi che il bisso e le sue incisioni fossero legate ai giganti» dico mentre sorvoliamo la costa in direzione di Capo Pecora con il mare che si apre ampio sotto di noi.

«Già» risponde lei, abbassando leggermente il tono. «Ti ho convinto a volare a Santa Teresa di Gallura per visitare il sito di Lu Brandali. C’era una foto sfocata che avevo trovato online… dove una roccia in questo luogo sembrava avere lo stesso simbolo.»

Mi giro un attimo a guardarla. Ha lo sguardo fisso sul tablet ma un velo di tristezza le attraversa gli occhi.

«Però… arrivati lì abbiamo scoperto che era solo un abbaglio. Il simbolo era diverso. Mi sono fatta confondere da una stupida foto sfocata.»

Le prendo la mano senza dire nulla per qualche istante. Poi, con tono leggero ma sincero:
«Succede. E comunque… non saremmo arrivati fin qui, in questa storia, se non fossimo partiti proprio da quel passo falso.»

Lei mi stringe la mano e sorride, in silenzio. Skippy l’abbraccia per darle ulteriore conforto.

Guardo giù. Un’altra spiaggia si allunga verso l’interno. Anche qui, come poco fa, la sabbia sale verso le colline come spinta da qualcosa che non si vede. Evidentemente, penso, in questa zona il vento ha sempre comandato la forma delle cose.

«Capo Pecora» dice Veronika, tornando a parlare. «È uno dei luoghi più selvaggi di tutta la costa ovest. Non c’è quasi niente qui: rocce, macchia, vento. Ma sotto, nella zona che chiamano Buggerru e Scivu, sono stati trovati resti di attività antichissime. Cunicoli, tracce nuragiche, persino voci di gallerie che scendono molto più in profondità del normale.»

A volte anche gli sbagli ci indicano la strada giusta.

Buggerru (foto flight simulator 2024)

Masua

Sorvoliamo una lunga distesa dorata che si perde verso l’entroterra. «bella questa spiaggia» dico mentre la osservo allungarsi sotto di noi come una striscia morbida tra mare e colline.

«Portixeddu» mi dice Veronika dopo aver controllato. «È lunga quasi due chilometri. Sabbia fine, niente stabilimenti. Solo vento e onde. Dice che era frequentata dai pescatori e dai minatori in cerca di silenzio.»

Alla fine della spiaggia appare un piccolo paese incastonato tra le montagne, come aggrappato ai pendii. Le case sono addossate l’una all’altra, incorniciate dal verde e dal blu del mare.

«È Buggerru», dice Veronika. «A inizio Novecento la chiamavano “la piccola Parigi” per via delle case eleganti costruite dai dirigenti della compagnia mineraria francese che operava qui. Ma era anche un luogo di lotte e di dolore. Proprio da qui, nel 1904, partì una delle prime manifestazioni operaie della Sardegna. La repressione fu durissima. Tre minatori furono uccisi.»

Pochi istanti dopo, più avanti sulla costa, compare un profilo che cattura subito lo sguardo: una parete di roccia forata, come scolpita da una mano umana. Ai suoi piedi, un piccolo promontorio con costruzioni che sembrano uscite da un’altra epoca.

«Lì è Masua» continua lei, indicando col dito. «E quella è la bocca di Porto Flavia. Una galleria scavata nella roccia per caricare i minerali direttamente sulle navi. Dietro quella parete c’è tutto un sistema di cunicoli e binari. Un capolavoro ingegneristico. E anche una delle immagini più iconiche della Sardegna dimenticata.»

Resto un momento in silenzio. “stupenda” esclamo. Poi più avanti indico un punto all’interno, un po’ più lontano dalla costa.

«Là dietro c’è Iglesias. Avevo pensato di includerla nella rotta ma era troppo fuori traiettoria. Dovevamo fare delle scelte.»

Veronika scuote la testa piano. «Non fa niente, te ne parlo io.»

Sfoglia qualche pagina e inizia a leggere: «Iglesias è una città antica, con una lunga storia legata alle miniere. Prima ancora, fu un centro fortificato nel periodo giudicale. Il suo nome viene da “Ecclesiae”, per via delle tantissime chiese presenti. Ce ne sono più di venti nel centro storico. E poi ci sono ancora i resti delle mura pisane, costruite nel Duecento. Pare che i Pisani la considerassero così importante da difenderla come una piccola roccaforte nel sud dell’isola.»

Chiude la guida e mi guarda. «Era una città di ricchezza e fatica. Di preghiera e di ferro. E anche se oggi è un po’ fuori dalle rotte turistiche ha ancora un’anima forte.»

Da qui in avanti, la costa si fa ancora più scoscesa. E qualcosa ci dice che il meglio deve ancora arrivare.

Alcuni luoghi resistono al tempo con la sola forza della memoria.

Porto Flavia (foto yepsea.com)

Tre Isole

Siamo in vista di Portoscuso e delle isole di San Pietro e Sant’Antioco. La luce del sole filtra tra le nuvole con quei raggi obliqui che sembrano accarezzare il paesaggio. Il mare sotto di noi è calmo, punteggiato da riflessi argentati. Le ombre delle nuvole scorrono leggere sulla superficie, come se stessero giocando a rincorrersi con l’orizzonte.

Veronika torna a ricordare. «Menomale che la guida di Lu Brandali ci ha parlato di Gavina.»

«Infatti» rispondo io, con un mezzo sorriso. «Se non avessimo incontrato di nuovo la guida, ora saremmo sul versante opposto dell’isola.»

Lei si volta, con un’espressione mista tra complicità e dispiacere. «Lo so che ti sarebbe piaciuto di più… ma questa avventura la volevo proprio tanto seguire.»

Skippy, senza esitazione, la indica con la zampa come a dire “ha ragione lei”. Ci scappa da ridere.

«Va bene così» le dico. «È stato divertente, piacevole… e poi, a me importa stare insieme. Viaggiare. E soprattutto vederci felici e affiatati come oggi.»

Veronika mi guarda per qualche secondo in silenzio, poi sorride. «Oh, quello dev’essere Portoscuso» dice indicando la costa.

«Qui c’era una delle tonnare più importanti del Mediterraneo» continua. «Fino a pochi decenni fa, la pesca del tonno qui era tutto. E il nome del paese viene da “porto oscuro”, perché un tempo era nascosto, protetto dalle rocce. Quasi invisibile dal mare.»

Poi indica a destra. «Quella è l’isola di San Pietro. A colonizzarla, nel Settecento, furono pescatori liguri provenienti da Tabarka, in Tunisia. Ancora oggi parlano un dialetto genovese: il tabarchino

«E lì davanti invece… Sant’Antioco. È collegata alla terraferma da un istmo. E pare sia uno dei luoghi abitati più antichi d’Italia. Fondata dai fenici, poi cartaginese, poi romana. E ancora oggi ci sono zone dove si parla il sardo più arcaico di tutta l’isola.»

Le isole ci vengono incontro, lente. Il sole le illumina a tratti e il volo, per un momento, sembra sospeso nel tempo.

Ci sono luoghi che non chiedono di essere spiegati. Basta sorvolarli per capirli.

Isola di Piana, l’isola dei Ratti e San Pietro (foto flight simulator 2024)

Carloforte

Sorvoliamo due piccoli lembi di terra appena emersi dal mare. Da qui sembrano scogli allungati ma Veronika riconosce subito il profilo sulla mappa di bordo.

«Sai che questo isolotto qui sotto si chiama… isola dei Ratti?» dice sorridendo, mentre indica il punto esatto. «Pare che il nome venga dal fatto che, per secoli, le barche lasciavano qui provviste e i ratti, quelli veri, si moltiplicavano in fretta. Per anni non è stato altro che uno scoglio infestato.»

Poi allarga il braccio verso destra. «Quella più grande invece è l’isola di Piana. Oggi è una proprietà privata ma un tempo era utilizzata per l’allevamento del tonno rosso. Qui si tenevano le tonnare fisse, legate a Carloforte, e tutta l’economia girava intorno al mare.»

«Un’intera isola privata. Che bello sarebbe averne una» commento

Mentre questo pensiero resta sospeso nell’aria ci avviciniamo a Carloforte, il centro principale dell’isola di San Pietro. Veronika sospira. «Questa città è un piccolo mondo a parte. Parla un dialetto ligure, cucina come in Tunisia e vive con il ritmo del mare.»

Poi torna al filo della nostra storia, come se il volo stesso glielo avesse appena ricordato. «Dicevamo che Gavina ci ha accompagnato a Cabras. Lì lavora ancora una sua vecchia collega, la direttrice del museo. Ci ha fatto vedere due reperti che pensa siano collegati a quello che stiamo cercando.»

«Uno dei due… interessante ma poco chiaro» aggiungo. «Una figura più alta delle altre tre. Potrebbe rappresentare un gigante o forse una persona, un’entità importante per quel gruppo.»

Il motore ronza tranquillo. Sotto di noi, l’isola scorre lenta. E qualcosa, tra le nuvole e il mare, ci spinge a continuare.

Ogni isola ha la sua voce. Basta volare bassi per sentirla.

Isola di Piana (foto flight simulator 2024)

Calasetta e Sant’Antioco

Sorvoliamo la punta settentrionale dell’isola di Sant’Antioco passando sopra Calasetta, un piccolo paese bianco affacciato sul mare. Le case sembrano scolpite nella luce, allineate come conchiglie e le strade disegnano un reticolo semplice tra i tetti bassi e le barche in porto.

«Calasetta fu fondata nel Settecento da coloni provenienti da Tabarka, come per Carloforte» racconta Veronika. «Ma qui parlano un tabarchino diverso, più influenzato dal sardo. È un paese di pescatori e di artisti, pieno di gente che sa costruire le reti con le mani e le storie con le parole.»

Poi guarda verso sud, oltre le colline. «Tutta questa parte dell’isola è piena di reperti nuragici. Tombe dei giganti, pozzi sacri. Alcuni sono ancora semi-sommersi dalla vegetazione. Pochi turisti ci vanno ma chi cerca davvero, trova.»

Ci avviciniamo lentamente alla cittadina di Sant’Antioco, adagiata sul lato orientale. Il centro è più grande, vivo, con strade che scendono verso il mare. Dal cielo si vedono le cupole delle chiese e i moli affacciati sulla laguna.

«Sai la cosa più assurda è che, sotto le case moderne, ci sono ancora interi tratti di necropoli scavate nella roccia. Qualcuno vive letteralmente sopra le tombe antiche.»

Poi torna al nostro filo ispirata da quella stratificazione di epoche.
«La seconda tavoletta invece era molto più interessante. A quanto abbiamo capito si tratta di un codice segreto. Qualcuno, in epoca più recente, ha provato a imitarlo, creando un linguaggio simile. E quel simbolo inciso sul bisso… potrebbe far parte proprio di quel sistema. La direttrice ha qualche ipotesi ma nulla di certo. Non è ancora stato decifrato davvero.»

Lo dice mentre sorvoliamo le saline di Sant’Antioco. Le vasche rettangolari si allungano come specchi, alcune bianche, altre rosate e la luce del tramonto le trasforma in un mosaico silenzioso.

Ci sono verità che affiorano lente, come isole nel sale.

Calasetta a Sant’Antioco (foto flight simulator 2024)

Oltre il Confine

Inizio a prendere quota per superare i rilievi che ci separano dalla costa meridionale. Il paesaggio cambia: le curve si stringono, le rocce si fanno più scure e il vento accarezza l’aereo con una leggerezza nuova. Davanti a noi, tra una piega del terreno e l’altra, noto strane geometrie sul suolo: rettangoli perfetti, strade sterrate, spiazzi che sembrano preparati per qualcosa che non ha a che fare con la natura.

«Che cos’è quella roba laggiù? Sembra… un campo di manovra?»

Veronika si sporge leggermente, osserva, poi annuisce. «Sì. È una zona militare. Uno dei principali poligoni italiani: Capo Teulada. Viene usato per esercitazioni, test, manovre. Lì dentro fanno di tutto: blindati, artiglieria, simulazioni navali. È un’area chiusa e da anni ci sono polemiche sulla sicurezza ambientale… ma nessuno ha mai raccontato davvero cosa succede lì.»

Skippy si appoggia al finestrino per poter osservare meglio tutti quei segni strani mai visti fino ad ora. Segni di cingoli, piccoli crateri d’esplosione. Skippy li osserva in silenzio. Forse pensa che non ne valga la pena. Non per questo paesaggio.

Sorvoliamo il confine visibile tra il verde naturale e la terra battuta dagli uomini e, appena dopo il crinale, il panorama si apre di colpo: la piana di Pula si distende come un tappeto che arriva fino al mare.

Veronika torna al nostro discorso, quasi come se avesse aspettato quel momento.
«La direttrice ci ha poi accennato ad altri dettagli su Ampsicora e sulla sua fuga. Dice che c’è chi sostiene sia morto ma lei è convinta che sia riuscito a scappare. Non sa dove… ma ci ha detto che potrebbe saperlo una persona molto informata che si trova proprio lì, a Nora

Tra segreti militari e memorie antiche ogni crinale può nascondere una risposta.

Segni dei cingoli a Capo Teulada (foto flight simulator 2024)

Atterraggio

Sorvoliamo la zona industriale di Sarroch, dove ciminiere e strutture metalliche si alternano a campi coltivati e nastri d’asfalto. La luce del tardo pomeriggio rende tutto meno ruvido, quasi cinematografico. Inizio ad abbassare la quota mentre ci dirigiamo verso Cagliari ormai vicina.

Una fila di pale eoliche si staglia contro il cielo, immobili per un attimo, come se ci stessero aspettando. Sotto di loro, enormi cumuli di sale, ordinati in file regolari. Li sorvoliamo con un leggero colpo d’ala, poi ci immettiamo nel circuito di discesa verso l’aeroporto.

Skippy salta con agilità sul sedile posteriore e si allaccia la cintura con il solito gesto goffo ma deciso. Veronika chiude la guida, scatta un’ultima foto dal finestrino e mette via anche la fotocamera, con un piccolo sospiro.

Mi allineo alla pista. Vento leggero, contatto morbido. Le ruote toccano terra e il paesaggio rallenta attorno a noi.

Spegniamo tutto ma non la tensione che resta sospesa nell’aria.

Domani ci aspetta Nora.
E con lei, forse, qualcuno che conosce la parte mancante di questa storia.
Quella che ancora non siamo riusciti a decifrare.

Non tutte le piste portano a un aeroporto. Alcune portano alle risposte che stai cercando.

Atterraggio a Cagliari (foto flight simulator 2024)

13 – Diario di Viaggio Oristano

Colazione Sarda

La pancia di Skippy continua a brontolare, un ritmo nuovo dopo il russare regolare del volo. Ora trotterella nervosa con il musetto all’insù, visibilmente affamata e decisa a farcelo notare: ha bisogno di energie per affrontare una giornata del genere.

Mentre siamo in viaggio verso il museo di Cabras, Gavina indica una piccola panetteria lungo la strada e ci propone di fermarci. Il profumo di grano e dolci fritti riempie l’aria come una promessa difficile da ignorare.

Gavina ci consiglia di provare le pàrdulas, piccole tortine di ricotta e scorza d’arancia dal profumo intenso, e Veronika, incuriosita, la segue senza esitazioni. Io mi lascio tentare da un pezzo di pan’e saba, un dolce scuro, umido e speziato a base di mosto cotto, perfetto per queste giornate di vento salmastro. Skippy, invece, si appropria con solennità di una mezza seada, una frittella ripiena di formaggio e ricoperta di miele caldo, che le cola giù dalla zampetta con una lentezza quasi cerimoniale. La annusa con rispetto, la tocca delicatamente con le zampette, poi dà un primo morso e si ferma, immobile, come se il sapore meritasse qualche secondo di silenzio. E non ha tutti i torti.

Riprendiamo il tragitto verso Cabras. La strada taglia i campi e le nuvole grigie corrono basse sopra di noi. Gavina abbassa la voce, con gli occhi fissi sull’orizzonte. «Non sono certa che vorrà mostrarvi quei reperti» dice, quasi parlando a sé stessa.

L’ho sospettato sin da quando ho incrociato il suo sguardo all’aeroporto. Ora quel dubbio prende forma ma lo tengo per me. Se c’è qualcosa che ho imparato da quando siamo arrivati in Sardegna è che certi silenzi sono più utili delle rassicurazioni.

Veronika, seduta accanto a Gavina sul sedile posteriore, si sporge appena in avanti. «E se dovesse rifiutare? Se fosse un altro vicolo cieco?»

Gavina non risponde subito. Poi volta leggermente il capo, con un sorriso sottile e fermo. «Penso di sapere come parlarle. In fondo anche lei ha sempre avuto una fame latente di risposte. Più di quanto lasci credere.»

Arriviamo al museo di Cabras mentre il vento comincia ad alzarsi, sollevando piccole spirali di polvere e odore di salsedine. Skippy salta giù dal sedile e si stiracchia. Sembra tornata alla sua solita energia: ora è pronta a seguire quel filo invisibile che ci ha portati fin qui.

Alcuni oggetti non chiedono di essere spiegati. Vogliono solo essere visti da chi è pronto.

Pan’e Saba (foto e ricetta Dall-E)

Museo di Cabras

Appena scendiamo dall’auto inizia a piovigginare. Gocce leggere, quasi timide, che si posano sui vetri del museo come dita curiose. Skippy ci segue a passo svelto fino all’ingresso, annusando l’aria come se il profumo della pioggia le raccontasse qualcosa.

Il Museo ci accoglie con un silenzio composto. Ha aperto le porte da poco e sembra svegliarsi insieme a noi. Le voci basse dello staff si mescolano al rumore lieve della carta sfogliata nei cataloghi, l’odore della pietra e del legno cerato si confonde con quello dell’umidità appena entrata dall’esterno.

Alla reception una ragazza sui trent’anni ci saluta con gentilezza ma senza particolare entusiasmo. Gavina le chiede della direttrice con tono tranquillo. «Arriverà tra poco, accomodatevi pure nella sala principale» risponde la ragazza, indicando una porta alla nostra sinistra.

Così ci addentriamo tra le prime teche, ancora soli, mentre fuori le nuvole si addensano un po’ di più.

«Quando il museo fu aperto» inizia a dire Gavina con voce bassa ma piena «questa urna qui fece discutere non poco.»

Ci fermiamo davanti a una vetrina: al centro, un’urna funeraria in pietra con incisioni geometriche e un volto appena accennato. Antica, scolpita male, si direbbe… ma c’è qualcosa di inquieto in quelle linee.

«Alcuni dicevano che era una falsificazione. Troppo diversa da tutto il resto. Troppo “moderna”. Ma io mi sono sempre chiesta se fosse il contrario… se non fosse antichissima, al punto da non avere più niente in comune nemmeno con ciò che pensiamo di sapere del passato.»

Ci scambiamo uno sguardo breve. Veronika sembra incuriosita. Skippy si accoccola davanti alla teca e fissa il volto dell’urna come se volesse capirne l’umore.

Sto per fare una domanda quando sentiamo la voce della ragazza che ci aveva accolti. «Signora… ci sono delle persone che chiedono di lei.»

Gavina si gira. I suoi occhi brillano di un riflesso che non le vedevamo da tempo. Tra sguardi antichi e silenzi da decifrare.

La direttrice arriva qualche minuto dopo, avvolta in un impermeabile grigio scuro, i capelli raccolti in una coda morbida ancora umida di pioggia. Avrà poco meno di cinquant’anni, forse una ventina in meno di Gavina ma nei suoi occhi c’è lo stesso sguardo deciso di chi è cresciuto su questa terra, tra vento e pietra. Non è bella, almeno non nel senso canonico del termine, ma ha un volto sincero, un portamento gentile e un modo di guardare che non sfugge mai.

Appena la vede Gavina le va incontro con un passo incerto ma sorridente. Si ferma a pochi centimetri da lei e, per un attimo, le due donne si osservano, come a misurare il tempo che è passato. Poi, senza dire nulla, si abbracciano. Un abbraccio lungo, vero, che affonda nel passato. La direttrice chiude gli occhi per un istante, stringendola con forza.

«Quanti anni, Gavina…» sussurra, lasciando uscire le parole come un soffio.

«Troppi» risponde lei, mentre si staccano lentamente. Poi si volta verso di noi con naturalezza. «Ti presento due amici: Camillo e Veronika. Viaggiano per terra e per cielo… e oggi hanno bisogno di un po’ della tua luce.»

La direttrice annuisce cortese ma non sorride più. I suoi occhi passano su di noi con attenzione e il suo sguardo si fa più misurato, quasi protettivo. Intuisce qualcosa. Gavina lo capisce e cerca di essere delicata.

«In realtà… volevo chiederti se possiamo vedere alcuni dei manufatti che mi avevi menzionato anni fa. Quelli che…»

La donna la interrompe subito alzando appena la mano. Lo fa senza durezza ma con decisione. «Vieni. Meglio parlarne in privato.»

Si allontanano verso una saletta con pareti vetrate, lasciandoci soli tra le teche e i riflessi opachi del mattino. Da dove siamo non sentiamo nulla ma vediamo abbastanza. La direttrice gesticola, sembra agitata, a tratti infastidita. Gavina invece resta calma, in piedi, come se ogni parola fosse già stata pesata prima ancora di essere pronunciata.

«Non ci farà vedere nulla» borbotta Veronika, le braccia incrociate e lo sguardo fisso. «Ti avrò fatto perdere ancora tempo.»

«O forse sta solo cercando di capire se può fidarsi» rispondo io, lasciando il dubbio in sospeso.

Skippy emette un piccolo verso, poi si sistema contro la mia gamba e mi guarda con quell’espressione da piccola sentinella che conosce il mondo meglio di quanto sembri.

E poi succede.

Le vediamo avvicinarsi. Prima un ultimo scambio a bassa voce, poi un abbraccio stretto, più forte, più carico. Quando si staccano Gavina si volta verso di noi e sorride. È un sorriso calmo, sollevato, quasi complice. Ci fa cenno con la mano: possiamo andare.

La direttrice ci passa accanto senza dire nulla. Il suo volto è serio ma non freddo. Conduce il passo senza voltarsi lungo un corridoio laterale e ci invita a seguirla con un gesto discreto. Mentre entriamo in quella parte del museo dove i visitatori non arrivano mai, l’aria cambia.
Come se stessimo attraversando una soglia invisibile.

Ci sono incontri che non servono a ricordare il passato ma a riaccenderlo.

Urna misteriosa (foto Dall-E)

L’attesa dentro la pietra

La luce si fa più discreta e l’aria odora di umidità trattenuta da anni. Entriamo in una stanza d’archivio, ordinata ma vissuta, con scaffali metallici e casse impilate contro il muro. Una di queste, rivestita di legno chiaro, giace quasi nascosta su uno scaffale defilato.
La donna ci si avvicina e resta un attimo ferma, come se dovesse prendere fiato. La solleva, la posa su un tavolo al centro alla stanza, la osserva… Gavina si fa avanti con una lentezza quasi sacra, gli occhi lucidi e pieni di attesa. La direttrice la guarda. Le due si guardano e io noto la stessa luce nei loro occhi. La voglia di scoprire, dopo anni, se sono in grado di comprendere quello che anni fa le era sfuggito.

Poi la direttrice inserisce una chiave, ruota con calma e solleva il coperchio.
Gavina sembra sul punto di scartare un regalo che ha desiderato da tutta una vita.
All’interno, avvolta in un telo di lino spesso, c’è una lastra di pietra calcarea, lunga forse mezzo metro, scolpita in bassorilievo. La direttrice la poggia con delicatezza su un supporto imbottito.
«Questa è stata trovata vicino a Mont’e Prama, in un’area ancora poco scavata» mormora. «Non rientra nelle tipologie ufficiali. Alcuni pensano che sia un falso, altri che sia troppo frammentaria per raccontare qualcosa.»

Ci avviciniamo anche noi. La lastra raffigura quattro figure umane stilizzate, disposte in linea. Tre di loro hanno proporzioni simili, rudimentali, con teste rotonde e corpi appena abbozzati. Ma la quarta, quella in fondo, è diversa. Molto più grande. Almeno il doppio. Ha braccia più lunghe, un torso più spesso, e qualcosa che assomiglia a un elmo o una cresta sopra la testa.

«Potrebbe essere un capo tribale, un antenato divinizzato o solo un errore di scala» dice la direttrice con voce neutra. «Nessuno ha voluto rischiare un’interpretazione.»

Veronika la osserva senza parlare. Skippy, seduta sulla sua spalla, inclina la testa e, mantenendosi al collo di Veronika con una zampetta, si avvicina come se volesse capire meglio cosa stia guardando.
Io osservo la figura più grande, quella anomala. C’è qualcosa di potente, quasi disturbante, in quell’eccesso di proporzioni.

Ma non parla.

Non ci guida.

Ed è questo che mi preoccupa. Perché se anche il secondo reperto non ci dice nulla… allora forse, stavolta, non avrò nulla da offrire né a Veronika né a Skippy.

A volte il silenzio della pietra pesa più di qualunque risposta.

la cassa con i due manufatti (foto Dall-E)

Il Codice Interrotto

Veronika mi guarda con un velo di delusione negli occhi. Non dice nulla ma mi basta uno sguardo per capire.
Io, pur con il pensiero ancora annidato in fondo al petto, le sorrido lo stesso. Non è finita. Non ancora. E poi, comunque, qualche possibile riferimento ai Giganti lo abbiamo trovato.
La direttrice apre il secondo involto con un gesto lento, quasi rituale. Il lino si srotola con delicatezza, lasciando emergere una tavoletta in pietra grigia, leggermente più piccola della precedente ma densa, viva, quasi vibrante.

Scolpita su entrambi i lati con una cura minuziosa, la superficie è attraversata da simboli geometrici, archi concentrici, linee spezzate che sembrano rincorrersi, segni simili a lettere, ma che non appartengono ad alcun alfabeto conosciuto.

Non è decorazione.
È scrittura. Un codice, come lo aveva definito Gavina. Ma non uno lineare.
Questo si curva, si ripete, si mimetizza. Come se volesse essere compreso solo da chi ne conosceva la chiave.

«È molto più antico di tutto quello che abbiamo mai trovato a Mont’e Prama» mormora la direttrice, senza staccare gli occhi dalla tavoletta. «Ma nessuno è mai riuscito a leggerlo. È troppo distante da ogni logica nota. E troppo… coerente per essere un caso.»

Gavina si avvicina. Le dita tremano appena. Poi, con un gesto preciso, estrae dal suo zaino una fotografia plastificata e la appoggia accanto al reperto. È l’immagine sbiadita di un frammento inciso, più rozzo, più recente.

«Questo l’ho fotografato anni fa, in un deposito. Non sapevano cosa fosse. Ma guarda qui…» Indica un tratto in alto, dove due archi si incrociano. «È una copia. Non moderna ma realizzata in epoca punica o romana. Il tratto è meno profondo, meno fluido. Come se qualcuno avesse tentato di salvare un linguaggio perduto, imitandone la forma per impedirne l’estinzione.»

La direttrice si irrigidisce. Si china, osserva entrambi i reperti e per un lungo momento non dice nulla. Poi alza lentamente la testa e le sue labbra si muovono in un sussurro appena udibile.

«Ampsicora».
È un nome che cade nella stanza come una pietra nell’acqua ferma.
Il suo effetto è immediato.

«Da tempo» continua la direttrice, con voce più tesa «ho il sospetto che non fosse solo un ribelle. Ci sono tracce, minime, nascoste che lo collegano a un clan, a un gruppo chiuso, quasi invisibile, che agiva parallelamente ai poteri noti. Forse un ordine. Forse una confraternita. Nessuno ha mai voluto approfondire. Nessuno ha osato. E anche quando ci ho provato io ho avuto più volte la sensazione che mi fosse impedito di proposito.»

Gavina annuisce. «E se questo gruppo avesse cercato di proteggere un sapere che affondava le radici prima della conquista romana? Prima ancora dei Giganti?»

«O di tramandarlo in silenzio» aggiungo. «Anche a costo di frammentarlo.»

La direttrice si allontana un passo, come se stesse mettendo insieme un puzzle di cui aveva solo i bordi. Poi si volta lentamente verso di noi.

«Uno dei frammenti più simili a questo… fu trovato a Nora, vicino a Pula. Ma non era tra i materiali esposti. Era accanto a una struttura muraria fenicio-punica, rinvenuta sotto uno strato di sabbia compatta, dove si dice che si svolgassero riti riservati. Nessuno lo ha mai collegato a nulla. Fino ad ora.»

Skippy si stringe a Veronika. Io fisso quella tavoletta come se potesse ancora aggiungere qualcosa.

Non siamo più davanti a semplici reperti.
Siamo davanti a una catena interrotta, spezzata e poi ricostruita in segreto. E adesso una parte di quella catena sembra chiamarci da Nora.

Forse è davvero da lì che dobbiamo passare.
Forse il tempo non ha dimenticato tutto.
E forse… c’è ancora qualcuno che ricorda.

Alcuni segreti non si perdono. Si nascondono aspettando occhi pronti a leggerli.

la tavoletta con il presunto codice (foto Dall-E)

Ombre tra le Sale

La direttrice ripone con cura la tavoletta e richiude il contenitore con un gesto lento, quasi protettivo. Un vero e proprio rituale.

Nessuno parla mentre usciamo dalla stanza d’archivio. C’è una strana solennità nel nostro passo, come se stessimo portando fuori un segreto ancora caldo. Camminiamo nel museo con lentezza, seguendo il percorso che ci conduce verso la sala dove si ergono le statue dei Giganti di Mont’e Prama.

Le luci sono più intense qui, il silenzio più carico. Il rumore dei nostri passi sembra amplificarsi. «Ampsicora era un magistrato di Cornus» racconta la direttrice, la voce calma ma piena. «Un uomo colto, potente. Non un guerriero qualsiasi. La rivolta contro Roma fu studiata, non improvvisata.»

«Eppure è finita male» dice Gavina. «La battaglia persa, il figlio morto, lui che si toglie la vita. Almeno, così raccontano.»

«Ma se non fosse andata così?» chiede Veronika. «E se non fosse morto? E se lui… o chi era con lui… fosse riuscito a scappare?»

«Portando via quel sapere» aggiungo. «Un frammento. Una tavoletta. Magari delle copie, come quella che ci hai mostrato, Gavina. Qualcosa che doveva essere protetto a ogni costo.»

«Forse cercavano qualcuno in grado di custodirlo» riflette Gavina. «O un luogo. Un passaggio.»

«Ma dove?» sussurra la direttrice, più a se stessa che a noi. «Dopo una sconfitta così grande… chi li avrebbe accolti?» Camminiamo lentamente tra le vetrine, le teche laterali. Il museo sembra stringersi attorno a noi, come se stesse ascoltando.

Poi lo vedo.

Un uomo, a una decina di metri da noi. È fermo davanti a una delle vetrine ma non guarda i reperti. Guarda noi. È vestito in modo anonimo, forse un addetto alla sicurezza o qualcuno dello staff, ma qualcosa in lui stona. Forse lo sguardo, forse la postura. E… sì.

Sta ascoltando. Attento. Troppo.

Mi volto verso Veronika. «Ehi, guarda quel…» Indico la direzione con lo sguardo. Ma quando ci giriamo, non c’è più. Nessuna traccia.

Resto un istante in silenzio, cercando di capire se me lo sono solo immaginato. Poi scuoto appena la testa e torno al gruppo.

Il dialogo è ancora in corso, le ipotesi si rincorrono tra sussurri e domande. Ma qualcosa, dentro di me, ha cambiato ritmo. E quella figura sfuggita al mio sguardo ora cammina, silenziosa, nei miei pensieri.

Ci sono sguardi che non cercano oggetti. Cercano chi li guarda.

La Direttrice (foto Dall-E)

Sotto lo sguardo dei Giganti

«Aspettate…» dice Veronika, interrompendo il flusso di ipotesi. «Guardate queste statue. Non è incredibile che siano arrivate fino a noi?»
Ci giriamo. Le statue dei Giganti di Mont’e Prama si stagliano davanti a noi con la loro imponenza muta. Alcune sono intere, altre parzialmente ricostruite, ma tutte emanano la stessa, antica autorevolezza. Hanno occhi grandi, scolpiti a cerchi concentrici, e volti scolpiti con forme geometriche essenziali ma ipnotiche.

La direttrice sorride. È la prima volta che la vediamo davvero rilassata.
«Sono qui da anni e ogni volta che passo davanti a loro mi sembrano cambiate» dice. «Non solo per la luce o per l’ombra. Ma per come le guardiamo. O forse… per come ci guardano loro.»

Camminiamo lungo la fila e lei ci accompagna senza fretta. Ogni statua sembra avere un proprio linguaggio.
«Lui è un pugilatore» indica una figura con un grande scudo tondo piegato sul braccio sinistro. «Si riconosce dal guantone che indossa sull’altro braccio. E dalla posa: il busto un po’ inclinato, come se fosse pronto a colpire.»

Poi passa a un’altra. «Questo è un arciere. Lo vedete il copricapo? Probabilmente era in cuoio o in lino rinforzato. Ha ancora parte dell’arco nella mano sinistra. Ed è uno dei pochi con i piedi ben piantati al suolo. Come se stesse proteggendo qualcosa.»

Ci fermiamo davanti a una statua diversa dalle altre, più slanciata, con uno scudo squadrato e una veste accennata.
«E questo è un guerriero. Alcuni pensano che rappresentassero degli eroi. Altri che fossero divinità. Ma la teoria più affascinante, secondo me, è che fossero… antenati. Figure reali, idealizzate, rese immortali nella pietra per vegliare sulle tombe.»

Mi avvicino, osservando la scala.
«Ma… se erano raffigurati così… è vero che le statue erano a grandezza naturale? Parliamo di… tre metri?»
La direttrice annuisce. «Alcune erano alte anche più di due metri e mezzo, forse tre. Considerando la testa, la base, e le armi che tenevano, sì… potrebbero aver raggiunto quella misura. E questo ha alimentato l’idea che non fossero solo ritratti ma rappresentazioni di veri e propri… Giganti. Soprattutto per l’epoca.»

«Il mistero è che non esiste nulla di simile in Europa, in quel periodo» continua la direttrice. «Erano scolpite a tutto tondo, in un’epoca in cui si lavorava la pietra solo in rilievo. È come se qualcuno sapesse già cosa sarebbe venuto dopo. Ma in anticipo di secoli.»

«E allora chi le ha fatte?» chiedo. «E perché proprio lì, a Mont’e Prama
«Forse un centro spirituale. Forse una necropoli. O forse… il punto d’incontro tra la memoria e la paura. Metterle lì significava custodire qualcosa. O avvisare qualcuno.»

Le statue ci osservano in silenzio.
E in quello sguardo di pietra, scolpito tremila anni fa, sento qualcosa che non riesco a spiegare.
Una promessa.
O un avvertimento.

Alcune statue non celebrano. Vegliano.

Giganti di Mont’e Prama (foto monteprama.it)

Voci che restano

Quando ci allontaniamo dalle statue la conversazione rallenta fino a fermarsi del tutto. Restiamo in silenzio qualche istante, come se avessimo bisogno di uscire lentamente da quel tempo antico.
Poi la direttrice si ferma. Si gira verso Gavina e le prende le mani con entrambe le sue.

«Tu non vai da nessuna parte» le dice con un tono che non ammette repliche ma che trasuda affetto. «Non ci devi nemmeno pensare. Ora che ti ho ritrovata, ho intenzione di tenerti qui almeno qualche giorno. Voglio parlarti di tutto. Voglio ascoltarti. E… be’, il museo è grande. E casa mia ha ancora una stanza libera.»

Gavina accenna un sorriso, poi ci guarda. «Per voi… va bene?»

«Certo che va bene» rispondo subito. «Ti terremo aggiornata. Promesso. Ti diremo tutto quello che troveremo a Nora».

Skippy si avvicina a Gavina e la abbraccia, stringendole le braccia con delicatezza. Lei si intenerisce, le accarezza il capo e si guarda intorno. Raggiunge il bancone dei souvenir e prende una piccola riproduzione in pietra del volto di un Gigante, con una lieve scheggiatura su un lato. Guarda la direttrice che annuisce senza dire nulla.

«È un po’ storto» dice Gavina sorridendo, porgendoglielo. «Ma ha qualcosa che somiglia al tuo sguardo.»

Skippy lo prende con una cura commovente, lo osserva in silenzio e poi la abbraccia di nuovo, più forte. C’è dolcezza e una gratitudine che non ha bisogno di parole.

La direttrice si volta verso di noi. «Quando sarete là, andate al Centro di documentazione archeologica di Nora. È piccolo ma conserva reperti che non sono visibili sul sito. Chiedete del professor Lissia. È in pensione da anni ma vive praticamente tra quelle sale. Non so se sarà facile trovarlo ma se c’è qualcuno di cui mi fido… è lui.»

«È esperto di questo codice?»

«Ha visto più reperti di quanti ne possiate immaginare. E soprattutto… conosce Ampsicora. Lo ha studiato, inseguito, ricostruito a modo suo. Se c’è una mente capace di mettere ordine tra le tracce è la sua.»

Ci salutiamo davanti all’uscita del museo. La luce è cambiata, la pioggia ha lasciato un’aria pulita e frizzante. Gavina ci abbraccia, un abbraccio lungo e silenzioso. La direttrice ci stringe la mano con calore e un rispetto nuovo negli occhi.
Poi usciamo.
E dietro di noi, le statue tornano al loro silenzio.
Ma ora so che ci stanno seguendo. Anche loro.

Il viaggio verso Oristano scorre in silenzio. Ognuno di noi è immerso nei propri pensieri, come se tutto quello che abbiamo visto, sentito e toccato oggi avesse bisogno di tempo per sedimentare. Il cielo si è rasserenato ma nell’abitacolo resta una tensione lieve, fatta di domande non dette e intuizioni che cominciano appena a prendere forma.

Ci sono incontri che vanno custoditi. Come i reperti più fragili.

Souvenir di Skippy (foto Dall-E)

Verso sud

Arriviamo in città poco prima di pranzo, quando le prime ombre iniziano ad accorciarsi e il centro si riempie dell’odore di pane caldo e carne arrosto. Troviamo una piccola trattoria nascosta tra le vie del centro storico, una di quelle con i tavoli in legno grezzo e il profumo di cucina vera che ti accoglie ancor prima di sederti.

Ordiniamo piatti della zona: un piatto abbondante di porceddu arrosto, il maialetto da latte sardo cotto lentamente allo spiedo su legna di mirto e lentisco, dalla carne tenera e profumata e la crosta croccante che scricchiola sotto i denti. Lo servono su un letto di rami aromatici, ancora caldo, con accanto patate dorate e pane carasau. Poi una bottiglia di rosso sardo, corposo, che sa di terra e vento.

Durante il pranzo, le parole tornano a fluire. Parliamo a bassa voce di ciò che abbiamo scoperto, di Nora, del professor Lissia, di quella tavoletta e del codice spezzato.

Ogni tanto ci fermiamo. Per mangiare, per pensare. Per osservare Skippy che affronta il suo porceddu con un rispetto quasi cerimoniale… salvo poi divorarlo con un entusiasmo che fa voltare un paio di tavoli vicini. Alla fine, si lecca le zampette come se avesse appena firmato un trattato di pace col popolo sardo.

«Ok, finito di mangiare partiamo» dice Veronika con gli occhi già rivolti al sud. «E niente deviazioni stavolta. Dritti a Nora.»

«Un attimo…» rispondo sorridendo. «Che ne dici se partiamo nel tardo pomeriggio? E poi c’è un tratto di costa che voglio sorvolare. Merita.»

Lei mi guarda, un po’ contrariata, un po’ divertita. «Un compromesso?»

«Un compromesso» confermo. «Come sempre. Tu insegui la storia, io inseguo la bellezza. E a volte, si incontrano.»

Skippy approva sollevando il cucchiaio verso di me, come a dire “ha ragione lui”. Anche lei ama volare. E lo sa bene.

Usciamo che il sole è ancora alto. L’aria profuma di terra bagnata e legna accesa, anche in pieno giorno.
Camminiamo tra le strade di Oristano, le parole che si diradano, sostituite dal rumore dei nostri passi.

Tra poco saremo nuovamente in volo.
Ma la vera avventura sarà quello che ci aspetta a terra.
E se davvero c’è ancora qualcosa da trovare…
questo Professore sarà disposto a farcelo scoprire?

Ci sono storie che aspettano in cielo. Ma il cuore le trova camminando.

Porceddu Arrosto (foto Dall-E=

13 – Diario di Volo Alghero Oristano

Risveglio difficile

La casa di Gavina è immersa nel silenzio. Fuori la notte sta cedendo lentamente al primo chiarore dell’alba ma dentro le stanze tutto è ancora fermo, quasi sospeso nel tepore del sonno.

Ci muoviamo con discrezione, cercando di non fare troppo rumore mentre raccogliamo le nostre cose e beviamo al volo un caffè. Il tempo è prezioso: dobbiamo decollare presto per raggiungere il museo a Oristano in mattinata e avere tempo per approfondire ogni dettaglio.

Solo una di noi non sembra avere alcuna intenzione di alzarsi. Skippy, la nostra piccola fennec, è completamente abbandonata su un cuscino, le zampe allungate, le orecchie rilassate.

E russa. Forte.

Veronika si avvicina e la osserva con un sorriso divertito. «Povera piccolina, l’ho vista girarsi e rigirarsi nel sonno queste ultime notti. Aveva sicuramente bisogno di recuperare.»

Gavina suggerisce una soluzione: «Lasciatela dormire, la portiamo così com’è.»

E così, con la delicatezza di chi trasporta un vaso antico, adagiamo Skippy nello zaino di Veronika, lasciandole la testolina fuori come fa di solito quando non vuole camminare. Il tutto mentre lei continua a russare beata, del tutto ignara della missione di recupero che ha richiesto tre adulti.

Anche chi viaggia tra cielo e storia ha bisogno di dormire come un cucciolo che si finge eroe.

preparativi pre volo (foto flight simulator 2024)

Preparativi prima del volo

Il piccolo aeroporto di Alghero è tranquillo a quest’ora del mattino. L’aria è ancora fresca e il cielo si tinge di sfumature rosa e arancioni mentre ci avviciniamo al nostro Cessna parcheggiato ordinatamente nella piazzola in cui l’avevamo lasciato.

Mentre io effettuo i controlli pre-volo, Veronika si occupa di rimuovere le protezioni del velivolo, spiegando ogni passaggio a Gavina che la osserva con curiosità.

«Questa è la copertura del pitot» indica, sollevando il piccolo tappo rosso attaccato a un nastrino con la scritta “remove before flight” che pende dall’ala sinistra. «Serve a proteggere il tubo di Pitot, quello che ci fornisce la velocità dell’aria. Se ci entra sporco o insetti, potrebbe dare letture sbagliate e non è il massimo quando sei in volo.»

«Ah!» esclama Gavina, visibilmente interessata. «Quindi è una protezione per gli strumenti?»

«Esatto» annuisce Veronika, mentre si sposta verso il carrello anteriore. «E questi invece sono i blocchi delle ruote, i cunei. Servono per tenere fermo l’aereo quando è parcheggiato, soprattutto se c’è vento.» Si ferma un attimo, poi ridacchia. «Di solito se ne occupa Skippy ma credo che oggi tocchi a me.»

Quando passano accanto al finestrino posteriore, sentono un suono familiare. Skippy sta ancora russando. «Si sveglierà quando accenderemo il motore.» dice Veronika scherzando.

Gavina ride a sua volta e scuote il capo. «Sembra proprio che si fidi completamente di voi.»

«O che sia completamente distrutta» aggiunge Veronika con un sorriso mentre ripiega le coperture del motore.

Tutto è pronto. Salgo a bordo, accendo la strumentazione e faccio scorrere le ultime checklist.
Il sole si è ormai alzato sopra l’orizzonte, illuminando la pista con una luce dorata. È ora di partire.

Ogni volo inizia con piccoli rituali, sorrisi, complicità e tecnica.

decollo da Alghero (foto flight simulator 2024)

Primo volo su un Cessna

Il motore del Cessna 172 prende vita con il suo ruggito familiare, oggi gareggia col russare di Skippy. Un suono rassicurante per noi ma probabilmente non per Gavina. La nostra passeggera cerca di apparire composta ma il suo sguardo tradisce l’emozione. Le mani stringono con discrezione le ginocchia mentre gli occhi guizzano rapidi tra il cruscotto e l’orizzonte oltre il parabrezza.

«E quindi… ehm… com’è che si fa a sapere se… insomma, se tutto è pronto per decollare?» chiede, cercando di mascherare la sua agitazione con un tono curioso.

Sorrido mentre completo gli ultimi controlli, scorrendo con lo sguardo gli strumenti di bordo. «Abbiamo già verificato tutto. Ora aspettiamo l’autorizzazione e poi ci allineiamo in pista.»

Gavina annuisce ma l’espressione sul suo viso suggerisce che sta elaborando una valanga di domande.

«E… il vento? Cioè, cambia qualcosa se c’è vento?»

«Sì, certo» risponde Veronika cercando di avere un tono rassicurante. «Decolliamo sempre controvento per avere più portanza sulle ali. In pratica ci aiuta a staccarci prima da terra.»

Gavina annuisce di nuovo, come se fosse perfettamente chiaro, ma dopo un secondo: «E il motore? Dico, se per caso… cioè, se ci fosse un problema, si spegne?»

Trattengo una risata. «No, Gavina, non si spegne. E comunque abbiamo procedure di sicurezza per ogni evenienza.»

Non sembra completamente convinta ma si sforza di sorridere anche lei. Respira profondamente, guardando fuori dal finestrino mentre rulliamo verso la testata della pista. Il Cessna vibra leggermente sotto di noi, la fusoliera riflette la luce dorata del mattino e l’orizzonte davanti sembra infinito.

Quando riceviamo l’autorizzazione al decollo, mi giro verso di lei. «Pronta?»

«Prontissima» risponde in un tono un po’ troppo deciso, come se volesse convincere più se stessa che noi.

Spingo gradualmente la manetta in avanti. Il rombo del motore cresce, la pista scorre veloce sotto di noi e in pochi secondi sentiamo il momento esatto in cui le ruote smettono di toccare terra.

Gavina trattiene il fiato e, solo quando il Cessna si stabilizza in aria, osa guardare di sotto. Il paesaggio si spalanca sotto di noi: la costa nord-occidentale della Sardegna si stende come un quadro in movimento, le onde lambiscono la riva e le colline si illuminano sotto il primo sole.

«Oh…» sussurra. Poi si copre la bocca, come se avesse appena rivelato un segreto.

Veronika sorride. «Tutto bene?»

Gavina annuisce lentamente. La tensione nelle sue spalle si scioglie un po’. «Sì. È… incredibile.»

«Già» rispondo, sorridendo. «E abbiamo appena iniziato.»

Da dietro un suono ovattato ci distrae un attimo. Skippy, ancora nello zaino di Veronika, emette un piccolo mugolio nel sonno e si gira leggermente. Non ha neanche sentito il decollo.

«Direi che qualcuno è il passeggero più rilassato di tutti» commenta Veronika ridendo.

Gavina sorride, stavolta senza più tensione. Il cielo è aperto davanti a noi e il nostro viaggio tra le pietre della storia è ufficialmente iniziato.

Le emozioni non si mascherano tra le nuvole e il primo decollo non si dimentica mai.

Gavina in cabina per il suo primo volo su un Cessna (foto flight simulator 2024)

Voci di pietra

Appena lasciata Alghero saliamo dolcemente di quota puntando a sud-est.

La luce del mattino accarezza le colline e rivela, poco sotto di noi, una muraglia ciclopica che si snoda sul pianoro.

«Eccolo lì… Monte Baranta» sussurra Gavina, come se stesse salutando un vecchio amico. Si sporge leggermente per osservare meglio, gli occhi che brillano nonostante l’altitudine. «Ci ho passato mesi lassù. È uno dei siti prenuragici più affascinanti di tutta l’isola. Vedi quella linea spezzata? Quella è la muraglia megalitica. Alta cinque metri, costruita tremila anni prima di Cristo. Non c’era niente di simile nel Mediterraneo occidentale a quel tempo. Niente.»

Rallento leggermente per darle tempo di raccontare.

«Era una fortezza, sì, ma anche un luogo sacro. C’era una piattaforma cerimoniale, un menhir enorme, non lo issarono mai, lo lasciarono lì, abbattuto. Chissà perché. Forse fu un segno. Forse qualcosa li spinse ad abbandonare tutto. A volte penso che certe pietre custodiscano più domande che risposte.»

Ci guardiamo in silenzio mentre sorvoliamo il sito. In basso la muraglia sembra un’ombra che resiste al tempo, un graffio inciso nel verde della macchia.

«I nuraghi non erano ancora nati» aggiunge, con voce più bassa. «Eppure qui c’erano già uomini che costruivano con intelligenza, che difendevano, pregavano, vivevano. È da lì che inizia tutto.»

Viro verso sud seguendo il profilo morbido delle colline. Alle mie spalle la voce di Gavina riprende a fluire, profonda e viva, come un racconto che non vuole più restare in silenzio.

Sorvoliamo Santu Pedru ma è come se sorvolassimo anche i suoi ricordi, la sua terra, la sua vita passata tra studi, scavi e meraviglia.

«Quelle sono le Domus de Janas, le case delle fate» dice, indicando con un cenno le aperture regolari visibili dall’alto. «Scavate a mano nel Neolitico. Le usavano per seppellire i defunti ma anche per comunicare con l’aldilà. Ogni tomba era scolpita come una casa: con travi finte, porte chiuse, stanze interne… era il modo per accompagnare i morti in un altro tipo di vita, non per lasciarli andare.»

Veronika si gira appena, catturata.

«Le decoravano con ocra rossa, simbolo di sangue, di rinascita. Alcune hanno corna di toro incise alle pareti: un richiamo alla fertilità, alla forza… ma anche alla morte, che faceva parte del ciclo.»

«Quindi erano più che tombe» commento, lasciando che l’aereo scivoli dolcemente lungo la curva.

«Molto di più» conferma Gavina. «Erano il grembo della Terra. Ci si tornava per celebrare i riti, per chiedere protezione. Non si seppelliva e basta… si restava in relazione con i propri antenati.» Poi si fa silenziosa per un istante ma continua a fissare le rocce rosse laggiù. «Quella trachite ha visto passare migliaia di anni. E ancora ci parla, se sappiamo ascoltare.»

Le pietre parlano, se le sorvoli col cuore aperto e chi ti guida ha la voce dell’esperienza.

Alghero in lontananza con Capo Caccia illuminato (foto flight simulator 2024)

Ombre antiche

La vegetazione si fa più rada e il paesaggio si apre a campi e rocce affioranti. La tomba dei giganti di Laccaneddu appare come un allineamento discreto ma solenne, appena visibile dall’alto, nascosta tra cespugli e pietre silenziose.

«Questa» dice Gavina «è una delle tombe più antiche che ho avuto la fortuna di studiare da vicino. È lì che ho iniziato a capire che “giganti” non era solo una leggenda… ma neppure solo un nome.»

Veronika si volta verso di lei, incuriosita. «C’erano ossa fuori misura?»

Gavina sorride ma non si lascia ingannare dalla semplicità della domanda. «No. Nessun ossa enormi, niente scheletri di tre metri. Almeno, non nei contesti ufficiali, nei registri archeologici. Però…» Fa una breve pausa, lo sguardo perso oltre il finestrino. «Però ci sono storie. Racconti tramandati a voce, contadini che giurano di aver visto resti fuori scala, tombe chiuse in fretta o pietre che non si dovevano toccare. E poi ci sono le steli monumentali, le camere più grandi del necessario, le forme insolite. Qualcosa resta, anche se sfugge alla scienza.»

Ci guardiamo in silenzio mentre l’aereo procede sopra il sito.

«Il nome “tomba dei giganti” è moderno, sì. Popolare ma il fascino che suscitano… quello è reale. Nessuno che ci sia passato accanto è riuscito a ignorarle. E se i giganti non erano di carne, forse erano di memoria. O di conoscenza. O erano un’eco di un popolo ancora più antico, che la civiltà nuragica ha raccolto, custodito e trasformato.»

Il Cessna prosegue tranquillo, accarezzando l’aria.

Gavina accenna a un altro sito, più avanti. «E lì, poco oltre… c’è Puttu Codinu, un’altra necropoli.»

Rimango un attimo in silenzio, poi chiedo: «Ma queste necropoli… hanno davvero un legame con le leggende? Con le fate, con i giganti? Oppure è solo fantasia?»

Gavina annuisce lentamente, come se avesse atteso quella domanda. «Le necropoli come questa non erano semplici cimiteri. Erano santuari. Spazi di passaggio e di contatto. Le camere sono scavate come case: travi scolpite, tetti a spiovente, nicchie. È come se volessero offrire al defunto una dimora vera, scolpita nella roccia per resistere all’eternità.»

Annuisco, osservando il paesaggio sotto di noi modellato da mani millenarie con rispetto e fede.

«E poi i simboli…» continua lei. «Le protomi taurine, i menhir piantati all’esterno, le tracce di ocra. Ogni elemento era un messaggio. Solo che oggi non abbiamo più il codice per decifrarlo fino in fondo. A volte penso che la vera eredità sia proprio questa: il diritto di continuare a cercare. Forse è per questo che ero così determinata a seguire la traccia che ora state seguendo anche voi.»

Per un istante, nessuno parla. Sorvoliamo la necropoli in silenzio, con la sensazione che, laggiù, qualcosa stia ancora aspettando.

E se davvero alcune verità fossero state affidate alla pietra in attesa che qualcuno le riconoscesse?

Lo penso senza dirlo mentre davanti a noi il paesaggio continua a scorrere, lento e immobile al tempo stesso.

Non sempre i giganti sono di carne. A volte abitano nella memoria o nelle domande che restano.

il Golfo di Oristano con la sua laguna (foto flight simulator 2024)

Scosse leggere

Sorvoliamo le ultime pieghe della collina, mentre Gavina indica con lo sguardo un piccolo corso d’acqua che brilla tra gli ulivi.

«Quello è il Rio Trogos. E proprio lì, un po’ più a monte, ci sono alcuni enormi blocchi disposti in modo regolare. C’è chi lo chiama il ponte nuragico

«Un ponte?» chiedo, incuriosito. «Riuscivano davvero a spostare massi così grandi, già allora?»

Gavina sorride «Non lo sappiamo con certezza. Ma è questo il bello: anche quando le risposte sembrano semplici la terra resta più antica delle nostre certezze. Se davvero quei blocchi sono stati posizionati tremila anni fa… vuol dire che sapevano muovere la pietra come nessun altro.»

Veronika si volta con un mezzo sorriso. «O magari… sono stati i giganti

Gavina si lascia andare a una breve risata, poi risponde senza ironia: «Potrebbe anche essere. Ma servirebbero ulteriori prove, non bastano le leggende. Anche se certe storie, a forza di tramandarle, finiscono per depositarsi sulla verità come la polvere su una stele: invisibili ma presenti.»

L’aereo prosegue tranquillo e davanti a noi si apre la piana di Ollastra, punteggiata di campi e antichi muretti. Gavina indica un rilievo tondeggiante appena oltre una macchia di vegetazione.

«Là c’è la tomba dei giganti di Pranu Ardu. Era una delle più grandi della regione. Oggi resta poco: la stele è crollata, la struttura è in parte sepolta, ma intorno a quel sito… ho sempre sentito un’energia divers… »

Si interrompe di colpo.

«Aaaaaaah!» esclama, scattando di lato e sbattendo contro il finestrino sinistro. Il Cessna si inclina bruscamente verso sinistra, quanto basta per farci perdere l’equilibrio per un istante.

«Gavina?!» chiedo, voltandomi di scatto.

La scena che vediamo ci spiega tutto: Skippy, appena sveglia, ha allungato una zampina sul fianco di Gavina che, dimenticandosi completamente della sua presenza, ha sobbalzato di riflesso, sbattendo contro la fusoliera.

Veronika scoppia a ridere. «Ah, buongiorno principessa!»

Skippy la guarda confusa, guarda Gavina, guarda me… poi sbadiglia vistosamente, le orecchie un po’ piegate. Si sistema sul sedile, ancora in bilico tra sogno e realtà.

Gavina si rimette a posto con una risata trattenuta. «Scusate. Mi ha preso alla sprovvista. Giuro che me ne ero dimenticata!»

«Tranquilla, anche i ricercatori ogni tanto rimuovono i dettagli importanti» scherzo, riportando l’aereo in assetto.

Le risate riempiono la cabina per un momento. La tensione è svanita, sostituita da quella leggerezza che solo certi attimi condivisi in volo sanno creare. Davanti a noi la pianura si allunga verso sud. Oristano si avvicina.

Quando la scienza dimentica una zampa, ci pensa Skippy a ricordarle che siamo vivi.

Sorvolo dell’aeroporto di Oristano (foto flight simulator 2024)

Coordinate interiori

Poco dopo appaiono i primi tetti di Oristano, bassi, compatti, stretti tra terra e cielo.

«Una città che non ama mettersi in mostra» commenta Gavina, indicando la trama di strade e piazze laggiù. «Ma chi la conosce sa che custodisce più storia di quanto sembri. Le sue origini sono giudicali, medievali. Ma c’è molto di più, se si guarda con attenzione.»

Sorvoliamo il centro storico, la torre di Mariano, il profilo della cattedrale e il disegno chiuso dei quartieri antichi.

«Sai che qui si dice che il vento non cambi solo il tempo ma anche l’umore delle persone?» continua lei, sorridendo. «Lo chiamano il maestrale della memoria. Qualcosa che scuote ma non porta mai via davvero nulla.»

Sul sedile posteriore Skippy si stira lentamente, si strofina gli occhi con le zampine e guarda fuori, ancora mezza persa.

Mi preparo all’atterraggio. Comincio la discesa verso Oristano-Fenosu. Tutto è stabile, i flap sono giù, la velocità perfetta. Poi, nel silenzio teso e concentrato dell’ultimo tratto si sente un suono basso, lungo…

Brrrrrooomp.

Non è il motore. È la pancia di Skippy. Scoppio a ridere. «Credo dovremmo fermarci urgentemente a fare colazione.»

La cabina esplode in una risata. Anche Gavina, vistosamente tesa durante l’atterraggio, ora si lascia andare.

Con un tocco leggero poso le ruote sulla pista. Il rumore del contatto con terra è lieve, come se il Cessna stesso stesse cercando di non disturbare l’attesa. Gavina si slaccia la cintura e si sporge leggermente in avanti. «È stato bellissimo volare con voi ragazzi. Grazie davvero per questa esperienza nuova per me. Ora vediamo se la mia vecchia collega si ricorda ancora di me… e soprattutto se vorrà davvero parlare e aiutarci.»

Mi giro verso di lei.

Gavina sorride ma nei suoi occhi si accende un lampo più serio, quasi impercettibile.

Un pensiero mi attraversa la mente, rapido come una turbolenza improvvisa: E se questa sua collega non volesse davvero aiutarci?

C’è un momento, tra l’ultimo flap e l’atterraggio, in cui anche la pancia racconta la verità.

Oristano durante la discesa vista dalla cabina (foto flight simulator 2024)

12 – Diario di Viaggio Alghero

Alghero

La pioggia ci accoglie appena entriamo in città. Non è un acquazzone violento ma di quelli sottili, insistenti, che si infilano ovunque e ti obbligano ad abbassare lo sguardo, quasi a invitarti a camminare in silenzio.

Alghero ci appare sfocata, con i vicoli lucidi e le pietre che riflettono i lampioni come specchi opachi. I tetti rossi sembrano più scuri del solito, quasi bagnati anche nei ricordi e il cielo plumbeo, pesante, schiaccia ogni pensiero verso il basso.

Veronika cammina al mio fianco in silenzio. Skippy ci segue senza fiatare, lo sguardo fisso in avanti, le orecchie appena abbassate. Nessuno dei due ha fame, lo capisco dal modo in cui guardano o meglio, evitano le vetrine delle panetterie e i profumi che provano comunque a farsi strada tra le gocce.
«Prendiamoci almeno qualcosa di caldo» propongo, cercando di mantenere un tono più leggero, anche se lo sento forzato persino a me stesso.

Ci infiliamo sotto una piccola tettoia accanto a un forno che profuma di focaccia e cipolla, dove il calore si appiccica ai vetri appannati. Ordino qualcosa in fretta, senza nemmeno leggere tutto il menù, mentre loro si limitano a stringersi nel cappuccio.

Mangio io per tutti o almeno ci provo. Il boccone ha il sapore di una tregua ma solo a metà. L’aria resta sospesa, gonfia di aspettative e timori. È la stessa tensione che ci accompagna da ieri. Quella paura sottile che tutto possa ridursi a una suggestione, a un altro indizio che non porta da nessuna parte.

«Stai bene?» le chiedo a bassa voce, mentre appoggio il bicchiere ancora mezzo pieno su un barile usato come tavolino.

Lei annuisce ma non mi guarda. Poi si aggiusta la sciarpa e rompe il silenzio.
«È che… non so. Più ci avviciniamo a questa storia, più ho paura che si dissolva come nebbia. Ho bisogno che ci sia qualcosa, Camillo. Qualcosa di vero.»

Annuisco, anche se dentro di me il dubbio è lo stesso. È difficile ammetterlo ma la linea tra intuizione e illusione diventa ogni giorno più sottile.

«Anche se ci fosse solo una traccia, una persona che ha visto qualcosa, sarebbe già un passo avanti» dico. «Non abbiamo bisogno di risposte oggi. Solo di un segno.»

Veronika inspira profondamente e finalmente mi guarda. Nei suoi occhi vedo lo stesso miscuglio di paura e speranza che sento dentro di me.

Sotto i nostri piedi l’acciottolato bagnato ci riflette come ombre spezzate. Un bambino corre tra i vicoli ridendo sotto la pioggia, come se il mondo fuori fosse solo un dettaglio. E per un attimo penso a quanto sia diverso il nostro sguardo da quello dei bambini. Quanto il desiderio di capire possa diventare un peso.
Poi alzo gli occhi verso il cuore del centro storico, dove le case antiche si stringono l’una all’altra come a proteggersi dal vento. I balconi in ferro battuto, le persiane socchiuse, le tende leggere che danzano appena.

Alghero ci osserva. E oggi sembra volerci mettere alla prova.

A volte non cerchiamo risposte ma solo un segno che ci dica che non stiamo sbagliando strada.

Alghero Centro dall’alto (foto di torredelporticciolo.it)

Nel salotto del passato

La pioggia ci accompagna fino al portone di legno segnato dal tempo ma curato con attenzione. Ai lati, due piante in vaso. Il campanello antico risuona con un “drinn” secco, come quelli di un altro secolo. Poco dopo la porta si apre lentamente.

Gavina è lì, in piedi davanti a noi. Indossa un maglione in lana grezza e ha una sciarpa chiara poggiata sulle spalle. L’aspetto è semplice ma dignitoso. Gli occhi, più di ogni altra cosa, raccontano una vita passata a osservare e a studiare. Ci accoglie con un mezzo sorriso, quasi sorpresa dalla nostra puntualità.

«Entrate, per favore. Ho messo su qualcosa di caldo. Anche se oggi… ci vorrebbe il sole più del tè.»

L’appartamento è al primo piano, in una via tranquilla del centro storico. Odora di carta antica, di cera e di lavanda. Le pareti sono tappezzate di libri, fotografie in bianco e nero, e scaffali colmi di oggetti, molti dei quali probabilmente raccolti in anni di ricerche. Non è una casa… è un archivio che respira.

Skippy si ferma incantata davanti a una mensola ricolma di statuette e piccoli frammenti catalogati. Muove la testa a scatti, poi si siede composta accanto alla poltrona, con l’aria di chi ha capito che qui dentro c’è qualcosa di importante. Qualcosa di importante anche per lei, ora.

Dopo pochi convenevoli è Veronika a prendere la parola. Le mani intrecciate, lo sguardo fisso su Gavina.

«Abbiamo trovato un frammento di stoffa a Bonifacio, per caso» racconta. «Era nascosto in un vecchio manufatto con un doppio fondo, in un antiquario del borgo vecchio. A prima vista sembrava solo un tessuto antico ma aveva inciso sopra un simbolo… molto particolare.»

Fa una breve pausa, poi aggiunge:

«E se lo si guarda in controluce… compare una scritta. È in una lingua mista, forse antica. Dice: “…su tempus… nos eramus… su tempus… torneremos…”.»

Le sue parole restano sospese nell’aria per un istante, dense di significato.

«Non sappiamo cosa voglia dire con esattezza» continua. «Ma sembra qualcosa come: nel tempo eravamo, nel tempo torneremo. L’ho vista per caso. Solo alla luce giusta si riesce a leggere.»

Gavina solleva appena le sopracciglia ma non dice nulla. Segno di chi sa ascoltare prima di parlare. Veronika prosegue.

«Ho fatto delle ricerche online e ho trovato qualcosa di simile a Lu Brandali. Ci ha fatto pensare ai Giganti di Mont’e Prama o a qualcosa legato a loro. Ma poi, quando siamo arrivati lì… nulla combaciava. È stato un po’ scoraggiante. Ed è lì che un collega del sito ci ha parlato di lei. Ci ha detto che anni fa aveva condotto ricerche simili.»

Gavina resta in silenzio per un attimo, poi si alza. Skippy la segue con lo sguardo mentre cammina fino a una piccola scrivania e apre un cassetto. Torna con una cartellina consumata dal tempo e si siede con lentezza. Quando inizia a parlare, la voce è calma ma porta con sé un peso silenzioso.

«Non siete i primi a seguire una traccia che sembra dissolversi all’improvviso. E non sarete gli ultimi. Ma vi dirò qualcosa… anch’io, tanti anni fa, mi sono trovata nello stesso punto. Stessa tensione, la stessa sensazione di essere a un passo da qualcosa… eppure continuamente spinta via.»

Apre la cartellina e ci mostra una vecchia fotografia: una pietra incisa, i simboli appena visibili, scolpiti con precisione incerta.

«Questa l’ho trovata vicino a Paulilatino, in un deposito mai catalogato ufficialmente. Doveva essere trasportata a Cagliari per essere studiata ma… sparì. Come tante altre cose.»

Abbassa lo sguardo per un momento, come se stesse rivedendo tutto con gli occhi della memoria.

«Ogni volta che facevo una domanda i colleghi mi guardavano storto. I fondi sparivano. Le collaborazioni si interrompevano. Una volta, un progetto che avevamo costruito per anni venne bloccato senza spiegazioni. E sai cosa mi dissero? “Forse è meglio concentrarsi su argomenti meno… speculativi.”»

Accende una lampada da tavolo e la luce calda si posa sulle sue mani.

«Speculativi… come se la storia potesse essere solo quella già scritta.»

Veronika la ascolta in silenzio. Io incrocio le braccia, sentendo in quelle parole qualcosa di familiare. Quel senso di ostacolo sottile, mai dichiarato apertamente, ma sempre presente.

«Non ho mai avuto la certezza che ci fosse una volontà precisa dietro tutto questo. Ma troppe volte, proprio quando stavo per fare un passo avanti, accadeva qualcosa che mi riportava indietro. Come se qualcuno o qualcosa volesse che certi dettagli restassero sepolti.»

Skippy alza un orecchio, incuriosita. Gavina la nota e sorride.

«Tu lo capisci, vero, piccola? Anche gli animali sentono quando il silenzio pesa più del rumore.»

Poi si volta verso di noi.

«Fatemi vedere questa stoffa.»

Veronika apre lo zaino con attenzione e le porge il frammento. Gavina lo prende tra le mani, lo osserva per lunghi istanti, lo inclina verso la finestra per vedere meglio le scritte in controluce. Poi annuisce, come se avesse ritrovato un vecchio amico.

«È bisso marino» dice a voce bassa, quasi con rispetto.

«Cosa?» chiedo, sorpreso.

Lei non risponde subito. Continua a fissare il tessuto, poi inizia a spiegare con calma, quasi parlasse a sé stessa.

«È fatto con i filamenti di un mollusco… la pinna nobilis, una grande conchiglia che viveva nei fondali sabbiosi del Mar Mediterraneo. Pochissimi sapevano farlo.»

«Con… un mollusco?» chiedo, ancora più sorpreso.

Ma lei non mi risponde. Troppo intenta ormai a valutare quella stoffa, come se cercasse qualcosa che non ci aveva ancora detto. Alza lo sguardo e i suoi occhi brillano appena, non per l’emozione ma per la concentrazione. Poi, senza preavviso, cambia tono.

«Venite. C’è qualcosa che voglio mostrarvi.»

Ci sono storie che restano nascoste finché qualcuno non osa chiederle.

Gavina (foto Leonardo.ai)

Tracce nascoste

Ci guida in una stanza più piccola, forse il suo studio. Alle pareti mappe antiche appese con puntine d’ottone e una serie di fotografie in bianco e nero, alcune ingiallite, altre recenti. Un piccolo scrittoio è ricoperto di carte, taccuini, vecchie schede manoscritte.

Apre con cautela un cassetto e ne estrae una scatola piatta, di cartone spesso, consumata ai bordi. Ne tira fuori alcune fotocopie, poi qualche ritaglio di giornale e infine una serie di lucidi trasparenti con tracciati di simboli a confronto.

«Negli anni ho raccolto più di quanto riuscissi a spiegare. Simboli, incisioni, frammenti. Molti erano stati archiviati male, dimenticati o etichettati come “decorazioni rituali di epoca imprecisata”. Ma alcuni… alcuni erano troppo simili tra loro per essere solo decorazioni.»

Sfoglia i lucidi, li sovrappone, li confronta con gesti metodici.

«Guardate questo» dice, mostrandoci un disegno tratto da una stele vicino a Tharros. «E ora questo». lo sovrappone a un altro simbolo inciso su un piccolo oggetto rinvenuto a Ittiri, nella Sardegna nord-occidentale.
«Non identici. Ma… coerenti. Come se parlassero una stessa lingua dimenticata.»

Veronika si avvicina, attratta come da un magnete. Io osservo in silenzio, lasciando che siano loro due a connettere i fili.

«Tra le annotazioni più strane ce n’era una che tornava spesso. Una definizione vaga, sempre scritta in margine: “Il gran maestro” oppure semplicemente “Amsk’r”. Una forma corrotta, incompleta, che nessuno sembrava più in grado di decifrare.»

Gavina apre un quaderno logoro, scritto a mano, fitte annotazioni in corsivo elegante.

«Questo me lo passò un collega di Cagliari. Disse che era una raccolta di appunti su simboli non classificati. Ma guardate qui» indica una pagina con una nota ‘simbolo simile a frammento ligneo trovato a Tharros – possibile collegamento con Amsk’r – vedi nota 1972.’

Veronika si sporge. «E lei è riuscita a collegarlo a un nome vero?»

Gavina annuisce ma con prudenza.

«Ci ho messo anni. Ma un giorno, durante un convegno a Sassari, un ricercatore più anziano mi mostrò un documento trascritto da una fonte punica. Parlava di un “capo della rivolta” chiamato Ampsicora… e a margine, in una nota manoscritta, qualcuno aveva scritto: “Amsk’r?” col punto interrogativo. Per me fu come una scintilla. Quella sigla che avevo letto ovunque… combaciava. Non era una coincidenza.»

Fa una pausa. Lo sguardo si fa più severo.

«Da allora, ogni volta che provavo ad approfondire… qualcosa si metteva di traverso. Reperti spostati. Accessi negati. Progetti che venivano tagliati senza spiegazioni. Come se quel nome, quel vero nome, non dovesse riemergere.»

Alcuni nomi non spariscono: aspettano solo che qualcuno li riconosca.

documenti di Gavina (foto Dall-E)

Una lingua nascosta

Gavina si siede accanto alla scrivania e resta in silenzio per un attimo. Poi prende un foglio stropicciato da un raccoglitore aperto, lo osserva per qualche secondo e parla con voce più bassa, come se stesse per raccontare qualcosa che finora aveva tenuto solo per sé.

«C’è una cosa che non ho mai scritto in nessuna relazione. Né detto apertamente, nemmeno ai colleghi più vicini. Ma dopo quello che mi avete raccontato…»

Ci guarda, uno per uno, in cerca di una conferma silenziosa. Veronika annuisce attendendo una rivelazione. Io resto fermo ma il mio sguardo le dice che può andare avanti.

«Una volta, anni fa, mi permisero di accedere a un piccolo deposito vicino a Tharros. Non c’erano grandi reperti, solo materiale che nessuno aveva ancora avuto tempo o interesse di studiare. Tra quei resti c’era una lastra, poco più grande di un foglio A4, con un’incisione particolare.»

Si interrompe, come se stesse ancora visualizzando quella lastra nella mente.

«Sembrava una decorazione. Ma c’era qualcosa nella ripetizione di certe forme, nella posizione degli elementi. Non era arte casuale. Era ordine.»

Veronika si sporge leggermente. «Come un codice?»

Gavina annuisce, con un’espressione quasi colpevole.

«Sì. Non ne ho mai parlato con nessuno ma ho iniziato a confrontare quei segni con altri trovati in contesti completamente diversi: piccole incisioni sui bordi di ceramiche, schegge di legno intagliate, persino segni lasciati su un’ansa metallica di origine incerta. Non erano identici ma… sembravano seguire una logica, un modulo ricorrente.»

Apre un fascicolo e ci mostra un tracciato a mano: simboli schematizzati, frecce, linee tratteggiate, connessioni come se stessimo guardando una mappa invisibile.

«Alla fine ho iniziato a pensare che non fossero solo simboli religiosi o decorativi. Ho iniziato a credere che fossero una lingua. Una lingua segreta, nata in epoca nuragica o subito dopo… e usata per trasmettere messaggi solo a chi era in grado di leggerli.»

Il peso delle sue parole riempie la stanza. Non ha detto nulla di “clamoroso” in superficie ma il sottotesto è potente: qualcuno ha lasciato volontariamente una traccia, un codice. E nessuno, finora, è riuscito a leggerlo per davvero.

Gavina ci guarda di nuovo. «Forse erano solo suggestioni. O forse ho voluto vedere un disegno dove c’erano solo coincidenze. Ma… c’è una cosa che non riesco a dimenticare.»

Si alza e prende una fotografia sbiadita da una scatola. Ce la porge. Mostra una piccola pietra ovale, trovata, ci dice, nei pressi di un vecchio insediamento punico.
Al centro un simbolo incastonato in un anello di linee concentriche. In basso, quasi impercettibile, una lettera incisa al contrario. La stessa che avevamo notato anche noi sul tessuto ma senza sapere cosa fosse.

«Questo» sussurra «è comparso almeno tre volte. Sempre in luoghi marginali, lontani dai reperti ufficiali. E ogni volta… associato a resti che non avevano mai trovato una collocazione precisa.»

Si volta verso la finestra poi, a bassa voce, quasi parlando a sé stessa, aggiunge:
«Se avessero voluto nascondere un messaggio nei secoli… lo avrebbero fatto così. Non in un unico segno. Ma spargendo pezzi incompleti ovunque. Lasciando a chi viene dopo il compito di rimetterli insieme.»

Chi vuole davvero trasmettere un messaggio non lascia una verità intera. Lascia frammenti da ricomporre.

antico nuraghe in sardegna (foto sardegnaturismo.it)

Una pista ancora aperta

Gavina resta in silenzio per qualche secondo, poi si alza e torna a sfogliare alcune carte accatastate sul mobile accanto. Non sembra cercare qualcosa in particolare. Sembra piuttosto ritrovare un ricordo.

«Sapete… non è del tutto vero che non ho più messo mano a queste ricerche. Alcune cose le ho solo messe… in pausa. Per anni.»

Prende un taccuino, lo apre a metà, poi lo richiude.

«C’è una persona. Una mia ex collaboratrice. All’epoca era giovane, piena di entusiasmo. Lavorava con me quando iniziai a mettere insieme i primi confronti tra quei simboli. Era brillante, curiosa. Poi, per motivi personali, decise di lasciare la ricerca accademica

Fa una pausa e ci guarda, come per misurare le nostre reazioni.

«Ora dirige un museo nella zona di Cabras. Un luogo apparentemente fuori dal tempo. E so per certo che tra le collezioni che conserva… ci sono almeno due reperti che non sono mai stati esposti al pubblico.»

Veronika si raddrizza. «Reperti come quelli che ha studiato lei?»

Gavina annuisce. «Sì. Uno in particolare… me lo mostrò anni fa, in privato. Era uno di quei frammenti anonimi che nessuno voleva più studiare ma io vidi subito che portava un’incisione familiare. Le dissi di conservarlo, di non lasciarlo finire in magazzino. E lei lo fece.»

Si volta verso la finestra, dove la pioggia continua a scorrere lenta lungo il vetro.
Poi torna a guardarci.

«Non le ho mai chiesto nulla in cambio. Ma… mi deve un favore. Uno importante. E se ci presentassimo lì all’improvviso, con me al vostro fianco… non potrà dirci di no.»

Veronika sorride. Io incrocio le braccia. Gavina ha già deciso e, a questo punto, anche noi.

Skippy, come se avesse capito tutto, salta leggera giù dal tappeto e si dirige verso la porta, pronta a ripartire.

A volte le risposte non stanno nei documenti ma nelle persone che li hanno custoditi in silenzio.

documenti di Gavina (foto Dall-E)

Sapori che Raccontano

Quando usciamo dallo studio, il cielo è diventato più scuro. La pioggia ha rallentato ma l’aria è ancora satura di umidità. Ci accorgiamo che il pomeriggio è volato via, le parole, le immagini, le connessioni ci hanno rapiti più di quanto pensassimo.

Veronika si volta verso Gavina con un sorriso che ha il sapore della gratitudine.

«Le va di venire a cena con noi? È il minimo dopo tutto quello che ha condiviso. E poi… finalmente ho fame.»

Skippy, come se fosse stata nominata, si scuote e inizia a saltellare intorno a noi. L’appetito è tornato anche per lei e il suo sguardo è quello di chi ha già deciso cosa vuole ordinare, anche se non ha ancora letto il menù.

Gavina ci guarda per un istante, sorpresa. Poi annuisce, quasi commossa da un gesto semplice che non si aspettava.

«Sì… sì, volentieri. Allora vi porto in un posto che conosco io. Niente menù turistici, promesso.»

Poco dopo siamo seduti in una piccola trattoria nascosta tra i vicoli del centro. L’ambiente è caldo, il legno scuro alle pareti contrasta con le luci basse e il profumo nell’aria è una miscela perfetta di spezie, mare e terra.

«Qui fanno uno dei miei piatti preferiti» dice Gavina, sfogliando appena il menù per abitudine, più che per necessità. «Si chiama fregula cun cocciula. È una pasta di semola tipica, piccola, tostata al forno, servita con vongole freschissime e prezzemolo. Semplice… ma se è fatta bene, non la dimentichi più.»

Veronika sorride e si affida ciecamente al consiglio. Io annuisco, curioso.
Skippy, già seduta composta tra me e Veronika, si stropiccia le mani con entusiasmo. Mangia come noi in proporzioni più ridotte e, a giudicare dal modo in cui osserva la cucina, ha già eletto il profumo della fregula come il più buono della giornata.

Quando i piatti arrivano i profumi sono così intensi che per un attimo parliamo poco. Il silenzio si riempie di forchette che sfiorano i piatti e sguardi d’intesa.

Poi, mentre assaporo l’ultimo boccone, mi ricordo di quella domanda rimasta in sospeso.

«Prima ha detto che il tessuto è bisso marino…» mi volto verso Gavina. «Ma non ha finito di spiegare. È davvero fatto con… un mollusco?»

Gavina solleva gli occhi, poi sorride e poggia la forchetta sul bordo del piatto.

«Sì, scusa se ti ho lasciato a metà. Ero troppo presa dai vostri racconti.»

Poi si sistema la sciarpa, quasi a prendersi un momento per trovare le parole giuste.

«Il bisso marino si ricava dai filamenti della pinna nobilis, un mollusco enorme che viveva nel Mediterraneo. Per secoli alcune donne, pochissime in verità, hanno saputo come estrarne quei filamenti, lavarli, filarli a mano, uno per uno. Il risultato è un tessuto leggerissimo, dorato alla luce, che non si deteriora con il tempo. Era usato solo per i paramenti sacri o i vestiti dei re. Cose che non dovevano morire.»

Si ferma un istante.

«In Sardegna c’erano pochissime donne in grado di lavorarlo e ancora meno sono rimaste. Oggi è quasi scomparso. Ecco perché, quando ho visto il vostro frammento… mi si è fermato il respiro. Non si trattava solo di un pezzo raro ma di qualcosa che qualcuno ha voluto proteggere in un modo speciale. Come se il contenuto non dovesse mai essere dimenticato.»

La sua voce si fa più bassa.

«E anche solo per questo… vale la pena continuare a cercare.»

Veronika la guarda in silenzio. Io mi appoggio allo schienale della sedia.
Skippy, con la pancia piena e l’espressione soddisfatta, si avvolge il tovagliolo tra le mani come se fosse una sciarpa e si lascia andare contro la spalliera, occhi chiusi, come a dire: possiamo anche non muoverci più da qui.

È tardi. Eppure nessuno sembra avere fretta.

Ci sono sapori che nutrono il corpo e storie che nutrono il perché.

Fregula cun Cocciula (foto e ricetta Dall-E)

Un regalo prima di dormire

Quando rientriamo a casa di Gavina l’aria sa di terra bagnata e pietra antica. Alghero sembra essersi acquietata, avvolta in un silenzio che non è solo serale ma quasi cerimoniale.

Stiamo per salutare quando Gavina alza una mano, decisa: «Nessuna discussione. Dormite qui. Partiamo presto domattina e non vi lascio certo vagare per la città in cerca di un posto dove dormire. Qui c’è spazio e per stanotte… siete di casa.»

Veronika la ringrazia con un sorriso gentile. Io accenno un piccolo inchino di resa. Skippy, dal canto suo, è già crollata su un tappeto accanto al divano, le braccia dietro la testa e lo sguardo fisso al soffitto, come se fosse arrivata alla fine di un film che le è piaciuto tantissimo.

Poco prima di andare a dormire Gavina si allontana per qualche minuto, poi torna con un piccolo cofanetto di legno scolpito. Lo apre con cura davanti a Skippy e le porge un oggetto avvolto in un pezzo di lino.

«È un bottone in osso. L’ho trovato anni fa durante uno scavo nei dintorni di Alghero. Non è mai stato registrato, era in mezzo a frammenti senza catalogo ma porta un’incisione molto antica. Alcuni pensano sia una semplice decorazione… io non ne sono mai stata così sicura.»

Skippy lo prende tra le mani con delicatezza. Sul fronte, un piccolo segno curvo a spirale inciso a mano. Lo osserva, poi lo infila subito nella sua taschina laterale, dove tiene le cose importanti. Poi si gira verso Gavina, le prende una mano e l’accarezza con il naso, in quel suo modo silenzioso e dolce che ha solo lei.

«Custodiscilo» le dice Gavina. «Forse un giorno ci servirà.»

Poco dopo, ci sistemiamo per la notte. Gavina ci ha preparato una stanza con un letto comodo, lenzuola profumate e un plaid piegato con cura ai piedi del materasso.
Skippy, come sempre, si rannicchia a terra accanto a noi, avvolta nella sua coperta, la testa appoggiata sullo zaino come fosse un cuscino di casa.

Io e Veronika ci infiliamo sotto le coperte in silenzio.

Per un po’, nessuno dice niente.

Poi Veronika si gira verso di me, la voce bassa, quasi un sussurro.
«Secondo te… troveremo davvero qualcosa?»

La guardo nel buio. Le ombre delle tapparelle si muovono lente sul soffitto, disegnando figure che sembrano danzare.

«Non lo so» le rispondo a bassa voce. «Ma se anche non trovassimo nulla… la storia, in qualche modo, ci ha già trovato.»

Lei sorride. Chiude gli occhi, senza dire altro.

Io resto ancora un attimo sveglio, mentre il respiro di Skippy si fa regolare e il profumo del legno e dei libri antichi ci avvolge.

Domani si riparte ma stanotte dormiamo sotto lo stesso tetto della storia.

A volte non è importante trovare qualcosa. È sentirsi trovati da ciò che cercavi

il piccolo souvenir di Skippy (foto Dall-E)