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17 + Diario di Volo Kasserine

Verso Ovest

Sto per mettere in moto quando noto che la mano mi trema. Sono nervoso e agitato. Non è ansia da volo, non stavolta. È qualcosa che mi stringe dentro, un nodo di pensieri che non vogliono andarsene. Mentre giro la chiave di accensione dell’XCub, penso che Ali, seduto dietro di me in questo piccolo biposto, mi abbia lasciato i comandi per distrarmi, per aiutarmi a respirare un po’. Gli sono grato ma non gli ho detto grazie. Non ancora.

Prima del decollo mi mostra con calma le differenze rispetto al Cessna: i flap si controllano con una leva grande, montata in alto a sinistra, come nelle vecchie macchine agricole. Anche la posizione a terra è diversa: due ruote grandi davanti e una piccola dietro, sembra in punta di piedi. Eppure, appena prendiamo velocità sulla pista sterrata e sconnessa, sento le ruote affondare e ammortizzare dolcemente ogni buca. Poi, quasi senza accorgercene, l’XCub si stacca da terra.

È un attimo. Decolliamo in meno della metà dello spazio che servirebbe al mio Cessna.

Subito dopo la virata verso ovest ho il sole basso sull’orizzonte che colora di rame la campagna, rendendo questo paesaggio diverso da quando sono arrivato.

«Se tutto va bene arriveremo a Kasserine prima che faccia buio» mi avvisa la voce di Ali nelle cuffie.

L’XCub è scattante, agile, leggero. Sto pensando che mi piace pilotarlo quando Ali indica un fiume che brilla in lontananza illuminato dal sole che scivola tra le colline.

«È l’Oued Zeroud» mi dice «È un fiume stagionale che scorre verso ovest. Tienilo alla sinistra. Lo seguiremo per un po’.»

Guardo fuori e annuisco. Il fiume sembra una lama di luce incastonata nella terra.

Prima di decollare davvero bisogna lasciare a terra ciò che pesa dentro.

prima del decollo con l’Xcub (foto flight simulator 2024)

Grazie

Sorvoliamo una serie di rilievi nei pressi di Ouled Khalfallah. Queste colline, parte della dorsale tunisina, offrono un paesaggio suggestivo. Ali mi racconta che la zona è nota per la sua bellezza naturale e per le tradizioni locali legate alla pastorizia e all’agricoltura.

Subito dopo c’è il Barrage El Haouareb, un piccolo lago artificiale creato da una diga chiaramente visibile. La luce del tramonto, i rilievi attorno, i riflessi sull’acqua calma: tutto contribuisce a creare un’atmosfera incredibilmente rilassante.

Mi rendo conto che, come la moto, anche volare mi aiuta a calmarmi e sentirmi bene.

Prendo un respiro e, un po’ in imbarazzo, rompo il silenzio: «Grazie… Grazie di tutto, Ali. Grazie per avermi permesso di pilotare e di distrarmi… non ci conosciamo da molto ma ti sono grato per tutto quello che hai già fatto e stai facendo per me.»

«Baraka Allāhu fīk» sento in cuffia. Poi mi spiega che è un’espressione tipica: significa “Che Dio ti benedica”. È un modo tradizionale per esprimere gratitudine e benedizione nella cultura tunisina.

Poi mi stringe la spalla con la mano, una sorta di abbraccio silenzioso.

A volte basta volare bassi per sentirsi più leggeri dentro.

parte della dorsale tunisina (foto flight simulator 2024)

Le alture del Mghilla

Il sole si fa più tenue, ancora nascosto tra le nuvole all’orizzonte. Il paesaggio cambia: le colline più marcate si trasformano in rilievi decisi.

«È il Parc National de Jebel Mghilla» dice Ali mentre mi tocca la spalla sinistra e indica la montagna che si staglia alla nostra sinistra.

Mi colpisce la sua imponenza: si alza come un baluardo nella distesa ondulata che ci accompagna da Kairouan. Ali, che sembra conoscere ogni angolo di questa terra, racconta che queste montagne, un tempo frequentate solo da pastori e cacciatori, sono oggi luogo di protezione per aquile reali, lepri berbere e persino iene striate.

«Ma sai qual è la leggenda?» mi chiede con un tono di mistero. «Si dice che qui si rifugiasse un vecchio contrabbandiere che conosceva ogni sentiero e ogni grotta. Lo chiamavano l’uomo senza orme, perché nessuno riusciva mai a seguirlo.»

Sorrido. Sembra una favola ma detta da lui, con la sua strana cadenza italiana, suona come una verità nascosta.

«Ora sali un po’» dice all’improvviso. «Tagliamo il crinale e andiamo verso Sbeitla

«Sbeitla?» chiedo, cercando di orientarmi.

«Fidati, ti piacerà.»

Eseguo la manovra guadagnando quota. Lo faccio senza pensarci troppo ma dentro sento qualcosa muoversi. Torna quella sensazione di essermi allontanato da ciò che conosco per andare incontro a qualcosa che mi spaventa e mi risveglia istinti primitivi.

Prendo un respiro profondo, cercando di riprendere la calma.

Ogni quota nuova richiede di lasciare a terra una parte di sé.

verso il Parc National de Jebel Mghilla (foto flight simulator 2024)

Tempo immobile

«Ci siamo.» esclama Ali mentre superiamo l’ultimo crinale e il paesaggio si apre come un sipario su una cittadina dalle case basse. Mi fa cenno di abbassarmi leggermente, così riduco la potenza e ci lasciamo scivolare in una lenta planata.

Davanti a noi Sbeitla sembra scolpita nella terra.

Resto in silenzio per qualche secondo osservando il mosaico di pietre antiche che ho d’avanti. Tutto appare immobile, come se trattenesse il respiro.

«È l’antica Sufetula» dice Ali con voce calma «una delle città romane meglio conservate della Tunisia.»

Da quassù si vedono nettamente i resti del foro, tre templi allineati, colonne ancora in piedi, e l’ombra lunga dell’arco di trionfo che si disegna sulla terra.

«Quei tre templi lì» continua «non sono dedicati a una sola divinità ma a tre: Giove, Giunone e Minerva. Di solito i romani li riunivano in un unico edificio. Qui, no. Qui ognuna aveva il suo tempio. È unico nel mondo romano.»

Mi sporgo leggermente, cercando di cogliere i dettagli: il teatro semi-sepolto, la trama delle strade, i resti delle basiliche cristiane che si distinguono appena tra la pietra gialla e la sabbia.

«Qui si è anche combattuto» aggiunge Ali. «Nel 647 dopo Cristo, gli arabi guidati da Abdallah ibn Sa’ad sconfissero i bizantini. Fu uno degli scontri che aprirono la strada alla conquista dell’Africa del Nord. Dopo quella battaglia, Sufetula non tornò più la stessa.»

Resto in silenzio. La luce radente esalta ogni rilievo, ogni colonna spezzata, ogni traccia lasciata da mani che non ci sono più. È come volare sopra una memoria ancora viva.

«Non è solo un sito archeologico» dice Ali, come se leggesse nei miei pensieri. «È un posto che parla. Devi solo saper ascoltare.»

Faccio un cenno, lasciando che lo sguardo si posi sulle rovine una volta ancora, prima di tornare a puntare nuovamente verso ovest.

Alle nostre spalle, Sbeitla rimane lì.
Piccola e fragile.
Ma più grande di quanto avrei mai immaginato.

Ci sono luoghi che non parlano ma sussurrano. Basta saperli ascoltare dall’alto.

i tre Templi di Sbeitla (foto Dall-E)

Lampioni

«Segui la P13» mi dice Ali puntando il dito verso una linea luminosa che si snoda nel paesaggio. «Vedi la luce dei lampioni? Ci porteranno a Kasserine

Guardo giù e noto la sottile colonna di luce che serpeggia nel paesaggio sempre più scuro. Una strada che non divide ma collega. L’XCub prosegue silenzioso nelle prime luci della sera.

All’improvviso sento una leggera pacca sulla spalla. Ali mi indica qualcosa in alto alla mia sinistra: un piccolo tubicino di vetro sopra la testa. All’interno, il livello di carburante si è quasi azzerato.

«È il serbatoio sinistro» dice con tono calmo. «Quello che stiamo usando da inizio volo.»

Mi volto verso destra, intuendo che ci sia un secondo tubicino. Eccolo: il livello è visibilmente più alto. Mi colpisce la semplicità di questo sistema: due tubicini, due finestre trasparenti che raccontano con chiarezza quanto ancora possiamo volare.

Ali mi indica poi una leva rossa accanto al mio ginocchio sinistro. «Quella, ruotala per cambiare serbatoio.»

Obbedisco. Ruoto con cautela. Ali sorride e mi dà due leggere pacche sulla spalla. Non dice nulla ma il messaggio è chiarissimo: bravo.

Pochi istanti dopo compare Kasserine. La città è lì, distesa tra la terra e le montagne, accesa da mille punti luce che tremano nella penombra. Il tramonto la avvolge con gli ultimi bagliori dorati.

Restiamo in silenzio. Nessuno dice nulla. Perché a volte, quando arrivi in volo sopra una città che non conosci ma che sembra aspettarti, non c’è bisogno di parole.

Ci sono silenzi che parlano più di un debriefing.

Djebel Chambi la vetta più alta della Tunisia (foto flight simulator 2024)

Kasserine

Sopra Kasserine l’aria è immobile, il cielo sfuma ora verso il viola e la città sotto di noi sembra sospesa tra la quiete e una memoria che non dorme mai.

«La conosci la storia di questa città?» chiede Ali, mentre indica con un movimento della testa una zona più a sud-ovest.

«So solo che c’è una montagna importante qui vicino.»

«Djebel Chambi. Sì, è la vetta più alta della Tunisia. Lì, alla nostra destra: 1.544 metri»

Mi giro a osservarla. Lui continua: «Ma non è solo la montagna ad aver fatto la storia di Kasserine. Questa terra ha visto la guerra, vera. Quella mondiale.»

Resto in silenzio, incuriosito, lasciandogli spazio per continuare. La sua voce si fa più intensa.

«Febbraio 1943. Le forze dell’Asse, guidate da Rommel, hanno colpito duro gli americani nel Passo di Kasserine. Una disfatta. I soldati alleati non erano preparati alla tattica tedesca. Persero uomini, terreno… e innocenza. Quel giorno si è fatta la storia.»

La città sotto di noi ora ha un peso diverso.

«Dopo quella sconfitta, gli americani cambiarono tutto. Comandi, strategie. E da lì, lentamente, iniziarono a vincere. Ma qui… qui ci hanno lasciato il sangue.»

«Ci sono ancora segni?» chiedo.

«Ci sono. Cimiteri, resti, racconti. La gente non dimentica. Kasserine è una città fiera, dura, ancora oggi. Ha vissuto anche le rivolte degli anni ’80. E durante la Rivoluzione del 2011 è stata una delle prime a scendere in piazza. Sempre in prima linea, anche quando nessuno la guarda.»

Abbasso lo sguardo. Le luci delle case sembrano tutte accese adesso, come occhi che ascoltano.

«Sento un grande ardore dentro di te mentre racconti queste cose, Ali.»

Sorride. «Perché mio nonno c’era. Non alla guerra ma alla rivoluzione del pane. E mio padre, nel 2011, era in strada. Qui la storia non è nei libri. È nelle famiglie. La mia è stata presente.»

Resto in silenzio mentre penso che la sua voce, così enfatica e decisa mentre racconta queste cose, rispecchia il mio stato d’animo. Determinato a lottare per chiudere questa faccenda e proteggere le persone che amo.

Kasserine non è solo un punto d’arrivo. È un nodo, un incrocio di vite, lotte e memoria. E dall’alto sembra voglia darmi forza e coraggio per portare a termine la mia battaglia.

Ci sono luoghi che non si attraversano. Ti attraversano loro.

superata Kasserine (foto flight simulator 2024)

Sipario

Sembra che il cielo abbia deciso di abbassare il sipario su una giornata intensa. La luce del sole ormai è fioca. Ali mi indica una rotta precisa: «Ci siamo quasi. Dirigiti verso Thélepte

Guardo verso l’orizzonte, cercando qualcosa che mi confermi dove andare. Ma vedo solo un piccolo luccichio lontano, come una manciata di luci perse tra le pieghe del paesaggio. Forse un villaggio. Forse una cittadina. Forse solo una suggestione.

Il terreno si fa più ruvido. Arido, segnato da piccole depressioni e colline smussate. Il tipo di paesaggio che non racconta nulla, a meno che tu non sappia ascoltare.

Cerco l’aeroporto ma non lo vedo. Mi guardo continuamente attorno e Ali, notando la mia agitazione, cerca di rassicurarmi.

«Non ti preoccupare» dice con tono tranquillo. «È in basso, in una depressione. Da qui non si vede. Ma c’è.»

Poco dopo la pista compare in una sorta di conca, improvvisa come una certezza che si rivela solo all’ultimo. È stretta, spoglia, quasi invisibile nel paesaggio. Ma c’è.

Sento Ali parlare alla radio, scambiare poche parole in francese con qualcuno a terra. La risposta arriva chiara: abbiamo l’autorizzazione all’atterraggio.

«Fammi fare un giro» gli dico, prendendo leggermente quota. Voglio capire come è orientata la pista rispetto al vento e al terreno.

L’XCub risponde preciso, come se sapesse che questa è la parte in cui si gioca tutto: chiudere il volo bene, con rispetto.

Ali non dice nulla ma so che sta osservando con attenzione ogni mio movimento. Del resto questo è il suo aereo. So che se sbaglio me lo dirà con gentilezza. Ma se atterro bene… forse mi darà una di quelle sue pacche sulla spalla che valgono più di mille parole.

Nel volo, come nella vita, ci sono mani che guidano anche quando restano ferme.

verso Thélepte (foto flight simulator 2024)

Un atterraggio diverso

Abbasso la velocità agendo con attenzione sulle due leve che ho a sinistra: quella blu, che controlla il passo dell’elica, e quella nera, per la potenza del motore.

Poi, quando la velocità è idonea, abbasso la grossa leva dei flap sopra la mia testa e sento l’XCub modificare il suo assetto. Il silenzio è totale, ora che il motore non ruggisce più come prima.

Mi allineo con la pista. È corta ma so che questo aereo non è il Cessna e necessita di molto meno spazio. So anche che ha il baricentro più arretrato, le ruote grandi davanti e una piccola dietro. Se sbaglio l’assetto, potrei rimbalzare malamente o, peggio, farlo impennare.

Resto concentrato, allontanando tutti i pensieri.

Sento le ruote toccare con una delicatezza che non mi aspettavo. Morbide, grandi, come se affondassero appena nel terreno. Un leggero rimbalzo. Poi la seconda toccata, più stabile. Sorrido. Accarezzo i freni, sento l’XCub rallentare senza fretta.

Due pacche leggere sulla spalla. Le riconosco subito. Ali.

Ho fatto un buon lavoro.

Rulliamo verso le piazzole a fondo pista. Noto subito un dettaglio: alcune tende bianche, pulite, ordinate, con sopra un simbolo medico. Un emblema umanitario.

Ali mi indica con un cenno dove parcheggiare. Eseguo senza dire una parola. Spengo motore, strumenti, luci. Un silenzio nuovo ci avvolge. Scendiamo.

L’aria, nonostante l’ora, è ancora calda. Sospesa. Profuma di terra e vento.

Un uomo si avvicina dal buio della pista. Indossa una pettorina rifrangente ma l’abbraccio con cui accoglie Ali rivela qualcosa di più. Si conoscono. Da tempo.

«Dov’è il grande capo?» chiede Ali in inglese, con un tono a metà tra lo scherzoso e il rispettoso.

L’uomo indica una delle tende bianche, sul margine esterno della pista, lontano da tutto e da tutti.

Ali si gira verso di me. Mi guarda. E senza una parola mi fa segno di seguirlo.

Ci sono atterraggi che segnano la fine di un volo. E altri l’inizio di qualcosa.

sulla pista di Kasserine (foto flight simulator 2024)

16 + diario di volo Kairouan

Risveglio nella medina

Il richiamo del muezzin ci sveglia prima ancora che il sole si affacci sui tetti. Una voce lontana, lenta, trascinata dal vento, si diffonde tra le mura della medina e rimbalza nei vicoli come un’eco senza tempo.

È la nostra prima alba in Tunisia. Eppure lo sento: dovremo abituarci… e non la dimenticheremo.

Dopo il canto, arrivano i suoni della vita: le prime voci basse, i passi leggeri sul selciato, il cigolio dei carretti, il tintinnio dei cucchiaini contro il vetro sottile dei bicchieri. Un ritmo nuovo, familiare e sconosciuto insieme.

Veronika si gira nel letto, si stira con lentezza. Skippy la imita con uno vistoso sbadiglio. Lei mi guarda, si avvicina e mi sfiora la guancia con un bacio. «Buongiorno.»

Apro un occhio appena. Poi lo richiudo. Negli ultimi giorni ho dormito poco e male. Il mio corpo lo sa e loro, ormai, lo sanno meglio di me.

Non insistono.

La porta si chiude piano qualche minuto dopo, lasciando entrare un filo di luce.

Mi addormento di nuovo. Profondamente.

Quando mi risveglio non ho idea di quanto tempo sia passato… ma i profumi… quelli sì che parlano chiaro.

Veronika e Skippy sono rientrate in punta di piedi ma si portano addosso l’odore della strada: spezie calde, pane appena sfornato, gelsomino… e soprattutto, caffè.

«Ti ho portato un caffè» dice Veronika, porgendomi un bicchiere di vetro spesso, senza manico. «Non è espresso… ma si difende.»

È scuro, lungo, profumatissimo.
Il caffè tunisino è diverso dal nostro: più simile a quello turco, viene servito nei makhraj, piccoli bicchieri cilindrici, spesso aromatizzato con cardamomo o acqua di fiori d’arancio.
Questo è allungato, dolce al punto giusto ma con quel fondo denso che lo tiene ancorato alla tradizione.
Una specie di caffè americano… in abiti arabi.

La guardo. Le prendo la mano e le do un bacio leggero sul dorso.
«Ti adoro» sussurro.

Poi mi siedo sul letto, appoggiando la schiena al muro e prendo il telefono dal comodino.
Lo sblocco e, a bassa voce, dico: «Ah… Carlo ha risposto.»

Veronika si volta verso di me, sorpresa.
Si siede ai piedi del letto, in silenzio.

Bevo un altro sorso di caffè. Devo ancora abituarmi a questo sapore denso, speziato, ma in fondo mi piace.
Poi le riassumo:
«Dice che in quella zona, non proprio a Kairouan ma nemmeno troppo lontano, vive un suo ex collega dell’associazione. Si chiama Ali. È anche lui un pilota in pensione e ha una piccola pista sterrata accanto a casa, da cui decolla con il suo XCub

Veronika ascolta senza interrompermi.
«Carlo mi assicura che possiamo atterrare lì con il Cessna, la pista è un pò corta ma non dovremmo avere problemi. Ali è abituato a ospitare amici che arrivano in volo e nessuno farà domande. Lo sta già avvisando del nostro arrivo. Mi ha mandato le coordinate e qualche dettaglio utile.»

Lei sorride.
«Perfetto. Vuol dire che si va?»

Annuisco ma dentro una parte di me continua a cercare un motivo per farle cambiare idea.
Non lo trovo.

Fuori la medina si è ormai svegliata del tutto. Il vocio sale come un’onda leggera, portando con sé il primo sole del giorno.

Ci sono risvegli che sanno già di scelta. Anche quando una parte di te cerca ancora una via per tirarsi indietro.

Muezzin (foto Dall-E)

Briciole e leggende

Ho da poco finito il caffè quando sento il mio stomaco brontolare. Forte.
Abbasso lo sguardo e, solo in quel momento, noto le briciole sulla faccia di Skippy, stesa sul letto accanto a me, intenta a giocherellare con una piccola mano di Fatima in metallo che chissà dove ha preso.
Le briciole sono ovunque tra il naso e le guance, come se avesse infilato la testa in un sacchetto di pane.

«Ma avete fatto colazione?» chiedo, indicando il vuoto che ho davanti. «Niente da mangiare per me?»

Veronika scoppia a ridere.
«In realtà lo avevo preso… ma Skippy ha pensato che fosse per lei. Ha lasciato solo il caffè, giusto per cortesia.»

«Maledetta mangiona!» borbotto.
Allungo le braccia, la afferro e la tiro verso di me. Lei si divincola fingendo una fuga ma è già troppo tardi: le faccio il solletico sotto la pancia, come si fa con i bambini.
Skippy ride e si dimena con le zampette in aria.

«Dai, è la scusa perfetta per farti alzare e muoverci» dice Veronika, alzandosi con energia.
«Ti vesti?»

Annuisco riluttante, infilando la maglietta mentre lei, appoggiata al davanzale, sfoglia la guida.
«Sai che il nome “Tunisi” potrebbe derivare dal verbo berbero ens, che vuol dire “addormentarsi”? Ironico, vero? Visto che non hai dormito quasi per niente.»

«Molto spiritosa.»

«Oppure da Tynes, una dea fenicia. Qui tutto ha radici profonde. Anche Cartagine era la capitale di un vero e proprio impero. Hanno combattuto Roma per secoli.»

«E hanno perso.»

«Sì. Ma prima l’hanno fatta tremare.»

Prendo lo zaino, controllo che ci sia tutto e, con un cenno, le faccio strada.

Uscendo dalla porta veniamo subito inghiottiti dai vicoli della medina. Luce obliqua, odori pungenti, voci che si rincorrono tra le pietre antiche. Tunisi ci accoglie come una città che non ha mai davvero dormito.

Ogni risveglio è una scelta: restare dove sei o iniziare, passo dopo passo, a farti strada nel mondo.

Skippy prima del solletico (foto Dall-E)

Decollo da Tunisi

In attesa dell’autorizzazione della torre, con le cuffie già in testa e le dita leggere sulla cloche, sento ancora in bocca il sapore della colazione fatta poco prima di arrivare in aeroporto.
Un paio di makroud presi al volo tra i vicoli della medina: morbidi, profumati di datteri e miele, con quel retrogusto di semola che sa di casa anche se è lontanissima dalla mia.

La voce della torre arriva mentre sto ancora pensando alla differenza tra il caffè lungo e rotondo che bevo ogni mattina e quello tunisino, denso, speziato, che lascia una scia persistente sul palato.
Più un rituale che una bevanda.

«SWA172 pronto al decollo.»
Entriamo in pista e do subito manetta.

Il Cessna risponde con un ruggito sommesso e in pochi secondi lasciamo la pista dietro di noi.
Tunisi si stende sotto di noi, ampia, bianca, brulicante. I tetti piatti, le cupole, i cortili nascosti.
Scivoliamo verso nord-est in direzione della costa, quando improvvise folate di vento forte mi colgono di sorpresa facendomi pensare che potrebbe essere un volo più movimentato del solito.

«Eccole» dice Veronika, indicando le rovine all’orizzonte.
Cartagine. Fondata dai Fenici nel IX secolo avanti Cristo. È una delle città più leggendarie del Mediterraneo.»

Poi apre la guida sulle ginocchia.
«Sai cosa colpiva di più i Romani? Le terrazze affacciate sul mare. Le chiamavano “le ville delle lacrime”. Perché quando Cartagine fu distrutta, molti dei suoi conquistatori… ci tornarono come turisti.»

«Piuttosto morbosi, come turisti.»

«Be’, qui è nata anche Didone. La regina che, secondo Virgilio, si è innamorata di Enea… e poi si è uccisa per lui.»

«Romanticismo antico.»

«O propaganda latina. I Fenici erano commercianti geniali. Hanno lasciato tracce ovunque: in Spagna, in Sardegna, a Malta… e soprattutto qui.»

La guardo.
«Ti piace questa parte del viaggio, vero?»

«Moltissimo. È come sorvolare una pagina di storia… che non ci hanno mai fatto leggere davvero.»

Le rovine si fanno sempre più nitide sotto di noi.
Le colonne, il promontorio, il mare che riflette il sole come uno specchio antico.

Volare sopra le rovine di Cartagine è come sfogliare una pagina strappata di storia, che ancora oggi chiede di essere riletta.

Ricostruzione di Cartagine (foto Dall-E)

Verso Sousse

«Cartagine è stata rasa al suolo dai Romani, che poi l’hanno ricostruita. Per secoli è rimasta una delle città più importanti dell’Africa romana. Quando passavano di qui le navi, la vedevano brillare sul promontorio… come un faro silenzioso» continua Veronika, mentre io completo la virata verso sud lungo la costa.

Alla nostra sinistra il Mediterraneo luccica. A destra, il paesaggio si apre su strade sottili, palmeti, campi brulli. La Tunisia moderna scorre a tratti: capannoni industriali, piccole città dai tetti piatti, villaggi che sembrano appoggiati sulla sabbia. Una linea sottile tra antico e presente.

«E Tunisi oggi…» riprende lei «è un mix strano. C’è la parte europea con i boulevard, le caffetterie, le vetrine… e poi la medina. Dove si entra e si esce come da un altro tempo. In un solo pomeriggio puoi attraversare tre secoli diversi.»

Annuisco ma non rispondo. Proprio mentre raggiungiamo il litorale del Golfo di Hammamet, una nuova raffica improvvisa ci investe di lato. Il Cessna si sbilancia bruscamente e per un attimo perdo l’assetto. Stringo i comandi, correggo, respiro. Torniamo stabili. Faccio una leggera virata e mi accorgo che il vento ora ci spinge alle spalle. Un alleato inatteso.

«A cosa stai pensando?» chiede Veronika, poggiando la guida sulle ginocchia.

«A quell’uomo… quel custode. A quello che ci aspetta.»

Lei non risponde subito. Skippy sbuca con la testa tra i sedili, incuriosita, come se avesse capito che non stiamo parlando di monumenti.

«Il figlio di Adnen ha detto che è anziano. Che non parla con nessuno da anni. Che si è isolato per scelta… o forse perché gliel’hanno chiesto.»

«È stato un custode dell’Ordine, no?» chiede lei piano.

«Sì. E speriamo che sia ancora tra quelli che vogliono far emergere la verità.»

Veronika mi osserva. «Tu che pensi?»

«Penso che siamo finiti in mezzo a qualcosa che va ben oltre la curiosità storica.»

Sorvoliamo la medina di Sousse: le mura squadrate, la casba, i minareti bassi, il mercato coperto. Il mare lambisce la città, come se volesse trascinarla via e, invece, lei resta lì ancorata al tempo.

Veronika sfoglia un paio di pagine della guida. «Lo sai che Sousse ha una delle medine meglio conservate del Maghreb? È più piccola di quella di Tunisi ma incredibilmente compatta. Qui dentro hanno girato anche delle scene di Indiana Jones. E poi c’è il ribat… un’antica fortezza-monastero dove vivevano i guerrieri religiosi. Dormivano sulle terrazze per avvistare le navi nemiche.»

«Ma quindi» chiedo, stranito «medina non vuol dire solo una cosa di Tunisi?»

Lei sorride. «No. Medina vuol dire “città vecchia”. Ogni città araba ne ha una. È il cuore. Il labirinto. Il luogo che resiste.»

Guardo giù. Sousse si allontana. La costa continua. E qualcosa, dentro di me, stringe appena.

Non tutte le città antiche sono fatte di rovine: alcune respirano ancora, anche sotto il peso del tempo e dei segreti.

Sousse con la sua medina e il porto visti dal Cessna (foto Dall-E)

El Djem e il respiro sospeso

Continuo verso sud, rientrando leggermente nell’entroterra. Veronika mi guarda e poi indica un punto sulla guida. «Ma non dovevamo andare a Kairouan? Secondo questa mappa dovrebbe essere più a ovest.»

«Sì» le rispondo, accennando un sorriso «ma prima vorrei sorvolare l’anfiteatro romano più famoso del Nord Africa. È una deviazione, ok… ma fidati, ne vale la pena.»

«Lo stai facendo per Skippy, vero?» sorride lei.

«Anche per lei. Ma soprattutto per me. Ti sto assecondando in questa tua ricerca ed è giusto. Ma nonostante tutto, io voglio ancora scoprire il mondo dall’alto. Questa avventura non mi cambierà fino a quel punto.»

Skippy batte le zampette contro la plancia in segno di approvazione.

Qualche minuto dopo, la distesa urbana di El Djem appare all’orizzonte. Un groviglio di strade, case, tetti piatti… e proprio al centro, come un gigante intrappolato tra le epoche, l’anfiteatro romano.

«Eccolo» sussurra Veronika. «È l’anfiteatro di El Djem. Terzo per grandezza nel mondo romano, dopo il Colosseo e quello di Capua. Ma il meglio conservato di tutti. Trentacinquemila spettatori, nel cuore della città.»

«È surreale. Sembra il Colosseo… ma circondato da una periferia africana.»

«E pensa che ancora oggi lo usano per concerti. A volte di musica classica, altre per i festival locali. La pietra restituisce il suono in modo perfetto.»

Giriamo in cerchio sopra questa magnifica creazione dell’uomo. Le arcate si rincorrono, uniformi. I livelli sono quasi intatti. Dal cielo sembra un monumento dimenticato in mezzo alla vita quotidiana.

Skippy resta immobile, incantata. Poi si volta verso di me e fa un suono basso, prolungato, come a dire “questo sì che vale il viaggio”.

Sorrido. Ne valeva davvero la pena.

Riprendiamo la rotta verso Kairouan, lasciandoci alle spalle l’anfiteatro. Quando ormai stiamo risalendo verso nord-ovest, succede.

Un rumore netto mi gela. Un colpo secco sotto ai piedi. Un singhiozzo metallico. Il motore comincia a tossire. Il Cessna vibra. La potenza scende di colpo. Un allarme si accende per un secondo, poi scompare.

«Cos’è stato?» Veronika è già tesa. Skippy ha gli occhi spalancati.

«Pressione carburante… momentaneamente in calo» dico tra i denti, mentre controllo in rapida sequenza tutti gli strumenti. «Nessuna perdita. Nessuna temperatura fuori norma.»

Agisco come mi hanno insegnato, effettuando tutte le procedure di emergenza e alla fine il motore ruggisce, tossisce ancora… e finalmente si riprende.

Per qualche secondo restiamo sospesi in una bolla. Il silenzio nelle cuffie pesa più del suono.

Poi, lentamente, tutto torna alla normalità. Il rombo si stabilizza. L’altimetro è stabile. La pressione regolare.

«Tutto ok?» chiede Veronika, cercando i miei occhi.

«Sì… credo di sì. Forse un residuo nel carburatore. O una bolla d’aria. Niente di grave.»

Ma non ci credo nemmeno io.

Ora che torniamo verso nord-ovest, il vento ci viene incontro. Ma il Cessna, fedele e ostinato, avanza con determinazione.

Un singhiozzo nel motore, un battito sospeso nel petto ma il volo continua. Testardo, come noi.

l’anfiteatro di El Djem (fotot Dall-E)

Avvicinamento a Kairouan

Il cielo è limpido. Il motore sembra stabile ma io non riesco a rilassarmi. Controllo gli strumenti ogni trenta secondi. Vibrazioni, giri motore, pressione dell’olio. Tutto sembra in regola… ma non mi fido.

Skippy, con la testa tra i sedili, osserva gli indicatori con la mia stessa attenzione. Veronika sfoglia la guida, ma lo fa con quel gesto rigido che tradisce la tensione. Tiene il segnalibro troppo stretto.

Alla nostra destra, una vasta superficie biancastra si estende fino all’orizzonte. «Quella è la Sebkha Sidi El Hani» dice, cercando di rompere il silenzio fitto che avvolge la cabina. «Un lago salato. In estate si asciuga quasi del tutto ma, d’inverno, può trasformarsi in un pantano. In passato lo consideravano un luogo magico. O maledetto.»

Non rispondo. Guardo fuori ma senza vederlo davvero. Poi noto qualcosa.

Il livello del carburante ha iniziato a scendere più velocemente del previsto. Un valore che non dovrebbe essere così. Spengo l’allarme sul Garmin con un tocco secco e resto in ascolto. Il motore gira regolare ma se la discesa continua così… potremmo restare a secco prima di vedere la pista. Manca poco. Ma quel “poco” ora pesa.

Sotto di noi compare Kairouan o Qayrawān, come la chiamano qui. Una città di tetti piatti, minareti squadrati, strade dritte che si incrociano come trame in un tessuto.

«È la quarta città santa dell’Islam» riprende Veronika. «La Grande Moschea è una delle più antiche del mondo musulmano. Un tempo qui passavano carovane, pellegrini e studiosi. Oggi sembra più quieta… ma il cuore spirituale pulsa ancora.»

Vorrei ascoltarla ma la mia attenzione è altrove. Una vibrazione secca, sotto i piedi, mi riporta al presente.

«Spero di trovare velocemente quella pista» mormoro, stringendo la cloche con più forza del necessario. «E spero anche che Ali abbia attrezzi, qualcosa per controllare il Cessna come si deve. Prima di ripartire voglio essere sicuro.»

Veronika si gira verso di me. «Se, come dice Carlo, ha un aereo anche lui… vedrai che ha tutto quello che ci servirà.»

Non riesco a scrollarmi di dosso questa sensazione. Lì sotto ci aspetta qualcuno. E qui sopra… qualcosa potrebbe ancora rompersi.

Lì sotto ci aspetta qualcuno. E qui sopra… qualcosa potrebbe ancora rompersi.

la grande moschea di Qayrawān (fotoDall-E)

Atterraggio brusco

Siamo sopra la zona indicata da Carlo. Ho inserito nel Garmin le coordinate che mi ha inviato ma da quassù tutto sembra identico: lingue di terra, campi chiari, tratti sterrati, piccole costruzioni isolate.

Giro in tondo, cercando un riferimento preciso. Qualcosa che dica: qui è sicuro. Ma non posso sbagliare. Non posso atterrare nel campo sbagliato o, peggio, nella proprietà di qualcuno che non ci aspetta.

La mano mi trema leggermente sulla cloche. Veronika prova a dire qualcosa, forse per calmarmi ma la zittisco con tono troppo brusco. «Scusa» aggiungo subito dopo, abbassando lo sguardo per un istante. Lei annuisce. Capisce. Non è il momento per le parole.

Skippy, silenziosa, si allaccia le cinture e fissa il parabrezza, lo sguardo teso e vigile come il mio.

Poi, finalmente, lo vedo. Una sagoma familiare: le ali larghe, l’assetto alto da bush flying. Uno XCub, parcheggiato sul bordo di una striscia chiara di terra battuta.

«Eccolo.» Punto il muso in direzione della pista e verifico il vento. Soffiando da nord-est. Mi allineo per l’atterraggio controvento, come previsto.

Il terreno è più sconnesso di quanto immaginassi. L’atterraggio è pieno di sobbalzi secchi e ravvicinati. Anche la pista è più corta del previsto e, per un istante, ho la sensazione che potremmo arrivare lunghi.

Tiro indietro la manetta, freno con decisione. Il Cessna ruggisce, vibra, si siede sulle ruote.

Ci fermiamo. Un sospiro. Un battito lento. Solo ora il mio cuore riprende un ritmo normale. Solo ora noto due figure che si avvicinano dalla casa poco distante: un uomo con passo deciso e una donna dai capelli raccolti sotto un foulard chiaro.

Ali e, probabilmente, sua moglie stanno venendo verso di noi. E non sembrano affatto sorpresi.

In certi momenti, l’unico suono che conta è il battito che torna lento nel petto.

15 + Diario di Volo Cagliari Tunisi

Risveglio e Preparativi

La notte mi ha tenuto prigioniero. Nonostante la stanchezza accumulata, il sonno è rimasto un miraggio irraggiungibile, come se sapesse che oggi non è un giorno qualunque. Mi rigiro nel letto, ascoltando i pensieri che si rincorrono in testa come aeroplani in holding sopra un aeroporto chiuso. Alla fine mi arrendo, sposto piano le coperte e mi alzo, deciso a non sprecare nemmeno un minuto di questa veglia forzata.

Sul mobiletto nella camera dell’hotel in cui siamo c’è una macchinetta del caffè. Piccola, essenziale. Come me stamattina. Inserisco una cialda con un gesto meccanico e schiaccio il pulsante.

Nel silenzio assoluto della stanza, il suono dell’erogazione mi sembra quasi un’esplosione. Non è forte in sé ma rimbomba nelle pareti come se amplificasse tutto il peso che ho addosso. Guardo verso i letti: Skippy è a pancia in su, con una zampa fuori dalle coperte; Veronika è rannicchiata sotto il lenzuolo, immobile. Nessuna delle due si muove.

Beate loro, penso.

Sorseggio il caffè in piedi, poi mi siedo sulla poltroncina con il tablet sulle ginocchia. È ora di preparare tutto.

Organizzare un volo internazionale non è uno scherzo, specialmente se non si tratta di una compagnia aerea ma di un piccolo Cessna con a bordo tre anime e una storia che ci brucia tra le mani.

Comincio dal piano di volo: punto di partenza, destinazione, quota prevista, tempi stimati. Deve essere chiaro, preciso e inviato in tempo utile alle autorità. Per entrare nello spazio aereo tunisino servono autorizzazioni specifiche: copia dei passaporti, una motivazione valida per il viaggio e tutti i dettagli dell’atterraggio. Per fortuna ho preparato tutto in anticipo per questo lungo viaggio. Apro la cartella protetta nel cloud, scarico i documenti, li inoltro al tablet e poi li invio direttamente all’ATC.

Ora non resta che aspettare la conferma.

Intanto faccio un controllo rapido al nostro equipaggiamento. Le regole doganali tunisine sono chiare: niente alimenti freschi, niente dispositivi non dichiarati. In teoria siamo a posto ma meglio controllare tutto due volte. Apro lo zaino, passo in rassegna ogni tasca, ogni borsa. Nessuna sorpresa. Bene così.

Mi appoggio un momento allo schienale. La luce fuori inizia a cambiare. La città si sveglia. Noi, invece, stiamo per lasciarla.

Ci sono notti in cui il viaggio comincia prima ancora di partire.

Skippy dorme beata (foto Dall-E)

Arrivo in aeroporto

Quando Veronika apre gli occhi, sono già vestito da un pezzo. Le porgo la tazza di caffè con un goccio di latte, come piace a lei. Sorride appena, con quella faccia da “dammi ancora cinque minuti” che conosco bene. Mi siedo accanto al letto mentre beve i primi sorsi, poi le scompiglio i capelli con un gesto lento.

Skippy sbuca dalle coperte poco dopo, con una zampa in testa e il muso schiacciato su un lato. Si stiracchia come un gatto e mi guarda come per dire: “Oggi si vola, eh?” Le sorrido. «Già. E si cambia continente.»

All’aeroporto ritroviamo il nostro Cessna parcheggiato al margine dell’area operativa. Ci muoviamo tra attrezzature e zaini con la solita precisione. Siamo rodati ormai. Veronika è poco distante, sta parlando al telefono. Non ho bisogno di ascoltare per sapere con chi. Da Siena in poi, ogni volta che può, chiama Irina. Sono sicuro che le stia raccontando tutte le novità e cosa stiamo per fare.

Io continuo coi controlli. Mi fermo accanto all’ala sinistra per verificare l’estensione del flap quando…

Sento qualcosa. O meglio, avverto qualcuno.

Mi volto verso la recinzione, istintivamente. Siamo abbastanza vicini al bordo dell’aeroporto, e tra le sterpaglie e la vegetazione rada c’è una figura. Ferma. Nascosta a metà tra il verde e il metallo.

Non capisco bene cosa stia facendo. Mi sposto di un passo in quella direzione, per osservare meglio.

In quel momento un pulmino passeggeri mi attraversa la visuale. Lo seguo con lo sguardo, immobile. Quando finalmente libera la visuale… non c’è più nessuno.

Resto lì. Con la sensazione che qualcosa non torni. Ripenso a quello che ho visto o che credo di aver visto. Una sagoma, forse un uomo e tra le mani… qualcosa. Una fotocamera? Sì, probabilmente. Grossa. Sembrava proprio una reflex. E l’atteggiamento… quello di chi cerca di non farsi notare.

Potrebbe essere stato chiunque. Potrei essermi sbagliato o potrei aver visto esattamente ciò che c’era.

Fotografava noi o gli aerei? È durato troppo poco per esserne certo.

Probabilmente è solo la stanchezza. Il peso della giornata, il poco sonno, la tensione. E la testa che a volte inventa più di quanto vede.

Non dico nulla a Veronika. Non voglio agitarla. Le faccio solo un cenno da lontano, mentre lei è ancora al telefono. «Salutami Irina… e Carlo!»

Lei sorride e alza il pollice.

Io torno all’aereo ma quella sensazione… non se ne va.

A volte basta un dettaglio per far traballare la realtà.

Decollo da Cagliari (foto flight simulator 2024)

Decollo e Sorvolo di Cagliari

Pochi minuti dopo siamo in volo. Stiamo prendendo quota e il mio sguardo scivola verso terra dove, tra i palazzi e le vie di Cagliari, riconosco l’ospedale dove siamo stati il giorno prima.

Il pensiero corre subito al professor Lissia. Non so quanto tempo gli resti ma spero con tutto il cuore di riuscire a raccontargli la verità su questa storia prima che sia troppo tardi. Lui ha speso la vita a cercare una risposta che nessuno ha mai voluto davvero trovare. E se, per una volta, fossimo noi quelli destinati a portargliela?

Sono ancora assorto nei pensieri quando la voce di Veronika nelle cuffie mi coglie di sorpresa, facendomi quasi sbandare.

«Sai che Irina mi ha raccontato una cosa bellissima su questa città?» dice con tono leggero. «Una festa religiosa. La Festa di Sant’Efisio. La celebrano qui ogni anno dal 1656, senza aver mai saltato un’edizione. Neanche durante le guerre.»

«Mai sentita.»

«È una delle processioni più importanti e toccanti di tutta la Sardegna. Parte da Stampace, un quartiere qui in centro e arriva fino a Nora. Quattro giorni di cammino, tra petali di fiori sparsi a terra, campane che suonano e le sirene delle navi nel porto che salutano il santo. Irina diceva che è impossibile non commuoversi quando il cocchio del santo si muove lentamente tra la folla, in un silenzio che pare sacro. Tutta la Sardegna partecipa, con costumi tradizionali e carri decorati… si chiamano traccas, se non ho capito male.»

Il Cessna continua a salire. L’obiettivo sono gli ottomila piedi previsti dal piano di volo. Un raggio di sole filtra tra le nuvole e colpisce il mare in lontananza, facendolo brillare come oro liquido.

«Quattro giorni a piedi, per onorare un voto fatto durante un’epidemia di peste. La città si affidò a Efisio e, da allora, ogni anno mantengono la promessa. Irina dice che nessun sardo mancherebbe mai a quell’appuntamento… è qualcosa che va oltre la religione.»

Resto in silenzio per qualche istante, poi la guardo e le dico: «Mi piacerebbe vederla, un giorno.»

Veronika sorride. «Anche a me.»

Alcuni voti attraversano i secoli come fossero appena stati pronunciati.

Vista dall’alto del quartiere di Stampace a Cagliari (foto flight simulator 2024)

Verso il Mare Aperto

La costa scivola lentamente sotto di noi. Stiamo sorvolando la zona di Villasimius, con le sue insenature perfette, le spiagge bianche e quel mare che sembra dipinto.

Le nuvole sparse, morbide e leggere, disegnano ombre sottili sull’acqua. Da quassù tutto appare immobile, come se il mondo stesse trattenendo il respiro.

«Wow…» dice Veronika con un tono a metà tra lo stupore e la preoccupazione. «Siamo molto più in alto del solito!»

Annuisco mentre controllo gli strumenti. «Sì, dobbiamo salire fino a 8.000 piedi, circa 2.400 metri. È una delle condizioni imposte dall’ATC per l’attraversamento di questo tratto di mare. Inizia ufficialmente il volo IFR, quello strumentale. Tra poco imposterò anche il pilota automatico, è la prima volta che lo usiamo.»

«che spettacolo da quassù.»

«gia» rispondo, lanciando uno sguardo fuori dal finestrino «sembra un altro pianeta.»

Sotto di noi le curve della costa iniziano a dissolversi lentamente, come se la Sardegna si stesse ritirando in silenzio. Il Cessna punta deciso verso sud-est, lasciandosi alle spalle la terra ferma e dirigendosi verso il vuoto azzurro del Mediterraneo.

Ci sono partenze che sembrano silenzi. Ma sono promesse.

Saluto all’Italia (foto flight simulator 2024)

Rotta verso Sud

Vedo la costa allontanarsi alle nostre spalle e penso all’Italia. Chissà quando la rivedremo. Chissà come saremo cambiati dopo questo viaggio in giro per il mondo. Non si tratta solo di distanza ma di un addio momentaneo a qualcosa che conosciamo bene, per andare incontro a tutto ciò che ancora non sappiamo.

Mi schiarisco la voce. «Ok Skippy… ci siamo. Pronta a inserire l’autopilota?»

Lei si raddrizza di colpo, le orecchie dritte, poi balza in avanti con un saltello elegante e si sistema in braccio a Veronika, con lo sguardo fisso sul pannello. È tutta occhi.

«Guarda qui» dico, indicando lo schermo del Garmin 1000. «Come sai quella linea viola che vedi è la rotta che ho già impostato nel piano di volo. In pratica, ci basta seguirla. Siamo leggermente fuori rotta ora ma niente che il pilota automatico non possa correggere.»

Skippy inclina la testa, incuriosita.

«Per attivarlo non dobbiamo fare molto. Prima premiamo NAV, così il sistema capisce che vogliamo seguire quella linea viola. Poi AP, che sta per Auto Pilot, e da lì inizia a fare tutto da solo: mantiene la quota, corregge la direzione, gestisce il trim. Io sto qui a guardare… e a fidarmi.»

Un bip. Una vibrazione sottile e poi, come se fosse guidato da una volontà propria, il Cessna si inclina leggermente, si corregge, si riallinea con calma e precisione alla rotta.

È strano. Dopo quasi duemila chilometri volati a mano, seguendo il profilo del terreno, leggendo il paesaggio come una mappa viva… sentire l’aereo che si muove da solo è quasi surreale. Come se avesse preso il comando.

«Mi fa effetto» ammetto, tenendo comunque le mani vicine ai comandi. «È come se stesse dicendo: tranquillo, da qui ci penso io.»

Veronika sorride. Skippy si sistema meglio in braccio a lei, soddisfatta.

E il nostro piccolo Cessna, sospeso nel blu, continua dritto verso sud.

A volte bisogna solo fidarsi. E lasciarsi portare.

Sorvolando il mediterraneo direzione Sud (foto flight simulator 2024)

Gioco tra le Nuvole

Sono passati solo pochi minuti da quando ho attivato l’autopilota ma già mi sento… insofferente.

Il panorama è anche affascinante visto da quassù, con il mare che si stende sotto di noi come un tappeto blu punteggiato da nuvole sparse. Ma non sto pilotando. Non sto facendo nulla. Mi sembra quasi di essere diventato un passeggero del mio stesso aereo.

Allungo una mano verso il Garmin 1000, più per tenermi occupato che per necessità. Passo in rassegna schermate, dati, impostazioni. Poi premo un tasto di troppo, per sbaglio.

Silenzio. Poi, pochi istanti dopo, una voce secca dall’ATC nelle cuffie:

«SWA172, non riceviamo più il segnale dal vostro transponder. Si prega di riattivare immediatamente.»

«Ops…» sussurro, più a me stesso che agli altri. Rimedio subito, riattivandolo in una frazione di secondo e poi mi appoggio allo schienale facendo finta di niente, con l’aria di chi sta semplicemente riflettendo sull’esistenza.

Veronika, che ha sentito la comunicazione in cuffia, mi lancia uno sguardo di quelli che non hanno bisogno di parole, poi risponde alla radio con la sua solita calma composta:

«Copiato, confermiamo disattivazione involontaria. Problema risolto. Grazie per l’assistenza.»

Per fortuna siamo ancora in spazio aereo italiano. Avremmo potuto creare e avere problemi.

Per distrarmi lei inizia a giocherellare con Skippy, indicando le nuvole sparse all’orizzonte.

«Guarda quella! Non ti sembra un delfino con la coda in su?»

Skippy si solleva in piedi sulle gambe posteriori e imita la forma con le zampette tese in aria. Scoppiano entrambe a ridere.

Ne indicano un’altra che, secondo loro, sembra un gelato rovesciato. Provo a indovinare «fungo» e Skippy scoppia a ridere indicandomi come se fossi ridicolo.

Il tempo passa così, tra una nuvola e l’altra ma la traversata mi pesa.

Il blu è sempre uguale, l’orizzonte è lontano e immobile.

Controllo la rotta e la mappa sul tablet. Ormai non dovrebbe mancare poco, spero di avvistare presto la costa. Anche solo una linea sottile all’orizzonte. Un segno che stiamo arrivando.

Quando il cielo si fa eterno, anche le nuvole diventano gioco e rifugio.

Tra le nuvole (foto flight simulator 2024)

Avvistamento

Tra le nuvole sparse finalmente compare una linea chiara all’orizzonte.

Mi raddrizzo all’istante, abbandonando la posizione svogliata in cui ero sprofondato da un po’.

Veronika, che stava ancora giocando con Skippy, se ne accorge subito e mi osserva.

«Ci siamo quasi» dico con un sorriso che sa di sollievo e stupore insieme.

Lei non dice nulla ma si china a prendere lo zaino e con un gesto teatrale lo apre. Affonda una mano dentro, poi la solleva come una prestigiatrice e annuncia:

«Ta-daaa! La guida della Tunisia, comprata questa mattina in aeroporto.»

Scoppio a ridere. «Non ci avevo nemmeno pensato… ero troppo assonnato anche solo per ricordartelo.»

«Infatti» risponde soddisfatta, sfogliando le prime pagine con Skippy che si avvicina, curiosissima, le orecchie tese e lo sguardo fisso sulle immagini.

«Dovremmo arrivare sulla costa all’altezza di Biserta, giusto?»

«Sì, più o meno tra cinque minuti.»

Lei cerca la sezione nella guida, poi legge ad alta voce:

«Eccola. Biserta, conosciuta anche come Bizerte, è una delle città più antiche della Tunisia. Fondata dai Fenici è stata poi occupata dai Romani con il nome di Hippo Diarrhytus. In epoca moderna è stata un importante porto francese, tanto che fu l’ultima città tunisina a essere restituita all’indipendenza, nel 1963. Il suo porto militare è ancora oggi attivo e il centro storico ha mantenuto molte tracce dell’epoca coloniale.»

Mentre parla, inizio a distinguere i contorni più netti della costa: il porto, le case bianche disposte a ventaglio attorno alla baia e poi un edificio in particolare cattura la mia attenzione.

«Quello cos’è?» chiedo, indicando con il dito una struttura allungata, vicina alla linea dell’acqua, con una forma che spicca tra le costruzioni più basse del centro.

Veronika stringe gli occhi, cercando di seguire la direzione che indico. Sfoglia ancora un paio di pagine della guida, poi mi dice:

«Dovrebbe essere il Musée de la Marine. Qui dice che si trova proprio nel porto vecchio. È un museo dedicato alla storia navale della Tunisia, con collezioni che vanno dalle imbarcazioni puniche fino ai sottomarini dell’epoca francese. L’edificio era una caserma, poi è stato riconvertito negli anni Sessanta.»

«Lo vedo benissimo da qui» mormoro. «Ha un’aria austera, militare. Ma affascinante.»

«Come tutto in questo paese» aggiunge lei con un sorriso. «Un miscuglio di epoche, culture, dominazioni. E in mezzo a tutto questo, eccoci qua…»

Skippy sbircia fuori dal finestrino, poi torna a guardare la guida come se volesse capire meglio anche lei dove siamo finiti.

Il nostro piccolo aereo prosegue lento, sospeso tra cielo e mare. Davanti a noi, la Tunisia si apre come un nuovo inizio.

Quando vedi una nuova costa all’orizzonte, capisci che stai per ricominciare da capo.

Avvistamento della costa Tunisina (foto flight simulator 2024)

Bizerte

Durante il sorvolo di Biserta, il mio sguardo viene attirato da un’ampia distesa d’acqua interna.

«È il Lac de Bizerte» dice Veronika, che evidentemente ha notato la stessa cosa. Osserva il suo contorno quasi circolare, separato dal mare solo da una sottile lingua di terra.

Pochi minuti dopo, ne appare un altro sulla sinistra. Più stretto, sinuoso, con acque calme e grigie.

«E quello?» chiedo, indicando la Lagune de Ghar El Melh. «Com’è possibile che ci siano due bacini così grandi a ridosso della costa? A cosa servono?»

Veronika alza la guida e sfoglia con attenzione. «Sono aree lagunari, utilizzate da secoli per la pesca e come zone umide protette. Ghar El Melh, in particolare, è un’antica base navale ottomana, poi diventata un importante centro commerciale. Oggi è anche una riserva naturale, soprattutto per gli uccelli migratori

Scorriamo leggeri sopra Sebkha Ariana e anche qui l’acqua si estende silenziosa, mescolandosi a tratti con il sale, creando sfumature tra l’azzurro e il bianco.

«Anche questa piena d’acqua…» mormoro, affascinato. «Sembra che il mare si sia infilato ovunque.»

Poi la voce dell’ATC ci interrompe con un tono chiaro e tranquillo:

«SWA172, potete proseguire in VFR, autorizzati alla discesa.»

«Ricevuto, continuiamo in VFR.»

Imposto la nuova quota e inizio la discesa, felice di riprendere il controllo manuale. Le nubi si fanno più vicine, striate e basse, come se stessero accarezzando la città. E tra di esse, appare Tunisi.

È molto più grande di quanto immaginassi. Un intreccio fitto di edifici, strade, minareti e tetti piatti, incastonato tra altri specchi d’acqua.

Da quassù la terra sembra acqua, e l’acqua… una mappa segreta che solo il cielo può leggere.

Bizerte dall’alto (foto flight simulator 2024)

Tunisi dall’Alto

Sorvoliamo Tunisi con le nuvole che continuano a coprire gran parte della visuale mentre scendo. Riesco solo a distinguere scorci della città, interrotti da veli bianchi che si muovono lenti sotto di noi. L’aeroporto dovrebbe essere poco lontano ma, per ora, non riesco ancora a vederlo.

Nel frattempo mi colpiscono due nuovi specchi d’acqua, vasti, silenziosi, che si aprono ai lati della città come laghi interni.

Poi finalmente scendiamo sotto il livello delle nuvole e la vista si apre. L’aeroporto appare alla nostra sinistra, grande, moderno, con due piste parallele. Ma prima di allinearmi alla discesa, un groviglio di tetti e strade strette mi attira lo sguardo.

«È la Medina, vero?» chiedo a Veronika, mentre controllo gli strumenti.

Lei annuisce. «Sì, il cuore antico della città. È lì che dobbiamo andare… per cercare Adnen o suo figlio.»

Non serve aggiungere altro. Entrambi ricordiamo bene le parole del professor Lissia e l’anello che Skippy stringe ancora con cura nello zaino.

«Speriamo di trovarlo» mormoro.

Mi allineo con calma, mantenendo la rotta. Subito dopo, allineandoci con la pista, sorvoliamo il Lac de Tunis e, proprio al centro, noto un isolotto collegato alla terraferma da una sottile lingua di strada.

«Cos’è quello?» chiedo, indicando il piccolo promontorio isolato.

Veronika, ancora con la guida in mano, dà un’occhiata rapida prima di chiuderla per il finale di volo.

«È l’Île Chikly,» risponde. «C’è un fortino sopra, si chiama Fort Chikly. Lo costruirono gli spagnoli nel Cinquecento, ma in realtà era un sito molto più antico, usato già dai cartaginesi. Per secoli è stato abbandonato, poi l’hanno restaurato da poco. Adesso è una riserva naturale, non si può visitare liberamente.»

«Interessante,» mormoro, mentre inizio a ridurre la velocità e abbassare i flap per la discesa finale.

Tunisi è apparsa viva, immensa, piena di storie. E noi stiamo per toccare terra.

Non tutti gli atterraggi segnano una fine. Alcuni… sono l’inizio di qualcosa che non possiamo ancora vedere.

Tunisi vista dal Cessna (foto flight simulator 2024)

Atterraggio a Tunisi

I carrelli toccano terra con un leggero sobbalzo. Freno con delicatezza e lascio che il Cessna rallenti progressivamente sulla lunga pista dell’aeroporto di Tunisi-Cartagine.

Seguiamo le indicazioni del ground control e iniziamo un lungo rullaggio tra taxiway ampie, affiancati da jet di linea e piccoli aerei d’affari. L’aeroporto è più grande e trafficato di quanto immaginassi.

Quando raggiungiamo finalmente la piazzola assegnata, spengo motore e avionica. L’elica rallenta, si ferma. Il silenzio che segue ha un suono strano, sospeso.

Scendiamo con zaini e documenti in mano. Un addetto in uniforme ci accoglie con cortesia e ci accompagna in un edificio secondario, dove iniziano le pratiche di ingresso.

Consegniamo il piano di volo stampato, i passaporti, le autorizzazioni ricevute via email. Poi tocca ai controlli doganali: uno sguardo nei bagagli, domande su dispositivi elettronici e medicinali.

Quando uno degli agenti apre lo zaino di Skippy, il suo sguardo si fa più attento. Tira fuori uno alla volta i piccoli oggetti raccolti durante il viaggio: la monetina di Napoleone, la campanellina di Calvi, la testa dei giganti e tutti gli altri.

«Cosa sono questi?» chiede il doganiere, rivolgendosi a Veronika con un’espressione che si è fatta più sospettosa.

«Souvenir» risponde Veronika, con voce calma. Apre la guida turistica che aveva nello zaino, poi sfila una bustina in plastica dove sono indicati i nomi dei musei visitati. «Vengono tutti da esposizioni pubbliche. Nessun pezzo originale, solo riproduzioni comprate nei bookshop o regalate da persone che abbiamo incontrato.»

L’uomo li osserva uno per uno, perplesso. Poi, mentre li sta riponendo nello zaino, nota l’anello di bronzo e il bottone inciso. Li prende in mano, li gira tra le dita.

Un brivido mi corre lungo la schiena. Sono gli unici due oggetti autentici.

Li osserva ancora per un attimo, poi li rimette nello zaino senza dire nulla dandogli evidentemente poca importanza.

Un altro agente ci consegna i passaporti timbrati.

Possiamo passare.

Ci ritroviamo fuori, nel piazzale assolato dell’aeroporto. L’aria è diversa. Più calda, più secca.

Non c’è quella brezza salmastra che accarezzava le mattine in Sardegna. Qui l’aria resta ferma, avvolgente, come se trattenesse il respiro.

Sento un odore che non riconosco subito. Una miscela di terra asciutta, spezie lontane e qualcosa di ferroso, antico. Come se la città ci stesse annusando a sua volta, prima di lasciarci entrare.

Veronika mi guarda con un sorriso leggero, lo stesso che aveva quando ci siamo alzati stamattina. Ma ora lo sento anche carico di attesa.

Io ho ancora una sola domanda in testa:

Troveremo questo Adnen?

Ogni confine attraversato non è mai solo geografico. È una soglia tra il conosciuto e l’imprevisto.

Atterraggio con vista sul forte (foto flight simulator 2024)

14 + Diario di Volo Oristano Cagliari

Canti e Balli

Sono circa le 17 quando entriamo nella zona dei voli privati dell’aeroporto di Oristano. Il giro in città è stato piacevole e sono contento di aver convinto Veronika a non puntare dritto su Cagliari. Seguiremo la costa sud-occidentale allungando un po’ il volo per sorvolare i tratti più selvaggi della Sardegna.

Mentre sistemo i controlli a bordo sento, dietro di me, un ritmo di battiti irregolari. Mi volto. Veronika sta canticchiando una canzone francese che non conosco, mentre Skippy cerca di tenere il tempo tamburellando con le zampette.

Poi, all’improvviso, Skippy si gira verso di me e comincia a ballare in equilibrio precario, con le braccia allargate come se fosse pronta a spiccare il volo.

«Dai Cami, cantala anche tu!» dice Veronika, voltandosi con un sorriso che non ammette repliche.

«Mmm… meglio di no» rispondo mentre continuo a concentrarmi sul tablet di bordo dove sto impostando il piano di volo.

Skippy si blocca, mi fissa, poi inclina la testa da un lato con espressione esasperata. E insieme, all’unisono, partono con un fragoroso: «Booooooh!»

Scoppio a ridere. L’intesa tra loro è tornata quella di sempre e io, anche stonato, mi sento di nuovo parte di un trio felice e festoso, in un viaggio attorno al mondo.

La leggerezza non è una distrazione ma il modo migliore per iniziare una nuova rotta.

in decollo da Oristano (foto flight simulator 2024)

Saluti dall’alto

Poco dopo il decollo sorvoliamo Cabras per un passaggio simbolico sopra il Museo dei Giganti. Non possiamo vederle ma Veronika alza la mano e sorride: «Ciao Gavina… e ciao anche a lei direttrice!»

Skippy fa un cenno con la zampa, poi torna a fissare il paesaggio dal finestrino, con le orecchie dritte e il muso appoggiato al vetro. Lì sotto la terra è piena di storie che solo pochi sanno leggere.

Veronika apre lo zaino e tira fuori la guida sulla Sardegna e la macchina fotografica. Il movimento è fluido, istintivo. In quel gesto c’è tutto quello che siamo: lei che legge e racconta, io che volo e ascolto, Skippy che osserva come se tutto fosse un gioco.

«Tharros era un’antica città fenicia, poi cartaginese e infine romana» inizia, senza bisogno che io le chieda nulla. «Fondata probabilmente nell’VIII secolo avanti Cristo, proprio dove il promontorio si allunga nel mare… guarda là!»

Indica con la mano sinistra mentre con la destra tiene aperta la guida. Dal finestrino si vedono i resti delle strade lastricate, le terme, qualche colonna sparsa. Il promontorio di Capo San Marco le protegge come un muro naturale che ha retto a tutto tranne che al tempo.

«E vedi quella laguna? O stagno… non lo so, sembra quasi un lago. Lì dietro, nascosto tra le colline, c’è il sito di Mont’e Prama. Le statue dei giganti, i frammenti, tutto è venuto fuori da lì. Anni fa. Sotto terra. Quasi per caso.»

Osservo l’area che mi ha indicato, poi osservo lei: «Ma lì non c’è nessun monte… sembra una pianura. Perché si chiama Mont’e Prama allora?»

Veronika sorride, sfoglia qualche pagina della guida e risponde:
«In effetti non è un monte. “Prama” pare venga da pramma, che in sardo antico significa “palude” o “zona bassa e fangosa”. E il “mont’e” sarebbe più un modo di dire che una vera elevazione. Insomma, più che Mont’e Prama dovrebbero chiamarlo Collinetta del Fango.»

Poi mi guarda con un’espressione teatrale: «Ma vuoi mettere che suona meglio così che i Giganti della Collinetta del Fango?!»

Scoppiamo a ridere.

A volte, dietro i nomi più solenni, si nascondono le verità più semplici.

Capo San Marco visto dal Cessna (foto flight simulator 2024)

Ricapitolando

Lasciamo alle spalle il promontorio di Tharros e ci spostiamo lungo la costa verso Capo Frasca, dall’altra parte del golfo di Oristano. Il mare è calmo, tagliato solo da qualche scia leggera che si dissolve in fretta. La costa si allunga in curve morbide, il sole che comincia a calare alla nostra destra tinge tutto con riflessi dorati e arancio.

Veronika sfoglia la guida un’ultima volta, poi la richiude e si gira verso di me con quell’espressione da “organizzatrice di pensieri seriale”.

«Oook, ricapitoliamo un po’ di cose, così da avere la mente più lucida quando parleremo con questo professore.»

Mi guarda sollevando un sopracciglio. Alzo la mano dalla cloche e faccio un piccolo gesto che vuol dire “vai”. Skippy, che capisce l’atmosfera, balza avanti e si siede in braccio a Veronika, pronta a partecipare attivamente alla ricostruzione.

«Bene» comincia Veronika. «Grazie alle doti investigative di Skippy a Bonifacio è saltato fuori quel pezzo di stoffa con un simbolo inciso.»

«Bisso marino» le ricordo, senza staccare gli occhi dall’orizzonte. «Il che lo rende già di per sé qualcosa di importante, visto che viene creato, incredibilmente, da un mollusco.»

«Già. Un pezzo di bisso marino con alcune incisioni» ripete Veronika, puntandomi contro l’indice come per avvalorare la mia precisazione. «Non so perché mi ha catturata subito e così ho iniziato a fare ricerche che… beh, mi hanno portato a pensare ai Giganti della Collinetta di Fango.»

Scoppiamo a ridere nuovamente entrambi, mentre Skippy ci guarda confusa, probabilmente offesa per l’uso poco epico del nome.

In questo momento arriviamo sopra Capo Frasca e noto qualcosa a terra.

«Guarda lì… com’è che la sabbia si spinge così tanto verso l’interno? Sembra che salga quasi fino alle case.»

Veronika si rimette subito al lavoro. Sfoglia rapida la guida, Skippy l’aiuta con una zampa tenendole ferma la pagina. «È la spiaggia di Torre dei Corsari» mi dice. «Quel paesino che si vede là in alto che la sovrasta.»

Poi alza gli occhi, quasi divertita: «Quella sabbia si muove. Pare che, con il vento giusto, riesca a salire fin sopra la strada. È uno dei pochi posti dove puoi parcheggiare e trovare la macchina mezza insabbiata al ritorno… anche se era ferma.»

«Un parcheggio volante, praticamente.»

Lei ride. «Sì, ma naturale. Una duna di venti metri che avanza piano piano, anno dopo anno. E nessuno riesce a fermarla davvero.»

A volte la sabbia avanza più in fretta delle certezze.

verso Capo Frasca (foto flight simulator 2024)

Buggerru

«Quindi eravamo al fatto che pensavi che il bisso e le sue incisioni fossero legate ai giganti» dico mentre sorvoliamo la costa in direzione di Capo Pecora con il mare che si apre ampio sotto di noi.

«Già» risponde lei, abbassando leggermente il tono. «Ti ho convinto a volare a Santa Teresa di Gallura per visitare il sito di Lu Brandali. C’era una foto sfocata che avevo trovato online… dove una roccia in questo luogo sembrava avere lo stesso simbolo.»

Mi giro un attimo a guardarla. Ha lo sguardo fisso sul tablet ma un velo di tristezza le attraversa gli occhi.

«Però… arrivati lì abbiamo scoperto che era solo un abbaglio. Il simbolo era diverso. Mi sono fatta confondere da una stupida foto sfocata.»

Le prendo la mano senza dire nulla per qualche istante. Poi, con tono leggero ma sincero:
«Succede. E comunque… non saremmo arrivati fin qui, in questa storia, se non fossimo partiti proprio da quel passo falso.»

Lei mi stringe la mano e sorride, in silenzio. Skippy l’abbraccia per darle ulteriore conforto.

Guardo giù. Un’altra spiaggia si allunga verso l’interno. Anche qui, come poco fa, la sabbia sale verso le colline come spinta da qualcosa che non si vede. Evidentemente, penso, in questa zona il vento ha sempre comandato la forma delle cose.

«Capo Pecora» dice Veronika, tornando a parlare. «È uno dei luoghi più selvaggi di tutta la costa ovest. Non c’è quasi niente qui: rocce, macchia, vento. Ma sotto, nella zona che chiamano Buggerru e Scivu, sono stati trovati resti di attività antichissime. Cunicoli, tracce nuragiche, persino voci di gallerie che scendono molto più in profondità del normale.»

A volte anche gli sbagli ci indicano la strada giusta.

Buggerru (foto flight simulator 2024)

Masua

Sorvoliamo una lunga distesa dorata che si perde verso l’entroterra. «bella questa spiaggia» dico mentre la osservo allungarsi sotto di noi come una striscia morbida tra mare e colline.

«Portixeddu» mi dice Veronika dopo aver controllato. «È lunga quasi due chilometri. Sabbia fine, niente stabilimenti. Solo vento e onde. Dice che era frequentata dai pescatori e dai minatori in cerca di silenzio.»

Alla fine della spiaggia appare un piccolo paese incastonato tra le montagne, come aggrappato ai pendii. Le case sono addossate l’una all’altra, incorniciate dal verde e dal blu del mare.

«È Buggerru», dice Veronika. «A inizio Novecento la chiamavano “la piccola Parigi” per via delle case eleganti costruite dai dirigenti della compagnia mineraria francese che operava qui. Ma era anche un luogo di lotte e di dolore. Proprio da qui, nel 1904, partì una delle prime manifestazioni operaie della Sardegna. La repressione fu durissima. Tre minatori furono uccisi.»

Pochi istanti dopo, più avanti sulla costa, compare un profilo che cattura subito lo sguardo: una parete di roccia forata, come scolpita da una mano umana. Ai suoi piedi, un piccolo promontorio con costruzioni che sembrano uscite da un’altra epoca.

«Lì è Masua» continua lei, indicando col dito. «E quella è la bocca di Porto Flavia. Una galleria scavata nella roccia per caricare i minerali direttamente sulle navi. Dietro quella parete c’è tutto un sistema di cunicoli e binari. Un capolavoro ingegneristico. E anche una delle immagini più iconiche della Sardegna dimenticata.»

Resto un momento in silenzio. “stupenda” esclamo. Poi più avanti indico un punto all’interno, un po’ più lontano dalla costa.

«Là dietro c’è Iglesias. Avevo pensato di includerla nella rotta ma era troppo fuori traiettoria. Dovevamo fare delle scelte.»

Veronika scuote la testa piano. «Non fa niente, te ne parlo io.»

Sfoglia qualche pagina e inizia a leggere: «Iglesias è una città antica, con una lunga storia legata alle miniere. Prima ancora, fu un centro fortificato nel periodo giudicale. Il suo nome viene da “Ecclesiae”, per via delle tantissime chiese presenti. Ce ne sono più di venti nel centro storico. E poi ci sono ancora i resti delle mura pisane, costruite nel Duecento. Pare che i Pisani la considerassero così importante da difenderla come una piccola roccaforte nel sud dell’isola.»

Chiude la guida e mi guarda. «Era una città di ricchezza e fatica. Di preghiera e di ferro. E anche se oggi è un po’ fuori dalle rotte turistiche ha ancora un’anima forte.»

Da qui in avanti, la costa si fa ancora più scoscesa. E qualcosa ci dice che il meglio deve ancora arrivare.

Alcuni luoghi resistono al tempo con la sola forza della memoria.

Porto Flavia (foto yepsea.com)

Tre Isole

Siamo in vista di Portoscuso e delle isole di San Pietro e Sant’Antioco. La luce del sole filtra tra le nuvole con quei raggi obliqui che sembrano accarezzare il paesaggio. Il mare sotto di noi è calmo, punteggiato da riflessi argentati. Le ombre delle nuvole scorrono leggere sulla superficie, come se stessero giocando a rincorrersi con l’orizzonte.

Veronika torna a ricordare. «Menomale che la guida di Lu Brandali ci ha parlato di Gavina.»

«Infatti» rispondo io, con un mezzo sorriso. «Se non avessimo incontrato di nuovo la guida, ora saremmo sul versante opposto dell’isola.»

Lei si volta, con un’espressione mista tra complicità e dispiacere. «Lo so che ti sarebbe piaciuto di più… ma questa avventura la volevo proprio tanto seguire.»

Skippy, senza esitazione, la indica con la zampa come a dire “ha ragione lei”. Ci scappa da ridere.

«Va bene così» le dico. «È stato divertente, piacevole… e poi, a me importa stare insieme. Viaggiare. E soprattutto vederci felici e affiatati come oggi.»

Veronika mi guarda per qualche secondo in silenzio, poi sorride. «Oh, quello dev’essere Portoscuso» dice indicando la costa.

«Qui c’era una delle tonnare più importanti del Mediterraneo» continua. «Fino a pochi decenni fa, la pesca del tonno qui era tutto. E il nome del paese viene da “porto oscuro”, perché un tempo era nascosto, protetto dalle rocce. Quasi invisibile dal mare.»

Poi indica a destra. «Quella è l’isola di San Pietro. A colonizzarla, nel Settecento, furono pescatori liguri provenienti da Tabarka, in Tunisia. Ancora oggi parlano un dialetto genovese: il tabarchino

«E lì davanti invece… Sant’Antioco. È collegata alla terraferma da un istmo. E pare sia uno dei luoghi abitati più antichi d’Italia. Fondata dai fenici, poi cartaginese, poi romana. E ancora oggi ci sono zone dove si parla il sardo più arcaico di tutta l’isola.»

Le isole ci vengono incontro, lente. Il sole le illumina a tratti e il volo, per un momento, sembra sospeso nel tempo.

Ci sono luoghi che non chiedono di essere spiegati. Basta sorvolarli per capirli.

Isola di Piana, l’isola dei Ratti e San Pietro (foto flight simulator 2024)

Carloforte

Sorvoliamo due piccoli lembi di terra appena emersi dal mare. Da qui sembrano scogli allungati ma Veronika riconosce subito il profilo sulla mappa di bordo.

«Sai che questo isolotto qui sotto si chiama… isola dei Ratti?» dice sorridendo, mentre indica il punto esatto. «Pare che il nome venga dal fatto che, per secoli, le barche lasciavano qui provviste e i ratti, quelli veri, si moltiplicavano in fretta. Per anni non è stato altro che uno scoglio infestato.»

Poi allarga il braccio verso destra. «Quella più grande invece è l’isola di Piana. Oggi è una proprietà privata ma un tempo era utilizzata per l’allevamento del tonno rosso. Qui si tenevano le tonnare fisse, legate a Carloforte, e tutta l’economia girava intorno al mare.»

«Un’intera isola privata. Che bello sarebbe averne una» commento

Mentre questo pensiero resta sospeso nell’aria ci avviciniamo a Carloforte, il centro principale dell’isola di San Pietro. Veronika sospira. «Questa città è un piccolo mondo a parte. Parla un dialetto ligure, cucina come in Tunisia e vive con il ritmo del mare.»

Poi torna al filo della nostra storia, come se il volo stesso glielo avesse appena ricordato. «Dicevamo che Gavina ci ha accompagnato a Cabras. Lì lavora ancora una sua vecchia collega, la direttrice del museo. Ci ha fatto vedere due reperti che pensa siano collegati a quello che stiamo cercando.»

«Uno dei due… interessante ma poco chiaro» aggiungo. «Una figura più alta delle altre tre. Potrebbe rappresentare un gigante o forse una persona, un’entità importante per quel gruppo.»

Il motore ronza tranquillo. Sotto di noi, l’isola scorre lenta. E qualcosa, tra le nuvole e il mare, ci spinge a continuare.

Ogni isola ha la sua voce. Basta volare bassi per sentirla.

Isola di Piana (foto flight simulator 2024)

Calasetta e Sant’Antioco

Sorvoliamo la punta settentrionale dell’isola di Sant’Antioco passando sopra Calasetta, un piccolo paese bianco affacciato sul mare. Le case sembrano scolpite nella luce, allineate come conchiglie e le strade disegnano un reticolo semplice tra i tetti bassi e le barche in porto.

«Calasetta fu fondata nel Settecento da coloni provenienti da Tabarka, come per Carloforte» racconta Veronika. «Ma qui parlano un tabarchino diverso, più influenzato dal sardo. È un paese di pescatori e di artisti, pieno di gente che sa costruire le reti con le mani e le storie con le parole.»

Poi guarda verso sud, oltre le colline. «Tutta questa parte dell’isola è piena di reperti nuragici. Tombe dei giganti, pozzi sacri. Alcuni sono ancora semi-sommersi dalla vegetazione. Pochi turisti ci vanno ma chi cerca davvero, trova.»

Ci avviciniamo lentamente alla cittadina di Sant’Antioco, adagiata sul lato orientale. Il centro è più grande, vivo, con strade che scendono verso il mare. Dal cielo si vedono le cupole delle chiese e i moli affacciati sulla laguna.

«Sai la cosa più assurda è che, sotto le case moderne, ci sono ancora interi tratti di necropoli scavate nella roccia. Qualcuno vive letteralmente sopra le tombe antiche.»

Poi torna al nostro filo ispirata da quella stratificazione di epoche.
«La seconda tavoletta invece era molto più interessante. A quanto abbiamo capito si tratta di un codice segreto. Qualcuno, in epoca più recente, ha provato a imitarlo, creando un linguaggio simile. E quel simbolo inciso sul bisso… potrebbe far parte proprio di quel sistema. La direttrice ha qualche ipotesi ma nulla di certo. Non è ancora stato decifrato davvero.»

Lo dice mentre sorvoliamo le saline di Sant’Antioco. Le vasche rettangolari si allungano come specchi, alcune bianche, altre rosate e la luce del tramonto le trasforma in un mosaico silenzioso.

Ci sono verità che affiorano lente, come isole nel sale.

Calasetta a Sant’Antioco (foto flight simulator 2024)

Oltre il Confine

Inizio a prendere quota per superare i rilievi che ci separano dalla costa meridionale. Il paesaggio cambia: le curve si stringono, le rocce si fanno più scure e il vento accarezza l’aereo con una leggerezza nuova. Davanti a noi, tra una piega del terreno e l’altra, noto strane geometrie sul suolo: rettangoli perfetti, strade sterrate, spiazzi che sembrano preparati per qualcosa che non ha a che fare con la natura.

«Che cos’è quella roba laggiù? Sembra… un campo di manovra?»

Veronika si sporge leggermente, osserva, poi annuisce. «Sì. È una zona militare. Uno dei principali poligoni italiani: Capo Teulada. Viene usato per esercitazioni, test, manovre. Lì dentro fanno di tutto: blindati, artiglieria, simulazioni navali. È un’area chiusa e da anni ci sono polemiche sulla sicurezza ambientale… ma nessuno ha mai raccontato davvero cosa succede lì.»

Skippy si appoggia al finestrino per poter osservare meglio tutti quei segni strani mai visti fino ad ora. Segni di cingoli, piccoli crateri d’esplosione. Skippy li osserva in silenzio. Forse pensa che non ne valga la pena. Non per questo paesaggio.

Sorvoliamo il confine visibile tra il verde naturale e la terra battuta dagli uomini e, appena dopo il crinale, il panorama si apre di colpo: la piana di Pula si distende come un tappeto che arriva fino al mare.

Veronika torna al nostro discorso, quasi come se avesse aspettato quel momento.
«La direttrice ci ha poi accennato ad altri dettagli su Ampsicora e sulla sua fuga. Dice che c’è chi sostiene sia morto ma lei è convinta che sia riuscito a scappare. Non sa dove… ma ci ha detto che potrebbe saperlo una persona molto informata che si trova proprio lì, a Nora

Tra segreti militari e memorie antiche ogni crinale può nascondere una risposta.

Segni dei cingoli a Capo Teulada (foto flight simulator 2024)

Atterraggio

Sorvoliamo la zona industriale di Sarroch, dove ciminiere e strutture metalliche si alternano a campi coltivati e nastri d’asfalto. La luce del tardo pomeriggio rende tutto meno ruvido, quasi cinematografico. Inizio ad abbassare la quota mentre ci dirigiamo verso Cagliari ormai vicina.

Una fila di pale eoliche si staglia contro il cielo, immobili per un attimo, come se ci stessero aspettando. Sotto di loro, enormi cumuli di sale, ordinati in file regolari. Li sorvoliamo con un leggero colpo d’ala, poi ci immettiamo nel circuito di discesa verso l’aeroporto.

Skippy salta con agilità sul sedile posteriore e si allaccia la cintura con il solito gesto goffo ma deciso. Veronika chiude la guida, scatta un’ultima foto dal finestrino e mette via anche la fotocamera, con un piccolo sospiro.

Mi allineo alla pista. Vento leggero, contatto morbido. Le ruote toccano terra e il paesaggio rallenta attorno a noi.

Spegniamo tutto ma non la tensione che resta sospesa nell’aria.

Domani ci aspetta Nora.
E con lei, forse, qualcuno che conosce la parte mancante di questa storia.
Quella che ancora non siamo riusciti a decifrare.

Non tutte le piste portano a un aeroporto. Alcune portano alle risposte che stai cercando.

Atterraggio a Cagliari (foto flight simulator 2024)

13 – Diario di Volo Alghero Oristano

Risveglio difficile

La casa di Gavina è immersa nel silenzio. Fuori la notte sta cedendo lentamente al primo chiarore dell’alba ma dentro le stanze tutto è ancora fermo, quasi sospeso nel tepore del sonno.

Ci muoviamo con discrezione, cercando di non fare troppo rumore mentre raccogliamo le nostre cose e beviamo al volo un caffè. Il tempo è prezioso: dobbiamo decollare presto per raggiungere il museo a Oristano in mattinata e avere tempo per approfondire ogni dettaglio.

Solo una di noi non sembra avere alcuna intenzione di alzarsi. Skippy, la nostra piccola fennec, è completamente abbandonata su un cuscino, le zampe allungate, le orecchie rilassate.

E russa. Forte.

Veronika si avvicina e la osserva con un sorriso divertito. «Povera piccolina, l’ho vista girarsi e rigirarsi nel sonno queste ultime notti. Aveva sicuramente bisogno di recuperare.»

Gavina suggerisce una soluzione: «Lasciatela dormire, la portiamo così com’è.»

E così, con la delicatezza di chi trasporta un vaso antico, adagiamo Skippy nello zaino di Veronika, lasciandole la testolina fuori come fa di solito quando non vuole camminare. Il tutto mentre lei continua a russare beata, del tutto ignara della missione di recupero che ha richiesto tre adulti.

Anche chi viaggia tra cielo e storia ha bisogno di dormire come un cucciolo che si finge eroe.

preparativi pre volo (foto flight simulator 2024)

Preparativi prima del volo

Il piccolo aeroporto di Alghero è tranquillo a quest’ora del mattino. L’aria è ancora fresca e il cielo si tinge di sfumature rosa e arancioni mentre ci avviciniamo al nostro Cessna parcheggiato ordinatamente nella piazzola in cui l’avevamo lasciato.

Mentre io effettuo i controlli pre-volo, Veronika si occupa di rimuovere le protezioni del velivolo, spiegando ogni passaggio a Gavina che la osserva con curiosità.

«Questa è la copertura del pitot» indica, sollevando il piccolo tappo rosso attaccato a un nastrino con la scritta “remove before flight” che pende dall’ala sinistra. «Serve a proteggere il tubo di Pitot, quello che ci fornisce la velocità dell’aria. Se ci entra sporco o insetti, potrebbe dare letture sbagliate e non è il massimo quando sei in volo.»

«Ah!» esclama Gavina, visibilmente interessata. «Quindi è una protezione per gli strumenti?»

«Esatto» annuisce Veronika, mentre si sposta verso il carrello anteriore. «E questi invece sono i blocchi delle ruote, i cunei. Servono per tenere fermo l’aereo quando è parcheggiato, soprattutto se c’è vento.» Si ferma un attimo, poi ridacchia. «Di solito se ne occupa Skippy ma credo che oggi tocchi a me.»

Quando passano accanto al finestrino posteriore, sentono un suono familiare. Skippy sta ancora russando. «Si sveglierà quando accenderemo il motore.» dice Veronika scherzando.

Gavina ride a sua volta e scuote il capo. «Sembra proprio che si fidi completamente di voi.»

«O che sia completamente distrutta» aggiunge Veronika con un sorriso mentre ripiega le coperture del motore.

Tutto è pronto. Salgo a bordo, accendo la strumentazione e faccio scorrere le ultime checklist.
Il sole si è ormai alzato sopra l’orizzonte, illuminando la pista con una luce dorata. È ora di partire.

Ogni volo inizia con piccoli rituali, sorrisi, complicità e tecnica.

decollo da Alghero (foto flight simulator 2024)

Primo volo su un Cessna

Il motore del Cessna 172 prende vita con il suo ruggito familiare, oggi gareggia col russare di Skippy. Un suono rassicurante per noi ma probabilmente non per Gavina. La nostra passeggera cerca di apparire composta ma il suo sguardo tradisce l’emozione. Le mani stringono con discrezione le ginocchia mentre gli occhi guizzano rapidi tra il cruscotto e l’orizzonte oltre il parabrezza.

«E quindi… ehm… com’è che si fa a sapere se… insomma, se tutto è pronto per decollare?» chiede, cercando di mascherare la sua agitazione con un tono curioso.

Sorrido mentre completo gli ultimi controlli, scorrendo con lo sguardo gli strumenti di bordo. «Abbiamo già verificato tutto. Ora aspettiamo l’autorizzazione e poi ci allineiamo in pista.»

Gavina annuisce ma l’espressione sul suo viso suggerisce che sta elaborando una valanga di domande.

«E… il vento? Cioè, cambia qualcosa se c’è vento?»

«Sì, certo» risponde Veronika cercando di avere un tono rassicurante. «Decolliamo sempre controvento per avere più portanza sulle ali. In pratica ci aiuta a staccarci prima da terra.»

Gavina annuisce di nuovo, come se fosse perfettamente chiaro, ma dopo un secondo: «E il motore? Dico, se per caso… cioè, se ci fosse un problema, si spegne?»

Trattengo una risata. «No, Gavina, non si spegne. E comunque abbiamo procedure di sicurezza per ogni evenienza.»

Non sembra completamente convinta ma si sforza di sorridere anche lei. Respira profondamente, guardando fuori dal finestrino mentre rulliamo verso la testata della pista. Il Cessna vibra leggermente sotto di noi, la fusoliera riflette la luce dorata del mattino e l’orizzonte davanti sembra infinito.

Quando riceviamo l’autorizzazione al decollo, mi giro verso di lei. «Pronta?»

«Prontissima» risponde in un tono un po’ troppo deciso, come se volesse convincere più se stessa che noi.

Spingo gradualmente la manetta in avanti. Il rombo del motore cresce, la pista scorre veloce sotto di noi e in pochi secondi sentiamo il momento esatto in cui le ruote smettono di toccare terra.

Gavina trattiene il fiato e, solo quando il Cessna si stabilizza in aria, osa guardare di sotto. Il paesaggio si spalanca sotto di noi: la costa nord-occidentale della Sardegna si stende come un quadro in movimento, le onde lambiscono la riva e le colline si illuminano sotto il primo sole.

«Oh…» sussurra. Poi si copre la bocca, come se avesse appena rivelato un segreto.

Veronika sorride. «Tutto bene?»

Gavina annuisce lentamente. La tensione nelle sue spalle si scioglie un po’. «Sì. È… incredibile.»

«Già» rispondo, sorridendo. «E abbiamo appena iniziato.»

Da dietro un suono ovattato ci distrae un attimo. Skippy, ancora nello zaino di Veronika, emette un piccolo mugolio nel sonno e si gira leggermente. Non ha neanche sentito il decollo.

«Direi che qualcuno è il passeggero più rilassato di tutti» commenta Veronika ridendo.

Gavina sorride, stavolta senza più tensione. Il cielo è aperto davanti a noi e il nostro viaggio tra le pietre della storia è ufficialmente iniziato.

Le emozioni non si mascherano tra le nuvole e il primo decollo non si dimentica mai.

Gavina in cabina per il suo primo volo su un Cessna (foto flight simulator 2024)

Voci di pietra

Appena lasciata Alghero saliamo dolcemente di quota puntando a sud-est.

La luce del mattino accarezza le colline e rivela, poco sotto di noi, una muraglia ciclopica che si snoda sul pianoro.

«Eccolo lì… Monte Baranta» sussurra Gavina, come se stesse salutando un vecchio amico. Si sporge leggermente per osservare meglio, gli occhi che brillano nonostante l’altitudine. «Ci ho passato mesi lassù. È uno dei siti prenuragici più affascinanti di tutta l’isola. Vedi quella linea spezzata? Quella è la muraglia megalitica. Alta cinque metri, costruita tremila anni prima di Cristo. Non c’era niente di simile nel Mediterraneo occidentale a quel tempo. Niente.»

Rallento leggermente per darle tempo di raccontare.

«Era una fortezza, sì, ma anche un luogo sacro. C’era una piattaforma cerimoniale, un menhir enorme, non lo issarono mai, lo lasciarono lì, abbattuto. Chissà perché. Forse fu un segno. Forse qualcosa li spinse ad abbandonare tutto. A volte penso che certe pietre custodiscano più domande che risposte.»

Ci guardiamo in silenzio mentre sorvoliamo il sito. In basso la muraglia sembra un’ombra che resiste al tempo, un graffio inciso nel verde della macchia.

«I nuraghi non erano ancora nati» aggiunge, con voce più bassa. «Eppure qui c’erano già uomini che costruivano con intelligenza, che difendevano, pregavano, vivevano. È da lì che inizia tutto.»

Viro verso sud seguendo il profilo morbido delle colline. Alle mie spalle la voce di Gavina riprende a fluire, profonda e viva, come un racconto che non vuole più restare in silenzio.

Sorvoliamo Santu Pedru ma è come se sorvolassimo anche i suoi ricordi, la sua terra, la sua vita passata tra studi, scavi e meraviglia.

«Quelle sono le Domus de Janas, le case delle fate» dice, indicando con un cenno le aperture regolari visibili dall’alto. «Scavate a mano nel Neolitico. Le usavano per seppellire i defunti ma anche per comunicare con l’aldilà. Ogni tomba era scolpita come una casa: con travi finte, porte chiuse, stanze interne… era il modo per accompagnare i morti in un altro tipo di vita, non per lasciarli andare.»

Veronika si gira appena, catturata.

«Le decoravano con ocra rossa, simbolo di sangue, di rinascita. Alcune hanno corna di toro incise alle pareti: un richiamo alla fertilità, alla forza… ma anche alla morte, che faceva parte del ciclo.»

«Quindi erano più che tombe» commento, lasciando che l’aereo scivoli dolcemente lungo la curva.

«Molto di più» conferma Gavina. «Erano il grembo della Terra. Ci si tornava per celebrare i riti, per chiedere protezione. Non si seppelliva e basta… si restava in relazione con i propri antenati.» Poi si fa silenziosa per un istante ma continua a fissare le rocce rosse laggiù. «Quella trachite ha visto passare migliaia di anni. E ancora ci parla, se sappiamo ascoltare.»

Le pietre parlano, se le sorvoli col cuore aperto e chi ti guida ha la voce dell’esperienza.

Alghero in lontananza con Capo Caccia illuminato (foto flight simulator 2024)

Ombre antiche

La vegetazione si fa più rada e il paesaggio si apre a campi e rocce affioranti. La tomba dei giganti di Laccaneddu appare come un allineamento discreto ma solenne, appena visibile dall’alto, nascosta tra cespugli e pietre silenziose.

«Questa» dice Gavina «è una delle tombe più antiche che ho avuto la fortuna di studiare da vicino. È lì che ho iniziato a capire che “giganti” non era solo una leggenda… ma neppure solo un nome.»

Veronika si volta verso di lei, incuriosita. «C’erano ossa fuori misura?»

Gavina sorride ma non si lascia ingannare dalla semplicità della domanda. «No. Nessun ossa enormi, niente scheletri di tre metri. Almeno, non nei contesti ufficiali, nei registri archeologici. Però…» Fa una breve pausa, lo sguardo perso oltre il finestrino. «Però ci sono storie. Racconti tramandati a voce, contadini che giurano di aver visto resti fuori scala, tombe chiuse in fretta o pietre che non si dovevano toccare. E poi ci sono le steli monumentali, le camere più grandi del necessario, le forme insolite. Qualcosa resta, anche se sfugge alla scienza.»

Ci guardiamo in silenzio mentre l’aereo procede sopra il sito.

«Il nome “tomba dei giganti” è moderno, sì. Popolare ma il fascino che suscitano… quello è reale. Nessuno che ci sia passato accanto è riuscito a ignorarle. E se i giganti non erano di carne, forse erano di memoria. O di conoscenza. O erano un’eco di un popolo ancora più antico, che la civiltà nuragica ha raccolto, custodito e trasformato.»

Il Cessna prosegue tranquillo, accarezzando l’aria.

Gavina accenna a un altro sito, più avanti. «E lì, poco oltre… c’è Puttu Codinu, un’altra necropoli.»

Rimango un attimo in silenzio, poi chiedo: «Ma queste necropoli… hanno davvero un legame con le leggende? Con le fate, con i giganti? Oppure è solo fantasia?»

Gavina annuisce lentamente, come se avesse atteso quella domanda. «Le necropoli come questa non erano semplici cimiteri. Erano santuari. Spazi di passaggio e di contatto. Le camere sono scavate come case: travi scolpite, tetti a spiovente, nicchie. È come se volessero offrire al defunto una dimora vera, scolpita nella roccia per resistere all’eternità.»

Annuisco, osservando il paesaggio sotto di noi modellato da mani millenarie con rispetto e fede.

«E poi i simboli…» continua lei. «Le protomi taurine, i menhir piantati all’esterno, le tracce di ocra. Ogni elemento era un messaggio. Solo che oggi non abbiamo più il codice per decifrarlo fino in fondo. A volte penso che la vera eredità sia proprio questa: il diritto di continuare a cercare. Forse è per questo che ero così determinata a seguire la traccia che ora state seguendo anche voi.»

Per un istante, nessuno parla. Sorvoliamo la necropoli in silenzio, con la sensazione che, laggiù, qualcosa stia ancora aspettando.

E se davvero alcune verità fossero state affidate alla pietra in attesa che qualcuno le riconoscesse?

Lo penso senza dirlo mentre davanti a noi il paesaggio continua a scorrere, lento e immobile al tempo stesso.

Non sempre i giganti sono di carne. A volte abitano nella memoria o nelle domande che restano.

il Golfo di Oristano con la sua laguna (foto flight simulator 2024)

Scosse leggere

Sorvoliamo le ultime pieghe della collina, mentre Gavina indica con lo sguardo un piccolo corso d’acqua che brilla tra gli ulivi.

«Quello è il Rio Trogos. E proprio lì, un po’ più a monte, ci sono alcuni enormi blocchi disposti in modo regolare. C’è chi lo chiama il ponte nuragico

«Un ponte?» chiedo, incuriosito. «Riuscivano davvero a spostare massi così grandi, già allora?»

Gavina sorride «Non lo sappiamo con certezza. Ma è questo il bello: anche quando le risposte sembrano semplici la terra resta più antica delle nostre certezze. Se davvero quei blocchi sono stati posizionati tremila anni fa… vuol dire che sapevano muovere la pietra come nessun altro.»

Veronika si volta con un mezzo sorriso. «O magari… sono stati i giganti

Gavina si lascia andare a una breve risata, poi risponde senza ironia: «Potrebbe anche essere. Ma servirebbero ulteriori prove, non bastano le leggende. Anche se certe storie, a forza di tramandarle, finiscono per depositarsi sulla verità come la polvere su una stele: invisibili ma presenti.»

L’aereo prosegue tranquillo e davanti a noi si apre la piana di Ollastra, punteggiata di campi e antichi muretti. Gavina indica un rilievo tondeggiante appena oltre una macchia di vegetazione.

«Là c’è la tomba dei giganti di Pranu Ardu. Era una delle più grandi della regione. Oggi resta poco: la stele è crollata, la struttura è in parte sepolta, ma intorno a quel sito… ho sempre sentito un’energia divers… »

Si interrompe di colpo.

«Aaaaaaah!» esclama, scattando di lato e sbattendo contro il finestrino sinistro. Il Cessna si inclina bruscamente verso sinistra, quanto basta per farci perdere l’equilibrio per un istante.

«Gavina?!» chiedo, voltandomi di scatto.

La scena che vediamo ci spiega tutto: Skippy, appena sveglia, ha allungato una zampina sul fianco di Gavina che, dimenticandosi completamente della sua presenza, ha sobbalzato di riflesso, sbattendo contro la fusoliera.

Veronika scoppia a ridere. «Ah, buongiorno principessa!»

Skippy la guarda confusa, guarda Gavina, guarda me… poi sbadiglia vistosamente, le orecchie un po’ piegate. Si sistema sul sedile, ancora in bilico tra sogno e realtà.

Gavina si rimette a posto con una risata trattenuta. «Scusate. Mi ha preso alla sprovvista. Giuro che me ne ero dimenticata!»

«Tranquilla, anche i ricercatori ogni tanto rimuovono i dettagli importanti» scherzo, riportando l’aereo in assetto.

Le risate riempiono la cabina per un momento. La tensione è svanita, sostituita da quella leggerezza che solo certi attimi condivisi in volo sanno creare. Davanti a noi la pianura si allunga verso sud. Oristano si avvicina.

Quando la scienza dimentica una zampa, ci pensa Skippy a ricordarle che siamo vivi.

Sorvolo dell’aeroporto di Oristano (foto flight simulator 2024)

Coordinate interiori

Poco dopo appaiono i primi tetti di Oristano, bassi, compatti, stretti tra terra e cielo.

«Una città che non ama mettersi in mostra» commenta Gavina, indicando la trama di strade e piazze laggiù. «Ma chi la conosce sa che custodisce più storia di quanto sembri. Le sue origini sono giudicali, medievali. Ma c’è molto di più, se si guarda con attenzione.»

Sorvoliamo il centro storico, la torre di Mariano, il profilo della cattedrale e il disegno chiuso dei quartieri antichi.

«Sai che qui si dice che il vento non cambi solo il tempo ma anche l’umore delle persone?» continua lei, sorridendo. «Lo chiamano il maestrale della memoria. Qualcosa che scuote ma non porta mai via davvero nulla.»

Sul sedile posteriore Skippy si stira lentamente, si strofina gli occhi con le zampine e guarda fuori, ancora mezza persa.

Mi preparo all’atterraggio. Comincio la discesa verso Oristano-Fenosu. Tutto è stabile, i flap sono giù, la velocità perfetta. Poi, nel silenzio teso e concentrato dell’ultimo tratto si sente un suono basso, lungo…

Brrrrrooomp.

Non è il motore. È la pancia di Skippy. Scoppio a ridere. «Credo dovremmo fermarci urgentemente a fare colazione.»

La cabina esplode in una risata. Anche Gavina, vistosamente tesa durante l’atterraggio, ora si lascia andare.

Con un tocco leggero poso le ruote sulla pista. Il rumore del contatto con terra è lieve, come se il Cessna stesso stesse cercando di non disturbare l’attesa. Gavina si slaccia la cintura e si sporge leggermente in avanti. «È stato bellissimo volare con voi ragazzi. Grazie davvero per questa esperienza nuova per me. Ora vediamo se la mia vecchia collega si ricorda ancora di me… e soprattutto se vorrà davvero parlare e aiutarci.»

Mi giro verso di lei.

Gavina sorride ma nei suoi occhi si accende un lampo più serio, quasi impercettibile.

Un pensiero mi attraversa la mente, rapido come una turbolenza improvvisa: E se questa sua collega non volesse davvero aiutarci?

C’è un momento, tra l’ultimo flap e l’atterraggio, in cui anche la pancia racconta la verità.

Oristano durante la discesa vista dalla cabina (foto flight simulator 2024)

12 + Diario di Volo Santa Teresa Alghero

Un Triste Risveglio

La luce filtra tra le tende della stanza quando Veronika apre gli occhi. La sento girarsi, afferrare il tablet, scorrere lo schermo con un dito. La sento sbuffare e non dire nulla. Nessuna notifica. Nessuna risposta.
Mi giro verso di lei e la guardo. Dal modo in cui lo sguardo le si perde nel vuoto capisco che la speranza della sera prima sta già svanendo.

Skippy, rannicchiata accanto a lei, apre un occhio e poi si rigira lentamente, avvolgendosi nella coda. Niente saltelli. Niente entusiasmo nemmeno per lei. Solo quel silenzio che non è mai un buon segno.
Provo a spezzare l’atmosfera con il tono più leggero che riesco a trovare:

«Io direi… colazione e poi volo. Olbia, giusto?»

Veronika annuisce, forzando un mezzo sorriso.

«Giusto…» sussurra, anche se il suo sguardo resta incollato allo schermo spento.

Poco dopo passeggiamo tra le vie ancora assonnate di Santa Teresa Gallura. L’aria è limpida, il sole è già alto ma il vento conserva ancora un tocco fresco. Ci sediamo in un bar affacciato sulla piazzetta. Il barista ci consiglia le formaggelle, dolci di ricotta e scorza di limone appena sfornati. Tre porzioni abbondanti arrivano fumanti al tavolo, con lo zucchero a velo che brilla alla luce del mattino.

Assaporo la loro morbidezza che si scioglie in bocca, poi porto lentamente il caffè alle labbra. La mente inizia a mettersi in moto: è il momento di concentrarsi sul piano di volo per Olbia.

Apro il tablet e comincio a visualizzare la rotta. Il meteo sembra stabile anche se, con queste nuvole basse, potremmo avere qualche problema di visibilità.

Skippy ha lo sguardo basso. Tiene tra le zampette un pezzetto di dolce ma non lo morde. Sembra più un pensiero che un boccone.

Poi, all’improvviso…

Bip.

Veronika scatta, riattiva il tablet. Il messaggio è breve ma abbastanza da farle brillare gli occhi.

«Mi ha risposto.» La voce le trema un po’.

Alzo lo sguardo, lasciando perdere il piano di volo. «Gavina

Veronika annuisce, l’emozione che riaffiora nei suoi occhi. «Dice che le farebbe davvero piacere incontrarci, parlare del simbolo, della stoffa, di tutto… ma ora vive ad Alghero

La fisso per un istante. Poi sorrido. «E allora… andiamo ad Alghero.»

Skippy mi guarda, poi emette un suono quasi felice e mi salta in braccio stringendomi forte. Veronika si passa una mano tra i capelli, incredula, poi ride. Di cuore.

«Le rispondo subito» dice, già digitando. «Vediamo se ci può ricevere nel pomeriggio.»

Io riapro il mio tablet ma non più per tracciare la rotta verso Olbia.

Ora si cambia destinazione. E con essa, anche l’umore.

Skippy mi lancia un’occhiata piena di gratitudine mentre addenta con gioia il suo pezzo di formaggella con un appetito finalmente ritrovato. E Veronika… be’, Veronika ha di nuovo quella scintilla negli occhi.

Il cielo sopra la Gallura è sereno. E adesso lo siamo anche noi.

A volte basta un messaggio per cambiare la rotta di un’intera giornata.

In decollo dal Campo Volo in erba (foto flight simulator 2024)

Castelsardo

Poco dopo raggiungiamo il campo volo a sud di Santa Teresa di Gallura dove il Cessna ci aspetta, lucido sotto il sole del mattino. Dopo i controlli di rito porto l’aereo sulla piccola pista erbosa. Spingo la manetta in avanti, le ruote scorrono sull’erba… e in pochi secondi siamo di nuovo in aria.
Il cielo è ancora coperto a tratti da nubi basse ma la visibilità è sufficiente per godersi il panorama. Seguendo la costa verso sud-ovest, ci lasciamo alle spalle Santa Teresa e voliamo sopra un tratto di litorale aspro e frastagliato, dove la vegetazione si aggrappa con ostinazione alle rocce.
Poi, come scolpita nel paesaggio, appare Castelsardo.

Vista dall’alto è impressionante: un intreccio di case colorate arrampicate su un promontorio di origine vulcanica che si getta a picco sul mare. Le rocce scure e irregolari sembrano fondersi con le mura del borgo, mentre la fortezza in cima domina tutto con l’eleganza austera di un guardiano antico.
«Wow…» mormoro, rallentando per poterla osservare meglio.

Veronika alza lo sguardo dalla guida, sorpresa anche lei da quella vista così scenografica. «Sembra uscita da una leggenda» dice.

Sorvoliamo lentamente il borgo, compiendo un paio di virate leggere per godercelo da più angolazioni. Il piccolo porto sotto di noi sembra un rifugio nascosto, incastonato in un’insenatura protetta. Le viuzze si arrampicano a spirale verso il castello, che da quassù appare come il cuore pulsante del borgo.
Veronika sfoglia qualche pagina della guida, poi sorride. «Sai che sotto il castello, secondo una leggenda, esiste un passaggio segreto?»

«Passaggio segreto?» chiedo, senza distogliere gli occhi dal panorama.

«Si dice che conduca a delle stanze sotterranee dove i Doria, quelli che fondarono la città nel 1102, avrebbero nascosto un tesoro.»

Veronika scatta ancora qualche foto, poi resta in silenzio, lo sguardo perso oltre il finestrino, là dove la costa si confonde con il mare.
«Chissà se anche noi troveremo quello che stiamo cercando…» mormora, più a se stessa che a me.
Non rispondo. Punto semplicemente il muso verso l’orizzonte coperto dalle nuvole, lasciando che Castelsardo scivoli alle nostre spalle.

Alcuni luoghi sembrano costruiti per custodire segreti. Altri, per risvegliarli.

Castelsardo (foto flightsimulator 2024)

Asinara

La traversata del golfo si rivela abbastanza impegnativa. Le nuvole basse, sempre più fitte, iniziano davvero a darmi qualche problema. In breve tempo la visibilità si riduce drasticamente e mi vedo costretto a mantenere la rotta e l’altitudine affidandomi quasi esclusivamente alla strumentazione del Cessna. Non è una situazione preoccupante tuttavia richiede attenzione extra e concentrazione costante.
Accanto a me, Veronika sospira appena, delusa di non poter godere della vista del mare. Decide così di approfittarne per approfondire sulla guida ciò che ci aspetta durante il sorvolo dell’Asinara.

«Sai, Cami, l’Asinara ha una storia incredibile» mi dice alzando appena gli occhi dal libro. «Per oltre un secolo è stata chiusa al pubblico, prima come colonia penale agricola e poi, dagli anni ’70, come carcere di massima sicurezza. È qui che vennero rinchiusi alcuni dei criminali più pericolosi d’Italia, tra cui boss mafiosi e terroristi delle Brigate Rosse. Solo dal 1997 è diventata Parco Nazionale e finalmente aperta ai visitatori.»

Ascolto incuriosito mentre le nuvole iniziano lentamente a diradarsi, permettendomi di intravedere le prime sagome della costa in corrispondenza di Cala d’Oliva, l’unico borgo abitato dell’isola. Veronika prosegue con entusiasmo:
«L’isola è famosa anche per gli asinelli bianchi, una specie rara e molto particolare che vive solo qui. Nessuno sa con certezza come siano arrivati sull’isola, alcuni dicono siano stati importati dall’Egitto nel 1800, altri sostengono invece che siano il risultato di una mutazione genetica locale.»

Getto un’occhiata a Skippy. È immobile, le orecchie basse, gli occhi fissi al finestrino. Ma si capisce che non sta davvero guardando. Approfittando di un momento di relativa calma del volo, allungo una mano per accarezzarle delicatamente la testa. Skippy solleva lentamente lo sguardo verso di me, fissandomi con occhi che mi sembrano più grandi e malinconici del solito. Si lascia accarezzare, appoggiando lievemente la testa sul palmo della mia mano, come a cercare conforto.

Veronika osserva la scena, intuisce la situazione e le sorride dolcemente, aprendo leggermente le braccia: «Vieni qui, Skippy. Non pensare più a ieri, andrà tutto bene oggi, vedrai.»

Skippy si volta verso Veronika, la guarda per qualche secondo con una certa esitazione, poi lentamente si avvicina, lasciandosi avvolgere dal suo abbraccio rassicurante. Veronika le passa affettuosamente la mano sulla schiena, sussurrandole con voce dolce: «Niente paura, Skippy. Oggi è un nuovo giorno. E qualunque cosa accada… ci sarò io a starti accanto. Sempre.»

Sento una piacevole stretta al cuore mentre osservo la scena, sentendomi sollevato nel vedere che Skippy finalmente si rilassa un po’.

Davanti a noi, in lontananza, inizia già a delinearsi il profilo di Stintino, ma per ora lasciamo ancora spazio a questo breve momento di conforto e calore.

Anche nei cieli più grigi, il calore di un gesto sincero può cambiare la rotta del cuore.

Asinara (foto flight simulator 2024)

La Pelosa e Stintino

Le nuvole si diradano lasciando spazio al sole che illumina il paesaggio dell’arcipelago dell’Asinara che scorre sotto di noi. La splendida spiaggia di La Pelosa, con il suo mare cristallino e la sabbia bianca e finissima che sembra quasi irreale, colpisce gli occhi.
Rallento leggermente il Cessna per permettere a Veronika di godersi appieno il panorama e scattare qualche foto. Lei cerca di coinvolgere Skippy e distrarla un pò.
«Skippy, sai perché questa spiaggia si chiama La Pelosa?» chiede con voce dolce. Skippy alza la testa, curiosa. «C’è scritto che il nome deriva dalla presenza di una vegetazione molto particolare, una specie di alga marina chiamata Posidonia oceanica, che in certi periodi si accumula sulla riva creando una sorta di tappeto morbido e filamentoso. Per questo motivo, vista da lontano, la spiaggia sembra quasi avere una peluria.»
Skippy sembra interessata, le orecchie leggermente sollevate e lo sguardo più attento. Veronika continua: «È considerata una delle spiagge più belle d’Europa. Lì davanti c’è anche una piccola torre aragonese) del XVI secolo, costruita per difendere la costa dalle invasioni dei pirati, che aggiunge mistero e fascino a questo tratto di costa.»
Mentre Veronika racconta mi accorgo che Skippy sembra finalmente distendersi leggermente, forse rasserenata dall’affetto e dall’entusiasmo contagioso di Veronika.
Dopo aver lasciato che lo sguardo si perdesse ancora un po’ nella bellezza del luogo, riallineo il Cessna verso sud. Sorvoliamo Stintino, osservando il piccolo borgo di pescatori che sembra proteso delicatamente sul mare.
«Sai Skippy, Stintino è famoso anche per essere la capitale sarda della vela latina, un’antica imbarcazione tradizionale», aggiunge Veronika, «e il suo nome curioso deriva dal sassarese “istintìnu”, che significa intestino o budello, proprio per la forma allungata e stretta della penisola dove sorge.»
Guardo fuori. L’acqua laggiù sembra dipinta. C’è una bellezza così perfetta da sembrare irreale, e per un attimo mi sorprendo a pensare quanto sia incredibile poter vedere il mondo così, da lassù.
Skippy si sporge leggermente verso il finestrino, come ipnotizzata. Le sue orecchie si muovono appena, mentre resta immobile, in silenzio.
Forse non sta solo ascoltando Veronika. Forse anche lei sente, dentro di sé, che stiamo volando verso qualcosa che conta davvero.

Ci sono luoghi che non si dimenticano e silenzi che dicono tutto

La Pelosa (foto flight simulator 2024)

Porto Torres

L’imponente struttura portuale di Porto Torres cattura immediatamente la nostra attenzione mentre ci avviciniamo. Dall’alto osserviamo la zona industriale, con le infrastrutture che testimoniano l’importanza strategica di questo snodo marittimo nel panorama sardo. Enormi silos si stagliano all’orizzonte come sentinelle moderne, silenziose, che custodiscono cereali e mangimi destinati ai mercati di mezza Europa.
Il contrasto con la cittadina è evidente: il grande porto commerciale lascia spazio al pittoresco porticciolo turistico, dove le barche dei pescatori e le imbarcazioni da diporto riposano placidamente.

Veronika mi racconta una curiosità: «Porto Torres è stato un importante centro romano, noto come Turris Libisonis. Oggi possiamo ancora ammirare resti archeologici significativi, come il Ponte Romano sul fiume Mannu e le terme.»

Sorvolando l’area, non posso fare a meno di chiedermi quanti strati di storia si siano sovrapposti qui, invisibili agli occhi. Dai romani ai nuragici, quante tracce dimenticate giacciono ancora sotto terra? E se fossero proprio queste zone, apparentemente secondarie, a custodire i frammenti mancanti della nostra ricerca?

Mi chiedo se Gavina, con la sua esperienza e i suoi studi, riuscirà ad aiutarci a distinguere quei segni antichi dalle ombre che il tempo ha lasciato.

Mentre il porto resta alle nostre spalle, mi accorgo che la tensione silenziosa di stamattina è tornata.

Lo sento anche io: quell’appuntamento del pomeriggio, quell’incontro con Gavina… potrebbe cambiare tutto. O forse… non cambierà niente. Ma ormai siamo troppo avanti per voltarci.

La storia non si mostra sempre in superficie. A volte va cercata sotto strati di tempo e silenzio.

Porto Torres (foto flight simulator 2024)

Sassari

Il paesaggio sotto di noi cambia ancora: le coste si fanno lontane e, al loro posto, si distendono dolci colline e distese verdi che annunciano l’entroterra sardo. In lontananza compare Sassari, distesa tra il verde e la pietra.

«Guarda laggiù» dico a Veronika, indicando un rettangolo verde che spicca nel cuore della città. «Quel grande parco al centro…»

Veronika consulta rapidamente la sua guida. «È il Parco di Monserrato, il più grande della città. Ci sono giardini all’italiana, all’inglese e una varietà di piante notevole. Un tempo era parte di una villa nobiliare.»
Sorvoliamo lentamente la zona. Sassari vista dall’alto ha un’armonia tutta sua: i tetti rossi, le strade che si intrecciano, il centro storico che pulsa ancora di storia. Veronika alza gli occhi dal tablet, lo sguardo acceso.

«Lo sai che Sassari fu capitale del Giudicato di Torres? E poi diventò una repubblica indipendente… una delle poche della Sardegna. Oggi è la seconda città dell’isola, sede universitaria e arcivescovile.»
Skippy, con le orecchie dritte e il naso incollato al finestrino, segue il volo con più attenzione. Forse anche lei sente che ci stiamo avvicinando.

«Lì sotto» riprende Veronika, indicando una zona poco più in là, «ci sono i resti del Castello di Sassari. Era una fortezza trapezoidale, con cinque torri agli angoli. Serviva a difendere la città ma oggi ne restano solo alcune sezioni incorporate negli edifici moderni.»

Sorvolando la zona della vecchia valle del Rosello, Veronika aggiunge ancora: «E quella è la fontana di Rosello. Una delle più famose dell’isola, costruita da maestranze genovesi nel Seicento. È considerata uno dei simboli della città.»

Mi godo il racconto mentre osservo il profilo urbano scivolare sotto di noi ma il pensiero va altrove. Ogni città ha le sue storie, le sue leggende, le sue verità sepolte.

E noi… stiamo volando verso una donna che potrebbe aiutarci a dare un senso alla nostra.

Ogni città custodisce segreti: sta a noi decidere quali ascoltare.

Sassari (foto flight simulator 2024)

Alghero

Le nuvole finalmente si sono diradate, regalandoci una vista spettacolare sulla costa che lentamente ci conduce verso Alghero. La città si rivela a poco a poco sotto di noi, adagiata elegantemente sulla costa nord-occidentale della Sardegna.

«Sai, Cami» comincia Veronika con il suo solito tono curioso «Alghero è soprannominata la “Barceloneta sarda”, perché conserva ancora oggi tantissime tradizioni catalane

«Catalane?» rispondo sorpreso, mentre inclino leggermente il Cessna per osservare meglio le mura e i bastioni che circondano il centro storico.

«Sì, il catalano è rimasto nella cultura locale, nell’architettura e persino nella lingua. Qui infatti si parla ancora un dialetto catalano, l’algherese, tramandato dai tempi della dominazione aragonese nel XIV secolo. Se scendiamo in città, potremmo sentirlo ancora nelle stradine.»

Skippy drizza le orecchie incuriosita e Veronika sorride: «Magari impareremo qualche parola insieme!»
Ridiamo entrambi, notando che Skippy sembra finalmente rilassata e di buon umore.

Sorvoliamo il porto turistico, con le sue barche allineate in perfetto ordine, mentre lo sguardo di Veronika si fa pensieroso.

Poi, mentre ci avviciniamo alla città vecchia, abbassa lo sguardo e mormora tra sé, quasi in un pensiero ad alta voce:
«Chissà dove vive, Gavina… e perché ha deciso di trasferirsi qui. Forse anche lei cercava qualcosa…»
Resto in silenzio. Il suo sguardo è fisso là sotto, tra le case e le stradine. Non aggiunge altro ma so che quel pensiero le è rimasto dentro.

Ci allontaniamo lentamente dalla città, dirigendoci verso il promontorio di Capo Caccia. Davanti a noi si staglia imponente la scogliera bianca, sulla cui sommità svetta il faro di Capo Caccia che sembra dominare con eleganza tutto l’orizzonte.

«Guarda che meraviglia quel faro!» esclamo incantato, iniziando a volteggiare attorno alla falesia.
«È stato costruito nel 1864» mi racconta Veronika con la guida aperta sulle gambe, «ed è considerato uno dei fari più alti d’Italia. La sua luce è visibile fino a 24 miglia nautiche di distanza… cioè circa 44 km.»
Sorvolando la parete della falesia, individuiamo chiaramente una lunga scalinata che si aggrappa alla roccia.

«Quella è l’Escala del Cabirol» dice Veronika indicando verso il basso, «una scala scavata direttamente nella parete della falesia: 654 gradini che portano fino all’ingresso delle Grotte di Nettuno. Un complesso spettacolare di grotte marine, tra le più grandi d’Italia.»

«654 gradini?» esclamo sorridendo. «Forse è meglio ammirarle da qui. Non so se Skippy sarebbe d’accordo a farsi trasportare su e giù.»

Lei ridacchia: «In effetti meglio così, se non vogliamo rischiare di portarla in braccio per tutto il tragitto!»

Skippy sbuffa teatralmente fingendo indignazione ma è chiaro che si sta divertendo.

«Lo è sicuramente» aggiunge Veronika mentre osserva le acque sottostanti, «questa zona è famosa anche per la biodiversità marina. Chissà che spettacolo dev’essere al tramonto.»

«Dobbiamo tornarci assolutamente, magari via mare questa sera!» replico entusiasta.

Dopo qualche altro istante trascorso ad ammirare il faro e le scogliere, punto con decisione verso l’aeroporto di Alghero.

A volte basta voltarsi un attimo verso il mare per ricordarsi cosa stiamo cercando

Capo Caccia (foto flight simulator 2024)

Atterraggio

Avvicinandoci all’aeroporto, il clima leggero delle ultime miglia svanisce. Veronika guarda fuori, in silenzio. Skippy si muove nervosa sul sedile, come se sentisse anche lei qualcosa nell’aria.

Atterro dolcemente. Il Cessna rallenta, si ferma. Spegniamo i motori. Nessuno parla.
Veronika ha ancora lo sguardo fisso all’orizzonte.

«Pensi che andrà bene?» chiede sottovoce, quasi temesse la risposta.

Non rispondo subito. Le prendo la mano. Skippy ci osserva, immobile.

«Lo scopriremo tra poco.»

Scendiamo dall’aereo. Il vento di Alghero ci accoglie. Davanti a noi, una città che forse ci darà delle risposte. O forse no.

Ma ormai siamo qui. E a volte è il passo verso l’ignoto che conta davvero.

Non sempre si vola verso una meta. A volte si vola verso una possibilità.

11 + Diario di Volo Bonifacio Santa Teresa

Decollo da Firgi

Il pannello del motore è ancora aperto, le mani si muovono con gesti ormai automatici mentre eseguo gli ultimi controlli. Un’occhiata all’olio, ai cablaggi, agli scarichi. Tutto in ordine. L’aria del mattino è ferma, carica di quella tensione elettrica che precede ogni decollo.
Alzo lo sguardo e osservo il Cessna 172, immobile sulla piazzola dell’aeroporto di Figari Sud-Corse, pochi chilometri a nord di Bonifacio. Dopo giorni di manutenzione e attesa è finalmente arrivato il momento di ripartire. Questa non è solo una tappa, è l’inizio di un nuovo viaggio. Una nuova direzione, senza un piano definito. Abbiamo deciso solo la prima destinazione. Il resto lo scopriremo strada facendo, come sempre.

Mi giro verso Veronika che, con un panno ormai annerito dall’uso, sta passando l’ennesima mano sulla carlinga. Un gesto quasi inconsapevole, la testa persa in qualche pensiero.
Alzo un sopracciglio e le sorrido. “Direi che può bastare. Se continua così, penseranno che l’abbiamo appena ritirato dalla fabbrica.”

Lei sorride imbarazzata, tornando al mondo reale, lasciando finalmente il panno. Nei suoi occhi brilla quella scintilla particolare che conosco bene. Non è solo l’emozione di ripartire. È la frenesia della scoperta. Il simbolo inciso su quel pezzo di stoffa, il mistero che avvolge il suo significato, il collegamento con la Sardegna… tutto la spinge avanti. Prova a dissimulare ma lo percepisco in ogni suo gesto.

Un movimento all’interno della cabina cattura la mia attenzione. Skippy, la nostra piccola mascotte, è già al posto del copilota, intenta a controllare la checklist pre-volo a modo suo. Le sue grandi orecchie da fennec vibrano leggere a ogni suono, gli occhialoni da pilota spinti sulla fronte come quelli di un aviatore d’altri tempi.

“Skippy, cominciamo con i controlli.”

Si raddrizza di scatto, concentrata. Ha imparato a memoria alcune procedure e, nei limiti del possibile, mi aiuta nei controlli mentre io concludo l’ispezione esterna.
Ad ogni mia richiesta, effettua il controllo e poi alza la zampa per confermarmi che tutto è ok.
Sorrido. Mi piace quest’atmosfera da squadra affiatata, dove ognuno ha il proprio compito e lo svolge con precisione.

Finiti i controlli chiudo il pannello del motore, do un’ultima occhiata attorno e salgo in cabina. Skippy esegue un piccolo balzo sui sedili posteriori e si allaccia la cintura. Veronika si sistema accanto a me, indossa le cuffie e comunica per radio.

Figari Ground, Cessna November 172SW, richiediamo autorizzazione all’accensione motore e al rullaggio.”
La risposta arriva pochi istanti dopo, un suono ovattato nelle cuffie. Siamo autorizzati a rullare verso la pista 23.

Veronika mi fa un cenno con la mano. Posso accendere il motore.
Indosso anche io le cuffie, respiro profondamente poi giro la chiave d’accensione.

L’elica inizia a muoversi. Il suono del motore cresce, un rombo profondo e familiare che risuona nel petto. Un suono che segna la fine dell’attesa.
Rilascio i freni. L’aereo scivola sulla taxiway, dirigendosi verso la pista di decollo. Ci muoviamo lentamente ma in cabina l’energia è palpabile.

Veronika controlla il tablet di bordo, ancora rapita dall’idea di ripartire. Skippy ha il musetto appoggiato al vetro, completamente immersa nel momento. Io, invece, sento il peso della responsabilità che mi scorre lungo la schiena.
Essere il pilota significa essere responsabile. Sempre. Ogni volo porta con sé un carico di concentrazione, ogni decollo è una promessa di portare a destinazione il mio equipaggio sano e salvo. Eppure c’è anche l’adrenalina.
L’emozione che cresce, quella vibrazione nel petto che dice che stiamo andando verso l’ignoto.

Ci fermiamo prima dell’ingresso in pista, come da procedura. Attendiamo l’autorizzazione all’accesso, regolato per garantire la massima sicurezza e impedire possibili collisioni.

Guardo Veronika, lei guarda me.

Per un istante nessuno parla. C’è emozione nei suoi occhi, la stessa che so essere nei miei. Ci prendiamo la mano, un gesto semplice ma che porta con sé tutta la forza di cui abbiamo bisogno.

Poi, finalmente, la voce della torre rompe l’attesa.

“Cessna November 172SW, autorizzati al decollo, pista 23, direzione sud-est.”

Ci siamo.

Entro in pista e spingo la manetta in avanti.
Il rumore del motore cresce di intensità, le vibrazioni aumentano mentre l’aereo prende velocità, la pista scorre sotto di noi.

Controllo l’indicatore della velocità. 40… 50… a 65 nodi, tiro leggermente il volantino verso di me.

C’è quel momento perfetto, sospeso tra il suolo e il cielo, in cui il peso dell’aereo non è più sostenuto dalle ruote ma ancora non siamo del tutto in volo.

Poi il momento in cui tutto cambia. Le ruote lasciano la pista.

Siamo in aria.

Lascio che l’aereo guadagni quota, il profilo della Corsica inizia a rimpicciolirsi sotto di noi.

Una nuova avventura è appena iniziata.

Ogni ripartenza porta con sé il brivido dell’ignoto e la promessa di nuove scoperte.

il Cessna con le protezioni in attesa sulla piazzola (foto flight simulator 2024)

Saluto alla Corsica

Virando dolcemente verso sud allineo il muso del Cessna 172 in direzione della nostra meta: la Sardegna. Il sole del mattino illumina il mare sotto di noi, creando un contrasto quasi surreale tra il blu profondo dell’acqua e il bianco delle falesie di Bonifacio che si stagliano come una muraglia naturale.

Siamo stati qui per giorni, abbiamo camminato lungo quei bastioni, abbiamo respirato la storia di questa cittadella medievale. Eppure, vederla ancora dall’alto le restituisce un fascino diverso.

“Guarda il porto” dice Veronika, indicando in basso. “Non sembra quasi sparire dentro le rocce?”

Abbasso lo sguardo e osservo il piccolo fiordo naturale che ospita il porto di Bonifacio. Un rifugio perfetto, nascosto tra le falesie, quasi invisibile dal mare aperto. Da terra sembrava già incredibile, con le sue acque placide incastonate tra pareti di pietra ma, da quassù, la sua forma si rivela ancora più sorprendente.

“Non c’è da stupirsi che fosse un punto strategico perfetto” rispondo. “Difficile da vedere, facile da difendere. Chiunque cercasse di assediare la città doveva prima trovare il modo di entrare.”

Sorvoliamo lentamente la cittadella. Le case si affacciano a picco sul vuoto, alcune così vicine al bordo che sembrano sospese nell’aria.

“Sai cosa ho letto che mi sono dimenticata di dirti?” riprende Veronika. “Le falesie sono in costante arretramento. Il vento e il mare le erodono giorno dopo giorno.”

“Immaginavo… ma quanto possono essere cambiate?”

“Abbastanza da inghiottire una casa intera.” Fa una pausa, poi continua: “Nel 1966 un intero tratto di costa crollò improvvisamente. Una casa, con dentro i suoi abitanti, finì giù insieme a una parte delle fortificazioni originali.”

Resto in silenzio per un istante, lasciando che il peso di quelle parole si depositi tra noi. Bonifacio, con la sua imponenza, sembra eterna. E invece anche le pietre che la sorreggono sono vulnerabili.

Scambiamo un ultimo sguardo con la città che ci ha ospitati. Bonifacio è stata la nostra tappa di arrivo, il punto in cui le prime dieci tappe del nostro viaggio si sono concluse. Ora, vederla allontanarsi sotto di noi segna davvero la fine di quel capitolo.

Veronika sospira e appoggia la testa al sedile. “Mi mancherà un po’” ammette con un sorriso malinconico. Poi scuote la testa e aggiunge con leggerezza: “Ma devo essere sincera… cominciavo ad annoiarmi.”

Sorrido, perché in fondo la penso allo stesso modo. Abbiamo atteso fin troppo per ripartire. Ora, con la rotta puntata a sud, tutto sembra di nuovo possibile.

Dal cielo ogni luogo svela una nuova anima: Bonifacio non fa eccezione.

Il Porto di Bonifacio visto dal Cessna (foto flight simulator 2024)

Bocche di Bonifacio

Il tratto di mare che separa la Corsica dalla Sardegna: le famose Bocche di Bonifacio si staglia ora avanti a noi. Un passaggio breve, meno di 12 chilometri di mare aperto, eppure insidioso. Le correnti qui sono imprevedibili, il vento può cambiare direzione in un istante. Anche dall’alto il mare sembra quasi avere una sua volontà, con scie bianche di schiuma che si formano e si dissolvono senza un apparente ordine.

“Non è un caso che queste acque siano tra le più temute dai marinai” dico, ricordando le parole di un pescatore di Bonifacio.

Veronika annuisce. “Leggevo anche che alcuni storici pensano che Ulisse sia passato proprio di qui. Lo sapevi?”

La guardo con curiosità.

“Davvero?”

“Sì. Nell’Odissea, l’episodio dei Lestrigoni – i giganti cannibali che distrussero la flotta di Ulisse – potrebbe essere ambientato in queste acque. Bonifacio, con le sue pareti a strapiombo, ricorda proprio la descrizione della terra dei Lestrigoni, con un porto stretto e nascosto tra le rocce.”

Dalle mie spalle Skippy si allunga verso il finestrino, le zampette premute sulla cornice, il musetto quasi incollato al vetro. Al solo sentire la parola “giganti” ha drizzato le orecchie, l’eccitazione evidente nel piccolo fremito della coda. Prova a contenersi, proprio come Veronika, ma ormai la conosco troppo bene per non notarlo. Sta aspettando, paziente, che ci dirigiamo verso quello che davvero la interessa.

Faccio finta di nulla e osservo ancora il mare sotto di noi. Immagino quelle antiche navi, intrappolate tra le falesie, i marinai presi dal panico mentre le imbarcazioni venivano fatte a pezzi da enormi massi scagliati dall’alto.

“Beh, se fosse vero, direi che abbiamo fatto bene a sorvolarlo invece che ad affrontarlo via mare” commento con un sorriso.

Veronika ride, poi il suo sguardo si sposta a est, la sua espressione cambia. “Quella invece è l’Isola di Lavezzi. Un puntino di terra circondato da scogli affioranti, un luogo che da quassù sembra tranquillo… ma che cela una delle tragedie più drammatiche della storia della navigazione.” Fa una pausa. I suoi occhi restano fissi sull’isola, poi riprende. “Lì, nel 1855, la fregata francese Sémillante, una nave della Marina imperiale, si schiantò sugli scogli durante una tempesta. A bordo c’erano circa 700 uomini. Nessuno si salvò.”

Rimane in silenzio per un attimo, come se potesse sentire il peso di quella storia.

“I pescatori della zona evitano ancora l’isola nelle notti di tempesta” riprende dopo un attimo di riflessione. “Dicono che, in quelle notti, il vento porti ancora i lamenti dei naufraghi.”

Una raffica improvvisa scuote l’aereo, spezzando per un attimo il silenzio. Per un istante, lasciamo che sia solo il rumore del motore a riempire la cabina. Il mare sotto di noi continua a cambiare, mostrando vortici e correnti che sembrano disegnare sentieri invisibili sulla superficie dell’acqua.

“Eccola” dico, stringendo leggermente i comandi. “Ci siamo quasi.”

Tra gli scogli della Lavezzi riecheggia il passato: il vento non dimentica le tragedie del mare.

la piccola isola di Lavezzi (foto flight simulator 2024)

L’Arcipelago della Maddalena

Le scogliere imponenti della Corsica lasciano spazio alle dolci colline sarde, punteggiate da macchia mediterranea e interrotte dai massicci granitici che si tuffano nel mare. Il passaggio è netto, quasi come se il mare separasse non solo due terre ma due mondi.

L’Arcipelago della Maddalena si dispiega come un mosaico di isole e calette immerse in un mare che varia dal turchese al verde smeraldo. Sette isole principali e una miriade di isolotti più piccoli, un paradiso che per secoli ha visto passare navigatori, eserciti e avventurieri.

“Guarda lì sotto.”

Quasi grido per l’emozione a Veronika in cuffia mentre sorvoliamo Budelli, con la sua leggendaria Spiaggia Rosa. Un angolo di paradiso unico al mondo, protetto per impedirne il degrado.

“Quella è la Spiaggia Rosa di cui mi parlavi?” chiede Veronika.

Annuisco. “Sì. Il suo colore viene da minuscoli frammenti di conchiglie e coralli. Un tempo la sabbia era ancora più rosa ma il turismo incontrollato l’ha rovinata. Le persone portavano via la sabbia come ricordo. Per questo oggi è vietato avvicinarsi: nel 1994, con l’istituzione del Parco Nazionale dell’Arcipelago della Maddalena, l’intera area è stata protetta per preservarne la bellezza.”

Veronika osserva ancora per qualche secondo l’isola che scivola sotto di noi. “Forse è meglio così. Alcune cose dovrebbero restare intatte. Soprattutto se non si ha la capacità di rispettarle.”

Proseguiamo sopra Caprera, l’isola che ospitò l’ultimo capitolo della vita di Giuseppe Garibaldi.

“Là sotto, tra la macchia mediterranea, c’è la Casa di Garibaldi.” dico, poi mi giro verso Skippy. “Sai chi era?”

Lei scuote la testa poi la inclina curiosa, le orecchie ben dritte.

“Un grande condottiero” continuo. “Uno di quei personaggi che hanno segnato la storia italiana. Ha combattuto per unificare l’Italia ma, dopo anni di guerre e battaglie, ha scelto di ritirarsi qui, lontano dalla politica e dalle tensioni del nuovo Stato.”

“Perché proprio qui?” chiede Veronika.

“Sembra che Garibaldi visitò Caprera per la prima volta nel 1855 e se ne innamorò. Comprò un pezzo di terra e costruì la sua casa. Dopo la presa di Roma nel 1870, quando ormai il suo sogno di un’Italia unita si era realizzato, scelse di ritirarsi definitivamente qui, lontano dalla politica e dalle guerre.”

Skippy inclina la testa, perplessa. Poi lancia uno sguardo rapido verso Veronika, come a cercare conferma.

“È vero” dice lei sorridendo. “E pensa che per un periodo i governi europei lo consideravano un pericolo, perché ovunque andasse c’era una rivoluzione.”

Skippy sbatte le palpebre, perplessa.

“Prima dell’Italia ha combattuto in Sud America” aggiungo. “In Brasile, in Uruguay… sempre dalla parte di chi voleva libertà e giustizia. Ovunque andasse la sua camicia rossa diventava il simbolo della rivolta. Per questo lo chiamavano ‘l’Eroe dei Due Mondi’.”

Skippy fissa l’isola ancora per un po’, poi torna a incollarsi al finestrino, osservando l’acqua sotto di noi come se volesse imprimere nella memoria ogni sfumatura di quel mare.

“Abbiamo ufficialmente raggiunto la Sardegna” annuncio. “Ora inizia davvero il nostro viaggio.”

Tra due mondi divisi dal mare, abbiamo trovato un luogo che chiede solo di essere rispettato.

l’Isola di Caprera (foto flight simulator 2024)

Costa Smeralda

Il paesaggio inizia a cambiare mentre seguiamo la costa della Gallura.

Veronika ha preso la sua immancabile guida e ha iniziato a scorrerne le pagine da quando abbiamo lasciato Caprera.

“Siamo sulla Costa Smeralda dice, leggendo. “O meglio, in quello che fino a pochi decenni fa era solo un angolo isolato della Sardegna.” Fa scorrere lo sguardo sulle righe successive, poi riprende. “Fino agli anni ’60 qui c’erano solo pascoli e stazzi, le tradizionali fattorie sarde. Non c’erano strade, né porti turistici, né ville. Solo terra dura, vento e greggi di pecore. A quanto pare tutto cambiò quando il principe Karim Aga Khan IV, facente parte dell’élite internazionale e, sembra, discendente del profeta Maometto, scoprì questa costa e decise di trasformarla in una meta esclusiva per miliardari e celebrità.”

“È stato questo principe a volerla rendere un paradiso per i ricchi?” chiedo curioso.

Lei scorre il dito sul testo. “Sembra proprio di sì e ha subito attirato investitori e architetti da tutto il mondo. Ah, senti questa. Il nome ‘Costa Smeralda’ non è stato scelto solo per il colore dell’acqua. Uno degli imprenditori coinvolti nel progetto, Giuseppe ‘Kerry’ Mentasti, voleva chiamarla ‘Costa Esmeralda’, in onore di sua figlia Esmeralda. Poi si decise di togliere la ‘E’ per renderlo più elegante e più italiano.”

Guardo giù ascoltandola, proprio mentre sorvoliamo lentamente l’Hotel Cala di Volpe, una delle icone della Costa Smeralda. La sua architettura è inconfondibile, con forme arrotondate e dettagli che ricordano un antico borgo.

Veronika aggrotta la fronte, leggendo un passaggio. “Aspetta… qui dice che vicino all’hotel ci sono delle rovine medievali.” Poi si ferma e sorride. “Senti questa, sono rovine false, create ad arte. La guida dice che furono progettate dall’architetto Jacques Couëlle. Pensava che un’aria di antichità avrebbe reso tutto più esclusivo, così ha costruito delle finte rovine medievali accanto all’hotel.”

Scoppio a ridere. “Quindi… hanno letteralmente inventato una storia per rendere il posto più esclusivo.”

“E non è l’unica cosa surreale successa qui. Negli anni, in Costa Smeralda si sono organizzate le cose più assurde: gare di cavalli sulla spiaggia, feste su yacht da milioni di euro, persino James Bond ci è passato nel 1977, nel film La spia che mi amava.” Prosegue, divertita. “Abbiamo appena sorvolato spiagge protette dove è vietato persino camminare per non rovinare la sabbia… e qui sotto c’è gente che atterra in elicottero per prendere un caffè da 50 euro.”

Sorrido. “Due mondi diversi, separati da pochi chilometri.”

Il contrasto tra la natura selvaggia della Gallura e l’opulenza della Costa Smeralda è evidente mentre sorvoliamo la costa. Poi, con una virata lenta, iniziamo a lasciarci alle spalle il lusso sfrenato, puntando verso la nostra prossima destinazione.

Bastano pochi chilometri per passare dal selvaggio al lusso ma il vero viaggio è saper riconoscere entrambi.

Porto Cervo visto dal Cessna (foto flight simulator 2024)

Crescendo di emozioni

Tornando verso nord il lusso e l’eleganza della Costa Smeralda lasciano spazio a una natura più selvaggia e autentica. Le spiagge affollate scompaiono, sostituite da insenature rocciose e tratti di costa quasi inaccessibili.

Dopo Cala di Volpe in cabina è calato un silenzio quasi strano. Veronika è rimasta assorta nei suoi pensieri, lo sguardo fisso sull’orizzonte. La conosco bene: sta aspettando il momento giusto per dire qualcosa che le gira in testa.

Penso di sapere cosa ma comunque non devo aspettare molto.

“Alloraaaaaa” dice all’improvviso, rompendo il silenzio “torniamo a parlare di cose serie?”

Prima che possa risponderle Skippy salta in avanti con un piccolo balzo e si sistema sulle gambe di Veronika, incrociando le braccia mentre mi osserva.

Sorrido “Ma quindi è tutto un complotto? Stavate aspettando di essere lontane dal giro turistico per tornare all’attacco?”

Veronika sorride “Ti abbiamo fatto vedere le cose che volevi tanto osservare dall’alto. Ora tieni pure il tuo scetticismo per un po’” dice, scrollando le spalle. “Ma sentimi bene…”

Sospiro con esagerazione, come se stessi per ascoltare una teoria improbabile, anche se in realtà sono curioso di sapere dove vuole arrivare.

Lei prende il pezzo di stoffa con il simbolo che abbiamo trovato e lo indica con il dito.

“Okay, quindi?”

“Quindi questo simbolo non è casuale.”

Veronika si ferma un attimo, come se stesse cercando le parole giuste. Poi, con un gesto deciso, rigira il tessuto e lo inclina leggermente verso la luce del finestrino.

“E non c’è solo il simbolo” continua. “Ricordi la scritta?”

Ricordo le parole spezzate, incomplete ma con un senso chiaro:

“…su tempus… nos eramus… su tempus… torneremos…”

Veronika incrocia le braccia. “Nel tempo eravamo, nel tempo torneremo. Se lo colleghiamo al simbolo… potrebbe essere un riferimento ai Giganti.”

Sollevo un sopracciglio. “Ai Giganti di Mont’e Prama?

Lei annuisce con convinzione. “Alcuni sostengono che la loro civiltà sia molto più antica di quanto pensiamo. E se questo fosse un indizio che qualcuno di loro è sopravvissuto più a lungo?”

Mi appoggio allo schienale e sorridendo le chiedo “Se erano giganti… perché la scritta è così piccola?”

Skippy sbuffa e si gira di scatto, la coda che si muove seccata. È chiaro: per lei sono senza speranza.

Veronika sospira. “Sei insopportabile quando fai così.”

Rido. “Mi stai dicendo che dei colossi alti tre metri incidevano testi in miniatura?”

Lei mi lancia un’occhiataccia, poi guarda il pezzo di stoffa, come se cercasse una nuova chiave di lettura. “Forse non erano loro a scriverlo… ma qualcuno che conosceva la loro storia.”

Ora ha la mia attenzione, anche se cerco di non darlo a vedere.

“Stai dicendo che potremmo trovare un altro pezzo di questo puzzle in questo sito archeologico che vuoi visitare?”

“Non lo sto dicendo io. Lo dice la storia. Lo dicono queste immagini.” Avvicina di nuovo la stoffa allo schermo, sovrapponendola all’immagine.

Skippy batte la zampa prima contro la stoffa, poi contro il tablet, approvando con entusiasmo la teoria di Veronika.

Rido e scuoto la testa. “E così siamo passati dal viaggio turistico alla caccia al tesoro?”

Veronika si gira verso di me, gli occhi brillano. “No, Camillo. Siamo passati dal turismo all’indagine storica. Questa potrebbe essere una scoperta importante.”

Guardo di nuovo l’immagine sul tablet, poi osservo la costa sotto di noi. Santa Teresa di Gallura è ormai vicina.

Inspiro profondamente. Non so ancora cosa stiamo cercando ma so che ormai non posso più ignorarlo. Il loro entusiasmo è contagioso… e ora sono dentro anch’io.

Ogni indizio è una porta sul passato ma solo chi sa guardare oltre può trovarne la chiave.

Santa Teresa di Gallura vista dal Cessna (foto flight simulator 2024)

Santa Teresa di Gallura

Arriviamo a Santa Teresa di Gallura, adagiata sulla costa settentrionale della Sardegna. Il porto, con le sue barche ordinate e le strade perfettamente allineate danno alla cittadina un’aria quasi ligure, un dettaglio che si nota subito dall’alto.

Guardo di sfuggita Veronika. Sorride, gli occhi fissi sulla terra che si avvicina, il tablet ancora tra le mani, come se già stesse immaginando cosa troveremo laggiù.

Skippy, invece, è decisamente meno discreta. È appoggiata con tutto il musetto al vetro, la coda che oscilla con impazienza. Il messaggio è chiaro: atterriamo e muoviamoci.

Sorrido. Anche se non lo ammetterò mai, mi stanno contagiando.

Un ultimo sguardo al porto, poi mi dirigo verso la pista che è più davanti. Mi concentro sulla discesa. La pista è un semplice campo volo con fondo in erba ed fatico ad individuarla. Niente cemento o asfalto questa volta, nulla che non abbia già affrontato ma richiede comunque più attenzione di un normale atterraggio su pista.

Finalmente la vedo, effettuo una virata e abbasso la velocità, il muso del Cessna si inclina dolcemente mentre allineo l’aereo alla traiettoria finale. L’erba si avvicina rapidamente.

Le ruote toccano terra con un leggero sobbalzo e il rumore dell’erba sotto di noi è più ovattato rispetto all’asfalto. Rallento con delicatezza mentre il velivolo scivola sulla superficie naturale, lasciando una scia sottile tra i fili d’erba mossi dal vento.

Silenzio.

Poi, un suono inconfondibile:

Skippy che stacca le cinture con un gesto deciso, pronta a scattare fuori anche se l’aereo è ancora in movimento.

Veronika ridacchia. “Siamo sicuri che riesca ad aspettare che spegniamo il motore?”

Skippy si gira verso di me, sbuffa e incrocia le braccia, chiaramente esasperata dalla nostra lentezza.

Scuoto la testa, ridendo. Spengo il motore, tiro i freni di parcheggio e mi giro di nuovo verso di lei.

“Adesso puoi.”

Neanche il tempo di finire la frase. Veronika allunga la mano, la portiera si apre di scatto e Skippy schizza fuori come un proiettile.

Io e Veronika ci guardiamo.

Sospiro, scuoto la testa e slaccio la cintura.

“Bene… immagino che la nostra esplorazione sia ufficialmente iniziata.”

l’avventura continua anche quando mettiamo piede a terra.

Atterrati a Santa Teresa di Gallura (foto flight simulator 2024)

10 – Diario di Volo Ajaccio Bonifacio

Decollo da Ajaccio: il sole che cala sul primo capitolo di questo viaggio

Il motore ruggisce mentre il nostro Cessna accelera lungo la pista di Ajaccio. L’asfalto scorre veloce sotto di noi, poi un ultimo contatto con il suolo e siamo in aria per quest’ultimo sorvolo sulla Corsica.

Ajaccio scorre sotto di noi, avvolta nella luce calda del tramonto. Ora la guardiamo con occhi diversi.

«Non pensavo che mi sarebbe piaciuta così tanto» dice Veronika, con lo sguardo perso lungo la costa.

«Pensavi fosse solo Napoleone

Lei annuisce lentamente. «Sì… invece ho capito che qui non si vive solo nel suo passato. C’è qualcosa di più profondo, qualcosa che non si vede subito.»

Viro dolcemente seguendo il promontorio. «L’orgoglio corso?»

Veronika resta in silenzio un istante, poi scuote la testa. «Non solo. È il modo in cui convivono con la loro storia. La Corsica è come il vento che soffia sulle sue montagne. Non si lascia mai davvero catturare, cambia direzione, si adatta ma non smette mai di esistere. C’è chi lo segue e chi cerca di opporsi ma è sempre lì, a ricordarti che non puoi ignorarlo.» Si stringe nelle spalle. «Non è una battaglia politica, è un’identità che non smette mai di interrogarsi.»

La osservo un istante. «Forse è per questo che ha lasciato il segno anche su di me.»

Sorvoliamo la costa, lasciandoci alle spalle la città. Il sole infiamma le onde, l’aria è ferma, il silenzio della quota amplifica ogni pensiero.

In pochi giorni abbiamo capito che la Corsica è molto più di storia e politica. È carattere, resistenza, orgoglio. È fatta di chi l’accetta e di chi la sfida, di chi resta e di chi parte. Ed è più grande della sua stessa leggenda.

Ogni luogo è più di ciò che appare. A volte basta cambiare prospettiva per scoprirne l’anima nascosta.

il Golfo di Ajaccio visto al tramonto dalla cabina del Cessna (foto flight simulator 2024)

Le Isole Sanguinarie: il destino di un popolo

Le Isole Sanguinarie emergono davanti a noi, scure e selvagge contro il bagliore del sole al tramonto. Dall’alto sembrano un avamposto dimenticato, un luogo che ha visto tempeste, naufragi e battaglie senza mai cedere al mare. Il sole incendia le loro scogliere rosse, mentre le onde le circondano in un moto perpetuo.

«Bellissimo il contrasto con il sole al tramonto» mormora Veronika.

Sorvoliamo l’arcipelago dirigendoci verso l’altra costa del golfo. Il vento è leggero, l’aria immobile. Sotto di noi, l’acqua si infrange violenta contro la pietra, come se il mare stesso cercasse di cancellare secoli di storia.

Un tempo, queste isole ospitavano monaci eremiti che cercavano qui la solitudine assoluta, lontani dal mondo e dai suoi conflitti. Più tardi, divennero un luogo di quarantena per le navi sospette di portare malattie, un confine tra il ritorno a casa e l’oblio.

«Non riesco a immaginare cosa significhi passare qui un’intera vita» dice Veronika, con lo sguardo perso sulle scogliere.

«O anche solo un inverno» rispondo. «Ci sono luoghi che sembrano nati per la solitudine. Questo è uno di quelli.»

Lei annuisce piano. «Forse è per questo che ha un fascino così forte. Sono isole ancora più isola della Corsica stessa.»

L’osservazione mi colpisce. È vero. La Corsica è sempre stata una terra di passaggio, conquistata, contesa, costretta a trovare un’identità tra culture e potenze diverse. Ma queste isole… queste sono rimaste inaccessibili, isolate nel loro destino.

«Pensi che certe battaglie finiscano mai davvero?» chiede all’improvviso Veronika.

Le lancio un’occhiata. Non parla solo delle isole, né solo della Corsica.

«Credo che certe cose rimangano incise nelle persone, come il vento incide queste rocce» rispondo. «A volte si dimenticano, a volte si trasformano ma non spariscono mai.»

L’indipendenza non è mai stata solo una questione politica ma un sentimento radicato nell’anima di un popolo.

le isole Sanguinarie al tramonto (foto flight simulator 2024)

Propriano e Sartène: la giustizia e la memoria di un popolo

Un silenzio riflessivo ci avvolge mentre sorvoliamo il Golfo di Valinco dirigendoci verso la Baia di Propriano. Il porto si svela incastonato tra il mare e le colline, con le sue barche che ondeggiano placidamente. La luce del tramonto avvolge tutto, rendendo il paesaggio ancora più affascinante.

«Guarda laggiù» dice Veronika, indicando il porto di Propriano. «Un tempo, questo luogo era un crocevia per diverse civiltà: Greci, Romani, Pisani e persino Turchi hanno lasciato la loro impronta qui.» Poi continua: «Nonostante le tante invasioni, Propriano ha saputo risorgere ogni volta.»

«Difficile immaginare le battaglie che hanno segnato questa baia.» commento. «Sembra tutto così pacifico.»

«Forse il mare non dimentica. Chissà quanti segreti custodisce laggiù.» aggiunge Veronika, osservando la distesa d’acqua sotto di noi.

Poco dopo, salendo di quota, arriviamo a ridosso di Sartène, spesso definita “la più corsa delle città corse”. Veronika consulta la sua guida e sorride: «Sapevi che questo titolo è stato coniato dallo scrittore Prosper Mérimée

«Ma che cosa avrebbe di diverso dal resto dei paesi corsi?» le chiedo, incuriosito.

«Sembra che qui le tradizioni siano ancora molto sentite» risponde, poi torna a leggere. «Ad esempio, qui ogni anno, il Venerdì Santo, si tiene la processione del Catenacciu. Un uomo incappucciato percorre le vie del borgo portando una pesante croce, in segno di penitenza. Nessuno conosce la sua identità, ma si dice che sia scelto tra coloro che vogliono espiare una colpa. Una tradizione che mescola fede, mistero e una certa dose di drammaticità. Molto corsa, in effetti.»

Mentre rifletto su queste terre antiche e sulla loro capacità di resistere al tempo, sento qualcosa che mi strattona leggermente la giacca. Un richiamo dal presente… e dalla pancia di Skippy, evidentemente.

Mi giro e trovo Skippy, che mi guarda con i suoi occhi più dolci, il musetto leggermente inclinato.

Alzo un sopracciglio. «Oh no… stai realmente facendo di nuovo quella faccia. Cosa vuoi? Immagino che tu abbia fame… come sempre!»

La piccola esploratrice mi colpisce con una zampa, poi alza lo sguardo, occhi enormi e imploranti. La strategia della dolcezza è iniziata.

Sospiro. «Non ci credo… Vuoi un altro canestrello

Un leggero guaito di approvazione è la sua risposta.

«Ma ne hai già mangiati prima!» esclamo divertito.

Skippy fa finta di niente e continua a fissarmi con la sua espressione innocente, mentre la coda si muove lentamente da un lato all’altro, in perfetta strategia di persuasione.

«Camillo, ti rendi conto che questa creatura sta sviluppando un piano alimentare tutto suo?» Veronika scuote la testa ridendo mentre apre lo zaino e le passa un pezzetto di biscotto.

Skippy lo afferra delicatamente tra le zampe e inizia a sgranocchiarlo con assoluta soddisfazione.

«Secondo me non è mai sazia.»

Sorridiamo mentre la nostra piccola mascotte finisce il suo dolce premio, poi torniamo a guardare la terra che scorre sotto di noi come se nulla fosse successo.

La vera giustizia non si misura dalla severità delle leggi ma dall’equità con cui vengono applicate.

Propiano vista dall’alto (foto flight simulator 2024)

Porto Vecchio. La Corsica che cambia volto

Le montagne davanti a noi si stringono in un passaggio stretto, quasi volessero metterci alla prova prima di concederci l’accesso alla costa orientale. Superiamo il valico con una leggera turbolenza e all’improvviso il paesaggio si apre: il Golfo di Porto Vecchio si svela all’orizzonte, con colori stupendi tra il viola e l’azzurro.

Inizio la discesa graduale, tracciando una dolce virata sopra il golfo.

«Ma ti rendi conto di come varia quest’isola ogni volo?» dico, lasciandomi sfuggire un sorriso.

Veronika osserva il panorama con occhi incantati. «Sembra quasi di attraversare un intero continente in pochi chilometri.»

Sorvoliamo il golfo, un tempo un crocevia conteso da chiunque volesse il controllo del Mediterraneo. Oggi Porto Vecchio è una delle destinazioni più frequentate della Corsica, un perfetto equilibrio tra mare, storia e modernità.

«Sai che il nome Porto Vecchio potrebbe ingannare?» chiede Veronika, mentre scorre la guida.

«Dimmi che non è perché c’è un Porto Nuovo nascosto da qualche parte.»

Lei ride. «No, il nome risale addirittura all’epoca romana, quando la città era conosciuta come Portus Syracusanus. Il ‘vecchio’ non indica un porto sostituito ma uno che ha saputo resistere al tempo.»

«Beh, sembra che abbia retto piuttosto bene.»

«Sì, oggi è un mix perfetto tra storia e turismo. Hanno boutique di lusso accanto a vecchie saline abbandonate, ma se ti addentri nei vicoli trovi ancora l’anima autentica della Corsica.»

«Non sembra affatto ‘vecchio’ infatti, anzi» commento.

«Negli ultimi decenni è diventato una meta di lusso» aggiunge Veronika. «Ma ha ancora tracce del suo passato: le saline, ad esempio. Un tempo rappresentavano una delle principali fonti di ricchezza della città.»

«E oggi?»

«Sono ancora lì ma non più sfruttate come un tempo. Un tempo l’industria del sale rappresentava una delle risorse più importanti della regione ma, con il tempo, la produzione è stata abbandonata, complice la concorrenza di altre saline più moderne e il calo della domanda. Oggi restano un luogo suggestivo, soprattutto al tramonto, quando l’acqua nelle vasche riflette il cielo e trasforma il paesaggio in una tavolozza di colori.»

Proseguiamo lungo la costa, lasciandoci Porto Vecchio alle spalle. La Baia di Santa Giulia, con la sua laguna, ci sorprende illuminata dalla luce del tramonto che la rende ancora più spettacolare.

«Guarda che colori!» esclama Veronika. «Mare tropicale ma con l’anima selvaggia della Corsica. E pensare che poco fa eravamo alle Isole Sanguinarie a parlare di storia e rivoluzioni. Qui sembra un altro mondo.»

«E invece è sempre la stessa isola» dico, sorvolando un’altra perla nascosta che cattura la nostra attenzione: Rondinara, con la sua forma perfetta, un anfiteatro naturale di sabbia e mare cristallino. Da quassù, la sua simmetria è ancora più evidente, come se la natura l’avesse scolpita con precisione millimetrica.

«Che spettacolo» dice Veronika, con un sorriso. «Non smetto mai di sorprendermi.»

Sorrido, mantenendo l’assetto mentre proseguiamo verso la nostra ultima tappa. La Corsica continua a rivelarsi sotto di noi, selvaggia e mutevole, capace di stupire anche quando credi di averla già capita.

La Corsica non è un’isola, è molte isole in una. Ti porta dalle vette alle spiagge, dalla storia antica alla natura selvaggia senza mai perdere la sua identità.

Rondinara vista dall’alto (foto flight simulator 2024)

Verso Bonifacio: un ingresso spettacolare

Superiamo l’insenatura del Golfo di Sant’Amanza, un’ampia baia incastonata tra le scogliere e la macchia mediterranea. Il sole basso sul mare trasforma ogni increspatura in un bagliore dorato, come se il paesaggio stesso stesse trattenendo il respiro prima del tramonto.

Veronika segue il panorama in silenzio, lo sguardo incollato al finestrino. «Sembra un quadro con questa luce» mormora piano.

«Sono curioso di vedere Bonifacio» le rispondo, virando dolcemente.

Dall’entroterra, la città è ancora invisibile. Solo un altopiano brullo e scosceso si allunga davanti a noi. E poi, d’un tratto, la terra scompare nel vuoto e Bonifacio si rivela, come un miraggio sospeso sull’abisso.

Il colpo d’occhio è incredibile. La città si erge sulla cima di una falesia bianca, sospesa nel nulla, come se sfidasse la gravità. Le case sembrano abbracciarsi l’una all’altra, affacciandosi sull’abisso con un’audacia silenziosa. Sotto di noi, il mare si insinua nella scogliera, scavando il profondo fiordo naturale del porto. È una visione da lasciare senza fiato.

Veronika lo trattiene. «Mamma mia…»

Sorvoliamo la città a bassa quota, lasciandoci avvolgere dal suo fascino antico. Il sole incendia le falesie di un arancio infuocato, mentre le mura medievali si allungano lungo il bordo del precipizio, come se fossero ancora pronte a respingere un assedio.

«Questo posto ha visto secoli di battaglie,» dico mentre lasciamo scorrere Bonifacio sotto di noi. «Genovesi, Pisani, Aragonesi, Francesi… tutti l’hanno voluta.»

Veronika annuisce. «E non è difficile capire perché. Sembra una fortezza costruita dal mare.»

«Lo è stata per secoli» confermo. «Da qui, controllavano tutto il passaggio tra Corsica e Sardegna. Le Bocche di Bonifacio sono sempre state strategiche. Un crocevia tra popoli, commerci e guerre.»

Veronika nota, nella falesia, una linea ben visibile nella roccia. Una scala ripida serpeggia lungo la parete bianca, scendendo fino al mare.

«E quella cos’è?» chiede Veronika, aguzzando la vista.

«La Scala del Re d’Aragona» rispondo. «Uno dei grandi misteri di Bonifacio

Lei si sporge leggermente per vedere meglio. «Scavata nella roccia? Ma come?»

Sorrido. «Dipende a chi lo chiedi. Ho letto che la leggenda dice fu realizzata in una sola notte dai soldati aragonesi durante l’assedio del 1420. La realtà è più semplice: probabilmente esisteva già prima, usata dai monaci per raggiungere una sorgente nascosta nella grotta sottostante.»

Veronika ride. «Dunque una versione eroica e una pratica. Preferisco la prima.»

«Ovviamente» rispondo ridendo anch’io. «Ma pensa alla scena: soldati che scavano febbrilmente mentre le guardie genovesi li respingono dall’alto… roba da film.»

Sorvoliamo la città, godendoci lo spettacolo della luce che incendia la falesia e fa brillare il mare.

«Questo è uno degli arrivi più belli di tutto il viaggio» dice Veronika, scattando una foto. «Direi che non potevamo scegliere un finale migliore per questo viaggio sopra la Corsica

Regolando la rotta verso nord per l’atterraggio, aggiungo: «E non è ancora finita.»

Alcuni luoghi raccontano storie di battaglie e conquiste, altri parlano con la loro bellezza. Bonifacio fa entrambe le cose, scolpendo il tempo nella pietra delle sue scogliere.

Bonifacio e le sue falesie bianche al tramonto (foto flight simulator 2024)

Atterraggio a Figari

La pista di Figari Sud-Corse è ormai in vista, un nastro d’asfalto immerso tra la macchia mediterranea e le colline che digradano verso il mare. L’ultima luce del tramonto sfuma oltre l’orizzonte, Veronika abbassa la fotocamera e si rilassa sul sedile, con un’espressione serena.

«Questa tappa è stata incredibile» dice piano, quasi a sé stessa.

Abbasso i flap, riduco la velocità e allineo il Cessna all’asse di atterraggio. Il motore ruggisce piano mentre tocchiamo terra con dolcezza, il carrello sfiorando la pista senza scosse. Un atterraggio perfetto, come a sigillare questo volo con la giusta chiusura.

Rallento e porto l’aereo fino all’area di sosta. Spengo i motori e nella cabina cala un silenzio ovattato, rotto solo dal ticchettio del metallo che si raffredda. È un momento sospeso, come se anche l’aereo sapesse che qualcosa si è appena concluso.

Veronika si volta verso di me con un sorriso. «Non vedo l’ora di passeggiare per Bonifacio

Sorrido anch’io. «Ogni luogo racconta una storia diversa quando lo tocchi con i piedi, e non solo con gli occhi. Ora è il momento di ascoltare la voce di Bonifacio

Ogni atterraggio segna una fine ma è solo la premessa per il prossimo decollo. Il viaggio non è mai davvero finito.

09 – Diario di Volo Calvi Ajaccio

Decollo da Calvi e sorvolo della cittadella

Decolliamo da Calvi, immersa nella luce dorata del primo mattino. La virata a sinistra durante la salita ci regala un’ultima occhiata alla città e alla sua cittadella imponente.

Mentre l’aereo guadagna quota, il profilo di Calvi si rimpicciolisce sotto di noi. La cittadella, che fino a pochi istanti fa sembrava un baluardo imponente, ora è solo una macchia dorata tra il mare e la terra. In volo, le distanze e i confini sembrano perdere significato. Eppure, per chi vive qui, quelle mura continuano a racchiudere secoli di storia e di identità.

«Credo mi piaccia di più con questa luce» commenta Veronika, sollevando la fotocamera per catturare l’immagine della fortezza.

Non posso fare a meno di pensare alle parole ascoltate il giorno precedente: Calvi sarebbe potuta diventare una città indipendente. In un altro tempo, in un altro contesto, il suo destino avrebbe potuto essere diverso. Un porto libero, una repubblica autonoma, forse persino un piccolo stato sul Mediterraneo. Eppure la storia ha scelto altrimenti.

Quante città, quanti popoli hanno visto le loro sorti decise da eventi fuori dal loro controllo? Un trattato firmato lontano. Una battaglia persa. Un comandante sconfitto. A volte, basta il tradimento di un alleato per cambiare il corso degli eventi per sempre.

«Pensi che il passato conti ancora così tanto per chi vive qui?» chiede Veronika, abbassando la fotocamera e osservando la cittadella che si allontana sotto di noi.

Ci penso un attimo. La Corsica ha inciso la sua storia nelle sue pietre e nei suoi villaggi. La vera domanda è: quei segni sono ancora ferite aperte o solo cicatrici? L’identità di un popolo nasce dal suo passato ma è nel presente che sceglie chi vuole diventare.

Ogni città porta con sé i segni del passato ma è la storia a decidere chi avrà la forza di restare e chi sarà costretto a cambiare rotta.

Calvi, con la sua cittadella, visto dall’alto (foto flight simulator 2024)

Sorvolo della Riserva Naturale di Scandola

Con Calvi alle nostre spalle, la costa cambia rapidamente volto. Le scogliere si innalzano come bastioni scolpiti dal vento, la terra si accende di un rosso intenso e il mare si insinua tra insenature solitarie e grotte nascoste. Dall’alto, la Riserva Naturale di Scandola sembra un luogo fuori dal tempo, plasmato da forze antiche e protetto da regole ferree.

«Patrimonio UNESCO» legge Veronika. «Qui non si può pescare, niente immersioni senza autorizzazione, niente turismo di massa. È uno dei luoghi più protetti della Corsica

Guardo le formazioni sotto di noi: guglie di roccia lavica che emergono dall’acqua come sculture, archi naturali modellati dalla pioggia e dal vento.

«Queste sono il risultato di eruzioni vulcaniche antichissime» continua Veronika. «La lava si è raffreddata creando questi pinnacoli. Sembra tutto scolpito a mano.»

Il mare turchese si incastra tra le pareti di basalto, creando contrasti mozzafiato. Solo qualche piccola barca sfiora la superficie delle acque calme, quasi a non voler disturbare l’equilibrio perfetto della riserva.

«Qui vivono specie che altrove sono scomparse» aggiunge Veronika. «Falchi pellegrini, cormorani dal ciuffo e persino qualche foca monaca… anche se è rarissimo vederne una.»

Poi abbassa la guida e osserva pensierosa il paesaggio. «A volte mi chiedo… può un posto essere davvero vissuto se nessuno può toccarlo? Proteggere significa davvero isolare?»

Non ho una risposta da darle. Le sue parole si mescolano al silenzio dell’abitacolo mentre sorvoliamo il perimetro della riserva con rispetto. La Corsica stessa, in fondo, è un po’ così: un’isola che lotta per preservare la sua identità, mentre il mondo cerca di cambiarla.

Alcuni luoghi non hanno bisogno di essere toccati per lasciare un segno. La loro bellezza basta a raccontare tutto ciò che serve sapere.

Parte della Riserva Naturale di Scandola (foto flight simulator 2024)

Sorvolo di Girolata – La Ribelle Senza Strade

«Incredibile» esclama Veronika, sollevando lo sguardo dalla guida. «Qui dice che Girolata è uno dei pochi villaggi in Europa a non avere strade. O ci arrivi in barca o devi camminare per ore tra le montagne.»

Dall’alto, la baia si rivela come un rifugio segreto tra le scogliere. Un piccolo borgo di case in pietra si stringe attorno al porticciolo, incastonato tra il mare e le montagne. Rallento per un sorvolo più lungo, lasciando che il panorama si scolpisca nella memoria. Sembra un luogo dimenticato dal tempo ma forse è il tempo ad averlo voluto proteggere.

«Non è sempre stato così tranquillo» continua Veronika. «Nel Cinquecento, questa baia era un rifugio per i pirati barbareschi. Attaccavano le navi mercantili e poi sparivano qui, protetti dalle montagne e dal mare.»

Guardo la baia con altri occhi. È facile immaginare le ombre di velieri ancorati tra le insenature, uomini armati che scaricano bottini rubati, il fuoco di sentinelle nascoste tra gli scogli.

«Alla fine i Genovesi ne ebbero abbastanza» prosegue Veronika. «Costruirono quel forte sulla collina per controllare il passaggio e fermare il traffico dei pirati.»

Sorvoliamo lentamente la fortezza. La pietra, consumata dal vento e dalla salsedine, sembra ancora pronta a resistere. Ha sconfitto i pirati, ha assistito al passaggio dei secoli ma non ha mai ceduto alla modernità. Questo villaggio ha scelto di restare isolato, di non lasciarsi cambiare dal mondo. O forse, semplicemente, il mondo non è mai riuscito a cambiarlo.

«Resistere è un atto di coraggio o solo ostinazione?» domando a bassa voce, più a me stesso che a Veronika.

Osservo il villaggio rannicchiato tra il mare e la montagna. È come se il tempo qui si fosse fermato, come se Girolata avesse scelto di restare fuori dal mondo. Forse, in un certo senso, è lo stesso spirito che anima tutta la Corsica: un’isola che resiste, che si aggrappa alle sue radici senza lasciarsi travolgere dalla modernità.

Ci sono luoghi che la storia ha cercato di cambiare ma che hanno scelto di rimanere se stessi. Girolata è uno di questi.

Girolata vista dal Cessna (foto flight simulator 2024)

Sorvolo del Golfo di Porto – La Porta delle Meraviglie

Oltre Girolata, la costa si spalanca rivelando il Golfo di Porto in tutta la sua imponenza. La baia sembra un dipinto dai contrasti perfetti: il mare turchese lambisce le scogliere di granito rosso mentre il verde intenso della macchia mediterranea si insinua tra le rocce. Spiagge stupende scorrono sotto di noi mentre avanziamo verso l’ingresso del fiordo.

«Qui dice che il Golfo di Porto è uno dei paesaggi più spettacolari della Corsica» commenta Veronika. «Anche questo è Patrimonio dell’UNESCO, un equilibrio perfetto tra spiagge, montagne e scogliere scolpite dal tempo.»

Il borgo di Porto si incastra tra le pareti rocciose di un fiordo, un minuscolo avamposto tra terra e mare. La sua torre genovese domina la costa, vigile e immobile come un guardiano antico.

Perso nell’ammirare il paesaggio, solo ora mi rendo conto di un dettaglio che non avrei dovuto trascurare. La baia è più stretta di quanto sembri dall’alto e le pareti del fiordo si chiudono rapidamente attorno a noi.

«Meglio salire» dico, senza lasciare spazio all’incertezza.

Veronika alza lo sguardo dalla guida, percependo il cambio di tono.

La gola rocciosa si stringe attorno a noi più velocemente del previsto. Per un istante, la sensazione è quasi claustrofobica: la parete rossa della scogliera scorre troppo vicina sotto l’ala, l’ombra delle rocce si allunga minacciosa sull’acqua. Spingo la manetta in avanti, il motore risponde con un rombo profondo e il velivolo inizia a salire. È un momento di sospensione, poi finalmente l’orizzonte si apre di nuovo davanti a noi.

Skippy, anche lei finora rapita dal panorama, scatta in piedi sul sedile con le zampe poggiate sul cruscotto, fissando lo schermo della navigazione con occhi sgranati. Emette un suono secco e indignato, poi batte rapidamente una zampa sulla mappa digitale, come a dire Ehi, questo dovevate vederlo prima!

Lentamente, il velivolo recupera margine. Superiamo il punto più stretto e la tensione si dissolve con l’aria più rarefatta dell’altitudine.

«Non male per una porta d’accesso alle meraviglie» dico con un respiro profondo.

Veronika mi guarda con un sorriso divertito. «Diciamo che la prossima volta controlliamo meglio la quota prima di entrare in un fiordo.»

Skippy incrocia le zampe e si lascia cadere di lato con aria teatrale, come a voler sottolineare la sua delusione per non averci salvati prima. Poi, con un piccolo sbuffo, si rannicchia nel suo posto, decidendo che la prossima volta terrà d’occhio anche noi, non solo il panorama.

Alcuni luoghi non sono solo panorami ma porte d’accesso a storie di conquiste, difese e segreti custoditi dal mare.

Cittadina di Porto (foto flight simulator 2024)

Sorvolo delle Calanche di Piana – Le Fiamme Pietrificate della Corsica

Ultimata la salita, le Calanche di Piana si dispiegano alla nostra sinistra, un labirinto di guglie rossastre che sembrano ardere sotto il sole. La roccia, scolpita dal vento e dalla pioggia, assume forme surreali: pinnacoli affilati, archi che sembrano porte verso un altro mondo, pareti verticali che precipitano a strapiombo sul mare turchese. Il contrasto tra la luce e l’ombra amplifica la sensazione di trovarsi davanti a qualcosa di irreale.

Abbasso leggermente la quota per seguire il profilo della costa, scendendo verso il paesino di Piana.

Veronika, con la fotocamera ancora tra le mani, osserva le formazioni con uno sguardo curioso. «Sai che c’è una leggenda su queste rocce?» dice, abbassando la fotocamera per un istante.

Alzo un sopracciglio. «Una leggenda? Racconta.»

Veronika assume un tono più basso, quasi teatrale. «Si dice che il diavolo si innamorò di una bellissima pastorella corsa. Cercò di conquistarla con promesse e ricchezze ma lei lo rifiutò. Allora, accecato dall’ira, maledisse la sua terra trasformandola in un deserto di pietra aspra e contorta, bruciata per l’eternità.»

Osservo il paesaggio sotto di noi. Le rocce non sono semplicemente pietra: sembrano forme inquiete, sculture di fuoco pietrificato in un istante eterno. È facile capire perché questa storia sia sopravvissuta nei secoli.

«Strana punizione» commento con un mezzo sorriso. «Questa terra maledetta è una delle più belle che abbia mai visto.»

Veronika scatta ancora qualche foto, poi annuisce. «Forse le maledizioni non funzionano sempre come dovrebbero.»

Alcune storie resistono al tempo, incise nella pietra e nel vento. Le Calanche di Piana raccontano una leggenda ma la loro bellezza è fin troppo reale.

Calanche di Piana (foto flight simulator 2024)

Sorvolo di Cargèse – Il Villaggio dalle Due Anime

Cargèse si inizia a intravedere davanti a noi, un piccolo borgo arroccato sulla costa, le case bianche e color pastello distese lungo il pendio.

«Qui dice che Cargèse è uno dei luoghi più particolari della Corsica» mi racconta Veronika mentre scorre la guida. «È stata fondata nel XVII secolo da una comunità di coloni greci in fuga dall’Impero Ottomano. Cercavano una nuova casa e la trovarono qui.»

In basso, tra i tetti e le strade strette, si distinguono due chiese costruite una di fronte all’altra. Veronika me le indica prontamente. «Ecco il segno più visibile della loro eredità» continua. «Una è cattolica latina, l’altra ortodossa greca. Per secoli hanno vissuto divisi dalla fede ma uniti dalla vita quotidiana.»

Le due chiese si guardano a pochi metri di distanza: una semplice e bianca, l’altra più elaborata, con dettagli bizantini.

«Non è stato sempre facile» aggiunge Veronika. «All’inizio i corsi e i greci si guardavano con diffidenza. C’erano tensioni, scontri, anche episodi di violenza. Poi con il tempo le due comunità si sono mescolate e oggi Cargèse è il simbolo di un’identità condivisa.»

Osservo il paesino che scorre sotto di noi. Un tempo diviso, oggi unito senza aver perso le proprie radici.

«Quindi hanno imparato davvero a convivere» commento.

Veronika chiude la guida con un sorriso. «Esatto. Questo è un esempio perfetto di come le differenze possano arricchire, invece di separare.»

Restiamo in silenzio per qualche istante, elaborando questa piccola lezione di storia e tolleranza.

Qualcosa nella storia di questo borgo continua a frullarmi in testa mentre ci allontaniamo da Cargèse. Due comunità, due culture diverse, eppure alla fine hanno trovato un equilibrio. Mi fa pensare a un altro discorso rimasto in sospeso.

«Vedi?» dico a Veronika, rompendo il silenzio. «Alla fine, l’indipendenza non è sempre una questione politica. A Cargèse non è servito un confine o un governo separato. Hanno trovato un modo per convivere, senza perdere la loro identità.»

Veronika mi osserva, incrociando le braccia. «Ma l’identità è più di una convivenza pacifica. Non è solo questione di stare insieme, è anche sentirsi parte di qualcosa di unico. Guarda la Corsica: non ha mai ottenuto l’indipendenza ma questo non ha fermato i corsi dal sentirsi diversi dai francesi

Esito per un istante prima di parlare, osservando la linea frastagliata della costa che scorre sotto di noi. La domanda mi resta in gola per qualche secondo, perché io stesso non so bene la risposta. Poi, quasi senza rendermene conto, la pronuncio comunque. «E vale la pena combattere per qualcosa che non cambia davvero la vita delle persone?»

Veronika scuote la testa con un sorriso. «No, ma la cultura, la lingua, le tradizioni sì. A volte, l’indipendenza è nel modo in cui scegli di esistere.»

Skippy, che ha seguito la conversazione con lo sguardo che si spostava tra me e Veronika, spalanca gli occhi, emette un suono acuto e poi, con un’espressione teatrale, si lancia in avanti e indica un punto a caso fuori dal finestrino, come a voler interrompere il dibattito con qualcosa di più importante.

Scoppiamo a ridere. Lei incrocia le zampe e si siede con aria soddisfatta, come se avesse appena risolto il dilemma.

Forse la risposta non è così semplice. O forse, come per Cargèse, l’identità è fatta di equilibri invisibili, più forti di qualsiasi confine.

Cargèse è la prova che le differenze non separano ma arricchiscono. Qui due mondi hanno imparato a guardarsi negli occhi e a condividere lo stesso cielo.

Cargese (foto flight simulator 2024)

Sorvolo di Ajaccio – La Città del Sole e della Storia

Superato l’ultimo promontorio, la costa si apre improvvisamente davanti a noi, rivelando la città di Ajaccio adagiata sul suo golfo. Da questa angolazione, Ajaccio sembra emergere dalla terra, con le case color ocra che si affacciano sul porto e le colline che la abbracciano alle spalle. Il sole riflesso sul mare e sui tetti regala alla scena un’atmosfera calda e vibrante.

«Ajaccio è stata fondata dai Genovesi nel 1492» racconta Veronika. «Ma la sua storia è molto più antica. Qui c’erano insediamenti romani e ancora prima popolazioni preistoriche. È sempre stata un crocevia di culture.»

Sorvoliamo il centro storico, lasciandoci guidare dai vicoli che si snodano tra palazzi eleganti e piazze alberate. Si vede chiaramente Place Foch, che spicca con la sua statua di Napoleone vestito da imperatore romano, mentre la Cattedrale di Santa Maria Assunta si distingue con la sua facciata color miele.

Cerchiamo con lo sguardo la casa natale di Napoleone, nascosta tra le vie della città, ma non la individuiamo. Un pensiero, però, mi sfiora mentre osservo le strade sotto di noi: da qualche parte laggiù, un bambino corso ha mosso i suoi primi passi senza sapere che un giorno avrebbe cambiato il destino di interi continenti.

Resto in silenzio per un momento, lasciando che il pensiero prenda forma.

Napoleone non è solo il generale, l’imperatore, il conquistatore. Prima di tutto, è stato un ragazzo corso, cresciuto su questa stessa terra, tra queste stesse strade, con questo stesso mare all’orizzonte.

«Ci pensi?» dico a Veronika. «Da qui è partito un bambino. Uno solo. E ha cambiato la storia del mondo.»

Lei annuisce, lo sguardo perso tra i tetti della città. «Come Paoli» aggiunge dopo un attimo. «Uomini soli che hanno segnato il destino di un popolo.»

Penso ad Antoine, al suo racconto, al suo sguardo fiero mentre parlava della Corsica. Penso a Paoli, a Napoleone, a tutti quelli che hanno provato a lasciare un segno, nel bene o nel male.

Forse la storia è fatta di uomini che scelgono di non restare spettatori. Paoli è l’eroe della Corsica, il simbolo della sua lotta per la libertà. Napoleone è il conquistatore che ha riscritto il destino dell’Europa. Due corsi, due visioni opposte.

E oggi, cosa significa essere corsi? Essere figli di chi ha combattuto per l’indipendenza o di chi ha dominato il mondo? Forse, la risposta è nel modo in cui la Corsica continua a esistere: fedele a sé stessa, anche quando tutto intorno cambia.

Ci sono città che appartengono alla storia e città che hanno fatto la storia. Ajaccio è entrambe le cose.

Ajaccio visto dal Cessna (foto flight simulator 2024)

L’aeroporto Napoléon Bonaparte è poco più avanti, la pista appare oltre la città. Prima di iniziare la discesa, mi volto verso Skippy.

«Ti va di abbassare i flap?» chiedo con un sorriso. «Un piccolo aiuto per l’atterraggio, dopo tutto il supporto che ci hai dato oggi.»

Skippy si illumina e si precipita in avanti. Con movimenti rapidi, afferra la piccola leva e abbassa i flap con precisione. Poi si gira verso di me, alza il pollice con soddisfazione e torna fiera al suo posto, allacciando la cintura per l’atterraggio.

Allineo il velivolo con la pista. La discesa è spettacolare: il mare sembra lambire il bordo della pista, il verde e l’azzurro delle onde si infrangono sulla riva poco prima dell’asfalto. Le ruote toccano l’asfalto con un leggero sobbalzo.

Per un attimo, il riflesso dorato del sole sulla pista sembra confondersi con il bagliore del mare che brilla oltre la barriera. Un ultimo respiro profondo, poi il rullaggio lento ci riporta alla realtà.

Siamo ad Ajaccio.

08 – Diario di Volo da Bastia a Calvi

Verso l’ignoto, tra cielo e montagne

Gli ultimi saluti a Isabelle e Laurent risuonano ancora nelle nostre teste mentre decolliamo da Bastia. La cittadina e la sua laguna scorrono alla nostra destra, immerse nella luce viola del tramonto. La salita procede senza problemi, il Cessna prende gradualmente quota. Veronika è concentrata sulla guida, come sempre aperta sulle sue ginocchia, mentre io controllo gli strumenti di bordo.

All’improvviso, Skippy spicca un salto in avanti dal sedile posteriore e atterra direttamente sulle gambe di Veronika, che sobbalza per la sorpresa. La guida le scivola dalle mani e cade a terra tra i pedali.

«Ehi, Skippy! Che hai visto?» esclamo, mantenendo la concentrazione sulla rotta.

Veronika recupera la guida e la osserva con aria interrogativa. Skippy è in piedi sulle sue zampe posteriori, il muso proteso in avanti con aria seria. Non è il solito scatto giocoso: sta cercando di attirare la nostra attenzione su qualcosa. Con la zampa, inizia a picchiettare il tablet di bordo.

«Aspetta un attimo…» Veronika si sporge, osservando meglio. «Sta cercando di dirci qualcosa.»

Skippy insiste, batte ripetutamente la zampa su un punto preciso della schermata di navigazione. Mi avvicino con lo sguardo e finalmente capisco: l’altitudine impostata per la rotta è leggermente errata rispetto a quella consigliata. Niente di critico per un volo VFR ma una discrepanza che lei ha notato prima di noi.

Mi giro verso Skippy che mi fissa con aria soddisfatta, la coda che si muove appena.

«Aspetta… vuoi dirmi che hai notato questa cosa prima di noi?» dico, quasi incredulo.

Skippy inclina la testa e alza le zampine con i palmi verso l’alto, come per dire: “Era importante, no?”

Veronika scoppia a ridere. «Camillo, credo proprio che abbiamo addestrato una copilota migliore di quanto pensassimo.»

Veronika corregge il dato sulla rotta. Certo, non era nulla di pericoloso, ma il fatto che Skippy abbia associato la rotta all’altitudine corretta e l’abbia segnalata come un vero navigatore è sorprendente.

La guardo con un mezzo sorriso. «Mi sa che dovrò aggiornare il tuo ruolo da ‘navigatrice di bordo’ a qualcosa di più serio.»

Skippy indica la spilletta apposta da Carlo sulla sua giacchetta, come a dire che le sue ali le ha già.

Veronika ride, accarezzandole la testa. «Direi che tra poco dovremo farle un brevetto onorario.»

Skippy si accoccola sul sedile ma il petto gonfio tradisce il suo orgoglio per la missione compiuta.

Veronika le lancia un ultimo sguardo divertito prima di tornare alla guida. Là fuori, il cielo cambia.

Una pioggerellina leggera ci sorprende, portata dalle innumerevoli nuvolette sparse. Le gocce sottili danzano sul parabrezza senza ostacolarci, anzi, amplificano la magia del momento rendendo lo scenario ancora più suggestivo.

Siamo abbastanza alti da superare le montagne in sicurezza. Si avvicinano rapidamente. Scollinando oltre il crinale, il panorama si spalanca davanti a noi con una bellezza mozzafiato: Saint-Laurent, piccolo punto lontano sulla costa, si lascia intravedere tra il mare e la terra. Alla nostra destra, il Mar Mediterraneo si fonde con il cielo, mentre a sinistra le montagne si innalzano imponenti. Davanti a noi, la costa serpeggia in un susseguirsi di insenature e rilievi che catturano ogni pensiero. Nessuno parla. È uno di quei silenzi contemplativi che regalano relax e si imprimono nei ricordi, indelebili.

Ci sono tramonti che si imprimono nell’anima soprattutto quando li osservi dall’alto, sospeso tra il cielo e la terra.

decollo con Bastia e la sua laguna (foto flight simulator 2024)

Saint-Laurent-de-Moriani, la perla discreta della costa orientale

Iniziamo la discesa verso Saint-Laurent-de-Moriani, Veronika riprende a leggere dalla guida con la sua solita curiosità, approfittando del momento di calma dopo l’irruzione di Skippy.

«Allora… vediamo un po’ cosa dice la guida su Saint-Laurent» inizia, sistemandosi meglio sul sedile. «Qui dice che il villaggio è uno dei più antichi della regione, fondato già in epoca medievale. Il suo nome completo sembra essere Saint-Laurent-de-Moriani. Moriani è il nome della piana su cui si affaccia, una delle più fertili della Corsica. È sempre stato un punto strategico per il commercio e i collegamenti tra la costa e l’entroterra. Per secoli sembra sia stato un crocevia fondamentale per pastori e mercanti.»

«Interessante… e che altro dice? C’è qualche storia particolare legata a questo posto?»

Veronika scorre con le dita lungo la pagina. «Qui raccontano di un’antica tradizione legata alla festa di San Lorenzo. Ogni anno, il 10 agosto, la gente si riunisce per una celebrazione che mescola fede e folklore. Una volta si diceva che, in quella notte, si potessero vedere le ‘lacrime di San Lorenzo’ – le stelle cadenti insomma. Le famiglie lasciavano lanterne accese sulle finestre per onorare il santo e chiedere protezione per i viaggiatori.»

Osservo la costa e rifletto ad alta voce. «Chissà quante persone hanno osservato queste stelle cadenti negli anni… Eppure, ogni generazione vive questo momento come se fosse il primo.»

«Forse perché il cielo non cambia mai, mentre noi sì» continua Veronika. «La tradizione si è mantenuta nel tempo. Oggi è una festa più turistica ma gli abitanti tengono molto a questa celebrazione. Ci sono processioni, musica e, alla fine della serata, rilasciano piccole luci galleggianti nel fiume.»

Mentre il villaggio scorre sotto di noi, cerco di immaginarlo illuminato da quei riti antichi. L’aria limpida della sera esalta le forme del territorio, le strade che serpeggiano tra la vegetazione, le case sparse lungo la costa.

Con un leggero movimento della cloche cambio rotta. Saint-Laurent-de-Moriani si allontana dietro di noi, mentre l’entroterra emerge all’orizzonte, svelando un paesaggio tutto nuovo.

Ogni luogo ha le sue storie da raccontare e spesso le più affascinanti sono scritte nei gesti e nei riti delle persone che lo abitano.

Saint Laurent vista dall’alto (foto flight simulator 2024)

Nel cuore dell’isola, tra monti e villaggi silenziosi

Ci addentriamo nell’entroterra, dove le montagne scolpiscono l’anima più nascosta della Corsica. Da quassù il paesaggio cambia completamente: le distese sabbiose e le località turistiche lasciano spazio a valli profonde, boschi fitti e piccoli borghi di pietra arroccati sulle pendici dei rilievi.

Sorvoliamo Lama, un villaggio che sembra quasi scolpito nella roccia, e poi Novella, incastonato tra le colline della macchia mediterranea. Paesi silenziosi, immersi in un tempo che scorre più lentamente.

«Isabelle ci diceva che in passato vivere nell’entroterra era una necessità, non una scelta» ricorda Veronika, sfogliando la guida. «La gente si rifugiava qui per sfuggire alle incursioni dei pirati e alla minaccia costante della guerra. I paesi come questi erano il cuore pulsante della Corsica, collegati da sentieri impervi e strade battute solo da muli e cavalli.»

«Doveva essere una vita dura. Senza le comodità di oggi. Senza strade asfaltate. Senza collegamenti diretti con la costa.» rifletto.

«Eppure, erano comunità autosufficienti» continua Veronika. «Facevano affidamento sulla terra, sull’allevamento, sui castagneti e sulle poche coltivazioni possibili a questa altitudine.»

Per un attimo penso a Isabelle e Laurent, alla loro casa a Corte, immersa nelle montagne, e a quanto fossero legati alla loro terra. Laurent parlava della Corsica con orgoglio, come di un luogo che resiste al tempo e ai cambiamenti ma che lentamente sta cambiando anche lui.

«Ormai la costa è tutta un’altra storia» rifletto, osservando l’orizzonte dove il mare si perde nel cielo. «Il turismo ha trasformato i villaggi in luoghi caotici, pieni di vita ma anche lontani da quell’autenticità che si respirava un tempo. Qui, invece, sembra che tutto scorra con un ritmo diverso.»

Veronika annuisce. «Anche qui, però, le cose stanno cambiando. La guida dice che molti di questi paesi si stanno spopolando. I giovani preferiscono le città, la modernità, la vita più dinamica. Chi resta lo fa per scelta o perché non ha alternative.»

Osservo il borgo di Novella scorrere sotto di noi. Case antiche, strade strette, piazze vuote. Mi chiedo quante finestre siano illuminate, quante case siano ancora abitate.

«Succede anche in Italia» dico «piccoli borghi che si svuotano, tradizioni che rischiano di perdersi. È il prezzo del progresso, forse.»

Veronika resta in silenzio per un attimo, poi chiude la guida e si appoggia al sedile. «Forse è solo il ciclo naturale delle cose.»

Il Cessna continua a scivolare sopra i rilievi, seguendo le pieghe della terra. Tra passato e futuro, tra resistenza e cambiamento, la Corsica sembra sospesa in un equilibrio fragile.

Ci sono luoghi dove il tempo scorre più lentamente e dove il legame con la terra è più forte di qualsiasi progresso.

il paesaggio dell’entroterra corso con il Monte Cinto all’orizzonte (foto flight simulator 2024)

Verso l’Île-Rousse, la città della luce

Torniamo verso la costa. Il contrasto è netto: l’entroterra era immerso nel silenzio, con i suoi villaggi arroccati e le strade deserte; qui, invece, le luci brillano lungo il litorale segno di movimento e modernità.

L’Île-Rousse appare all’orizzonte, incastonata tra il mare e le rocce rossastre. Il suo nome non è casuale: deve la sua identità proprio a quei blocchi di granito che, al tramonto, assumono una tonalità infuocata.

«L’Île-Rousse… si distingue subito dal resto.» rifletto ad alta voce.

«E ha una storia particolare. Sai che questa città l’ha voluta Pascal Paoli risponde Veronika.

Riduco velocità e quota per godermi meglio il paesaggio. Pascal Paoli. Un nome che in Corsica è ovunque: statue, strade, piazze, aeroporti.

«Il padre della rivoluzione corsa, giusto?» chiedo, accennando un sorriso imbarazzato.

Veronika annuisce. «Esatto. Nel 1758, mentre lottava per l’indipendenza, decise che la Corsica doveva avere un porto che non fosse controllato dai genovesi. Così fondò L’Île-Rousse, un centro che potesse garantire commerci sicuri e, allo stesso tempo, essere difeso dagli attacchi via mare. Sai una cosa ironica? In una città nata per sottrarsi ai genovesi, la lingua ligure è rimasta la lingua del posto fino all’Ottocento.»

Mi appoggio ai comandi e sorvoliamo lentamente il promontorio. Una città corsa, pensata come una città francese, ma che parlava una lingua italiana.

«Non sembra nemmeno un borgo corso» rifletto osservandola.

«Infatti» conferma Veronika. «Paoli voleva che somigliasse di più alle città della costa francese: strade larghe, edifici bassi, un porto funzionale. Insomma, un simbolo della nuova Corsica che sognava.»

L’isolotto rosso che ha dato il nome alla città emerge dal mare come una piccola fortezza naturale.

«Ecco la Pietra» dice Veronika, indicando il massiccio di granito. «Immagina i primi marinai che si avvicinavano qui… Dev’essere stato uno spettacolo surreale per loro.»

Skippy si sporge tra i sedili con le orecchie dritte. Sta fissando qualcosa.

«Ti piace il faro, piccola?» dico, accennando con il mento alla torre bianca che si erge sulla sommità dell’isola.

«Phare de la Pietra» legge Veronika. «Costruito nel 1857, uno dei fari più importanti della Corsica.»

«E sai qual è la cosa interessante?» aggiungo, guardando Skippy. «I fari non servono solo ai marinai.»

Skippy inclina la testa e mi osserva incuriosita.

«Anche per noi piloti ci sono dei fari» continuo. «Negli aeroporti, le piste hanno luci di avvicinamento per gli atterraggi notturni e radiofari che ci tengono sulla rotta anche con il brutto tempo.»

Veronika sorride. «Quindi, nel viaggio come nella vita, serve sempre un faro. Qualcosa che ci guidi, un punto di riferimento, una direzione.»

Le luci della costa tremolano nell’oscurità, ognuna con un significato diverso. Sorrido. «Già… la parte difficile è scegliere quella giusta.»

Alcuni luoghi sono nati per brillare al tramonto. L’Île-Rousse è uno di questi, con il suo granito rosso che si accende di fuoco.

in avvicinamento a l’Île-Rousse con l’isolotto ben visibile (foto flight simulator 2024)

Calvi, tra storia e leggenda

Il sole basso all’orizzonte avvolge la baia di Calvi in una luce calda e dorata, rendendo il panorama ancora più suggestivo quando arriviamo alla baia di Calvi. Dal sedile posteriore, Skippy si alza sulle zampe, infilando il musetto tra i due sedili anteriori. I suoi occhi seguono rapiti l’imponente cittadella, le orecchie tese come se volesse catturare ogni dettaglio.

Veronika sorride e le accarezza la testa. «Bella, vero? Aspetta che ti racconti un po’ di storia su Calvi…» dice, scorrendo la guida e iniziando a leggere con la sua solita voce calma.

«Qui dice che la cittadella fu costruita dai Genovesi nel XIII secolo, quando controllavano la Corsica. La fortificarono per renderla una delle roccaforti più inespugnabili dell’isola. A differenza di altre città corse, Calvi rimase fedele a Genova per secoli, anche quando il resto dell’isola lottava per l’indipendenza.»

Skippy inclina la testa, come se stesse elaborando le informazioni.

«Pensa» continua Veronika, «forse i corsi non cercavano solo l’indipendenza ma anche stabilità. Genova garantiva protezione, commercio sicuro, un porto attivo…»

«Quindi, in fondo, il viaggio e la stabilità non sono così opposti come pensavamo» rifletto, lasciando che l’aereo scivoli dolcemente sopra la città.

Skippy li osserva, poi batte una zampa contro il cruscotto con aria soddisfatta.

Veronika ride. «Credo che Skippy sia d’accordo.»

«O magari ha solo fame e non vede l’ora che arriviamo» aggiungo, divertito.

Sorvoliamo lentamente il porto con le sue barche ormeggiate che sembrano minuscole dall’alto.

«Senti questa!» esclama Veronika, indicando un passaggio nella guida. «Alcuni storici sostengono che Cristoforo Colombo sia nato qui, a Calvi e non a Genova. Esiste persino una targa nella cittadella che afferma questa teoria.»

«Davvero?» intervengo, sorpreso.

«Alcuni storici sostengono che Colombo sia nato a Calvi, ancora sotto il dominio genovese. Non ci sono prove ma qui c’è persino una targa che lo ricorda.» Veronika sfoglia ancora la guida. «E senti questa: nel 1794, durante l’assedio inglese, un giovane Horatio Nelson perse un occhio proprio qui.»

«Nelson? Quel Nelson che poi sconfisse Napoleone a Trafalgar rifletto, sorpreso. «Quindi Colombo e Nelson… niente male come storia per una cittadina di mare.»

«E non è tutto» aggiunge Veronika. «Calvi è famosa anche per il suo festival di musica. Si chiama Calvi on the Rocks ed è uno degli eventi estivi più importanti della Corsica. Qui arrivano artisti da tutto il mondo e trasformano la spiaggia in un enorme palco all’aperto.»

Skippy muove la coda, probabilmente entusiasta all’idea di una spiaggia piena di musica e persone mentre allineo il Cessna per l’atterraggio, lasciandoci alle spalle la cittadella sospesa tra storia e leggenda.

Ogni città ha il suo eroe e la sua battaglia. Calvi ne ha avuti più di uno e ogni pietra della sua cittadella ne custodisce la memoria.

la cittadina di Calvi con la sua cittadella (foto flight simulator 2024)

Una notte a Calvi e una domanda senza risposta

L’atterraggio all’Aéroport de Calvi-Sainte-Catherine è tranquillo, accompagnato dalle ultime luci del crepuscolo che sfumano nel buio. Dopo aver completato le procedure e sistemato il Cessna per la notte, con gli zaini in spalla, ci dirigiamo verso il taxi che ci porterà al nostro albergo, prenotato proprio in centro a Calvi.

Durante il tragitto, la città si svela piano piano tra i lampioni e le luci calde dei ristoranti lungo il porto. Anche al buio la città pulsa di vita. Le luci calde dei ristoranti si riflettono sulle onde, mentre la cittadella, illuminata, domina silenziosa il promontorio.

Veronika osserva il panorama dal finestrino e rompe il silenzio con una domanda che sembra esserle appena balenata in mente. «Ma perché la Corsica ha voluto l’indipendenza dai Genovesi, per poi finire sotto la Francia senza mai riuscire a restare autonoma?»

l’aeroporto di Calvi sulla costa (foto flight simulator 2024)

Ci penso per un istante, poi scuoto la testa. «Domanda interessante… Forse non si trattava solo di indipendenza ma di quale indipendenza scegliere. Magari domani potremmo chiedere a qualcuno del posto. Sarebbe interessante capire la loro prospettiva.»

Veronika annuisce. «Sì, chissà cosa ne pensano oggi i corsi di quel passaggio storico… Se l’indipendenza è ancora un sogno… o solo una storia da raccontare.»

Le città di mare hanno tante storie da raccontare. Alcune sono scritte nelle pietre delle loro mura, altre si riflettono nelle onde del porto.