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06 + Diario di Viaggio Elba

Una sorpresa speciale

Dopo l’atterraggio a Marina di Campo spendiamo più tempo del previsto per sistemare le ultime formalità. Documenti da firmare, dettagli sulla sosta del Cessna… il protocollo viene prima di tutto. Solo dopo possiamo finalmente lasciare l’aeroporto e recuperare un’auto a noleggio.

Mentre ci avviamo all’uscita, un piccolo dettaglio cattura la mia attenzione: un cartello al chiosco delle informazioni turistiche.

Cena storica alla Fortezza Falcone – piatti napoleonici, racconti teatralizzati.

L’idea mi affascina all’istante. Controllo rapidamente, ci sono ancora posti disponibili. Non ci penso due volte: prenoto per tutti e tre. Un’occasione del genere non si trova tutti i giorni e, senza volerlo, ho appena aggiunto un tocco speciale a questa nuova visita sull’Elba.

Nonostante l’entusiasmo, la stanchezza si fa sentire. È ancora mattina presto, ma le giornate di viaggio hanno lasciato il segno. Decidiamo di concederci una pausa nella casetta che abbiamo affittato a Procchio prima di ripartire alla scoperta dell’isola.

Arrivati, troviamo una sorpresa inaspettata: una terrazza che si apre su una vista mozzafiato del mare. Non ci avevo fatto caso al momento della prenotazione, ma ci è subito chiaro che non potevamo capitare in un posto migliore.

«Questa casetta è meravigliosa!» esclamo, avvicinandomi alla ringhiera per assaporare la vista.

Veronika si guarda intorno soddisfatta. «Perfetta per rilassarsi un po’ prima della serata, hai scelto bene.» Poi, con un sorriso leggermente imbarazzato, aggiunge: «Ti dispiace se mi prendo un po’ di tempo per me? Ho davvero bisogno di uno shampoo fatto bene e di una sistemata generale. Ieri, a casa della signora Marina, non sono riuscita a sistemarmi come volevo.»

Le sorrido, capendo perfettamente il suo bisogno di sentirsi al meglio.

«Prenditi tutto il tempo che ti serve. Io resto qui a godermi la terrazza. Ho bisogno di riposare un po’ anche io.»

La osservo mentre si allontana, poi mi accomodo su una poltroncina di vimini. La brezza marina, il suono delle onde che si infrangono sulla riva, il tepore del sole del mattino. Mi lascio avvolgere da questa calma perfetta.

Skippy, con la sua solita capacità di cogliere il momento giusto per rilassarsi, si acciambella sulla poltroncina accanto a me e si addormenta quasi subito. Anche lei, evidentemente, ha accumulato un bel po’ di stanchezza.

Questo è esattamente ciò di cui avevamo tutti bisogno.

Ogni viaggio, anche il più breve, è l’occasione per fermarsi, riflettere e prepararsi al nuovo capitolo che ci attende. A volte è nella quiete che troviamo la vera ricchezza del viaggio

la spiaggia di Procchio (foto hotelvillasangiovanni.com)

Una Lezione di Carlo

Mi sto rilassando, ma la testa mi si riempie di pensieri. Prendo il telefono e decido di chiamare Carlo.

Dopo qualche squillo, la sua voce squillante arriva dall’altro capo con la consueta energia.

Parliamo qualche minuto di cose leggere: dove siamo, le prossime tappe, piccoli dettagli di viaggio. Gli racconto di Skippy, che in questo momento dorme acciambellata accanto a me. Di Veronika, che si è presa un momento per sé, un piccolo rituale per tornare a sentirsi splendente.

È una conversazione tranquilla eppure, sotto la superficie, c’è qualcos’altro. Lo sento io, lo sente Carlo. Alla fine, con un respiro profondo, lo dico.

«Carlo… avrei voluto chiamarti prima. È successa una cosa, ma ho preferito lasciarla sedimentare un po’ prima di disturbarti.»

Lui non interrompe. Aspetta.

«Abbiamo dovuto fare un atterraggio d’emergenza.»

Il silenzio dall’altra parte dura giusto un battito. Poi il suo tono cambia, diventa più fermo, più attento.

«State bene? Veronika? Skippy?»

«Sì, sì. Nessun problema.» Mi passo una mano sulla testa, cercando le parole giuste. «Era un volo tranquillo verso l’Elba, poi il tempo è peggiorato all’improvviso. Vento forte, pioggia fitta, lampi. La visibilità è andata a zero in pochi minuti. Avevo segnato un campo volo d’emergenza sulla rotta, come mi hanno insegnato, e l’ho usato. Ma è stato veloce… troppo veloce.»

Carlo ascolta senza interrompere. Poi, con la sicurezza di chi sa, dice una cosa semplice e vera:

«Camillo, se me lo stai raccontando significa che hai fatto tutto nel modo giusto.»

Annuisco, stringendo il telefono con più forza.

«Sì… ma continuo a ripensarci. Avrei potuto evitarlo? Potevo fare qualcosa di diverso?»

Dall’altra parte arriva una risata breve, piena di esperienza.

«Le emergenze non si evitano, si gestiscono. E tu l’hai fatto.»

Resto in silenzio, mentre le sue parole si incastrano nei pensieri che mi tormentano da giorni.

«Hai mantenuto la calma, hai valutato le opzioni, hai preso una decisione. Questo fa un pilota. Il resto è teoria, e tu eri in una situazione reale.»

Respiro a fondo.

«E se fosse stato qualcosa di più grave?»

Carlo non esita.

«Avresti fatto la stessa cosa. Ti saresti adattato. Capisci perché ci prepariamo sempre per il peggio? Oggi sei in Italia, con strutture, comunicazioni, un piano B. Domani ti troverai in posti dove tutto questo non c’è e allora l’unica cosa che conterà sarà la tua capacità di decidere sotto pressione.»

Lascio che le sue parole sedimentino. Lo sapevo già, in fondo. Sentirlo dire da lui, però, è diverso.

«Camillo» aggiunge con un tono più leggero, «ogni volo insegna qualcosa. E ogni atterraggio da cui esci in piedi è un buon atterraggio.»

Sorrido.

«Grazie, Carlo. Veramente.»

«Di nulla. E comunque, se hai bisogno di parlare con me, sappi che sei ufficialmente entrato nella cerchia di quelli che possono chiamarmi a qualsiasi ora senza mai disturbare.»

Ridiamo entrambi e la telefonata continua ancora per un po’, scivolando su dettagli più leggeri. Mi chiede della prossima tappa, di come se la cava Skippy, di Veronika che – gli dico – ha già segnato una lista di posti da vedere talmente lunga che ci vorrebbe un altro giro del mondo per spuntarla tutta.

Parliamo ancora per un po’, poi chiudiamo la chiamata. Carlo mi ha lasciato con un’ultima frase che mi risuona nella testa:

“Il cielo è pieno di lezioni. Noi siamo qui per impararle.”

Rimango con il telefono in mano, guardando il sole che cala sull’Elba. La testa ha ancora mille pensieri, ma mi sento più sereno.

La vera forza di un pilota non sta nel volare senza difficoltà ma nell’affrontare le sfide con calma e determinazione

il terrazzino della casa a Procchio (foto leonardo.ai)

La Villa di Napoleone: Un Tuffo nel Passato

Mi sto godendo il sollievo delle parole di Carlo quando Veronika esce dal bagno. È luminosa, rilassata, e non posso fare a meno di notarlo.

«Sei bellissima,» le dico, e il suo sorriso, compiaciuto e sincero, vale più di qualsiasi risposta.

Nel frattempo, Skippy, acciambellata sulla poltrona accanto, inizia ad agitarsi come sempre quando sogna, fino a rotolare giù con un piccolo tonfo. La guardiamo, lei ci guarda: noi preoccupati, lei infastidita… sbuffa rumorosamente, si acciambella di nuovo sul pavimento e ci lancia uno sguardo offeso.

Scoppio a ridere.

«Tranquilla, hai tutto il tempo di svegliarti mentre faccio la doccia anch’io.»

Lei solleva appena una zampetta in un gesto teatrale, poi si abbandona di nuovo al sonno.

Prima di entrare in bagno, lancio a Veronika un’idea.

«Perché non facciamo un salto alla residenza di Napoleone qui all’Elba prima di cena? Sarebbe un buon modo per entrare nell’atmosfera della serata.»

Così, un’ora dopo, siamo a Portoferraio, davanti alla residenza che fu il cuore del breve regno di Napoleone sull’Elba.

Dall’esterno, Villa dei Mulini è semplice, elegante, affacciata sul porto, come se l’imperatore avesse voluto tenere lo sguardo sempre rivolto verso il mare, verso la Francia.

All’interno, le stanze raccontano un uomo che, pur in esilio, non si arrese all’idea della sconfitta. Qui Napoleone non si limitò a vivere: riorganizzò l’isola, migliorò le infrastrutture, diede impulso al commercio e persino creò una bandiera per l’Elba.

Ogni ambiente conserva tracce del suo passaggio, dalla biblioteca piena di volumi strategici al suo studio, dove lavorava ai piani per il futuro. Un sovrano in gabbia, forse, ma tutt’altro che domato.

Usciti dalla villa, con il mare davanti a noi e il tramonto che tinge il cielo, ci incamminiamo verso la serata, pronti a immergerci ancora di più nella sua storia.

Ogni luogo ha il suo passato e ogni storia raccontata ci porta più vicino a comprendere chi siamo oggi.

Villa dei Mulini (foto isoladelba.online)

Una Serata Napoleonica alla Fortezza

Dopo una piacevole passeggiata a Portoferraio, ci dirigiamo verso la Fortezza Falcone.

Le mura imponenti, illuminate dalle luci calde della sera, creano un’atmosfera unica, come se ci stessero invitando a immergerci in un’altra epoca.

All’ingresso ci accolgono con gentilezza, vestiti a tema, confermando la nostra prenotazione. Skippy, come sempre, attira subito qualche sorriso e commento amichevole. Seguendo le indicazioni, veniamo accompagnati a un grande tavolo apparecchiato per otto persone, posizionato in una sala che conserva ancora i dettagli architettonici originali della fortezza.

Oltre a noi, al tavolo, ci sono una signora sulla settantina con un viso dolce e i capelli raccolti in un’acconciatura semplice e, accanto a lei, una ragazzina che ci saluta timidamente con un sorriso mentre si siede accanto a Skippy.

Di fronte, una coppia di italo-tedeschi: lui, con una barba curata e un’aria riflessiva, e lei, solare e sorridente, di evidenti origini italiane.

Ci presentiamo tutti rapidamente, scambiando qualche battuta cortese, ma la serata prende subito il via con l’arrivo di un oratore che si posiziona al centro della sala.

Vestito in abiti d’epoca, con un tono solenne ma coinvolgente, inizia a raccontare la storia di Napoleone sull’Elba.

«Signore e signori, benvenuti in questa serata dedicata a Napoleone Bonaparte, il grande stratega e leader che, sebbene in esilio, trasformò quest’isola in un regno pieno di innovazione e dinamismo…»

La storia, quando viene raccontata con passione, non è solo un racconto del passato ma una finestra aperta verso le emozioni che quel passato può ancora suscitare in noi

Forte Falcone visto dall’alto (foto museiarcipelago.it)

Antipasto. L’Inizio del Mito: La Giovinezza di Napoleone

Accompagnati da un calice di Ansonica dell’Elba, i camerieri servono al tavolo un assortimento di antipasti semplici e raffinati: pane nero integrale, frittata di erbe aromatiche e olive condite con agrumi, un richiamo ai sapori autentici dell’epoca napoleonica.

L’oratore, camminando per la sala, continua a parlare con voce sicura e gesti misurati.

«… ma prima di parlare del suo esilio, voglio raccontarvi da dove tutto è iniziato. Napoleone nacque ad Ajaccio, in Corsica, il 15 agosto 1769. Era il secondo di otto figli in una famiglia che, seppur modesta, nutriva grandi ambizioni.»

Veronika, seduta accanto a me, si avvicina leggermente.

«Passeremo ad Ajaccio quando saremo in Corsica?» mi chiede sottovoce.

Sorrido e annuisco.

«Sicuro, lo mettiamo in programma.»

Nel frattempo, l’oratore continua:

«Grazie all’abilità diplomatica del padre, Carlo Maria Buonaparte, Napoleone riuscì a studiare nelle migliori accademie militari francesi. Nonostante fosse un ragazzo riservato e talvolta solitario, la sua mente brillante e la sua ambizione fuori dal comune lo portarono a eccellere in matematica, storia e strategia militare.»

Assaggio un pezzo di frittata, notando l’equilibrio perfetto tra semplicità e intensità dei sapori. Veronika sembra altrettanto conquistata dal piatto.

L’oratore prosegue con una pausa drammatica per enfatizzare:

«A soli 16 anni Napoleone divenne ufficiale, un traguardo straordinario per l’epoca. E fu durante la Rivoluzione Francese che la sua ascesa prese forma. La brillante difesa di Tolone, nel 1793, lo rese generale a soli 24 anni, gettando le basi per il mito del suo nome.»

Il racconto si interrompe temporaneamente, lasciando a tutti il tempo di godersi gli ultimi bocconi degli antipasti.

Intorno al tavolo scambiamo qualche parola. Veronika riflette ad alta voce:

«È affascinante vedere come abbia sfruttato ogni occasione per dimostrare il suo valore.»

Annuisco.

«E pensare che questa è solo la sua giovinezza. Le sue imprese saranno sicuramente al centro della prossima portata.»

La sala si riempie di una conversazione leggera, con commenti sul cibo e curiosità appena apprese, mentre i camerieri iniziano a preparare il servizio per la prima portata.

Accanto a noi, la ragazzina ci lancia un’occhiata curiosa, poi ci chiede timidamente:

«Scusate se mi sono permessa di ascoltare prima, ma ho capito che state per andare in Corsica. Vero?» chiede, accarezzando il bicchiere d’acqua che ha davanti.

«Sì, partiremo domani mattina» rispondo con gentilezza. «Ci fermeremo anche ad Ajaccio per scoprire qualcosa in più su Napoleone

La signora, che scopriamo essere la zia, seduta accanto a lei, sorride con un’aria complice.

«Noi viviamo in Corsica. O meglio, io vivo lì. La Corsica è splendida, sono certa che vi piacerà.»

Non faccio in tempo a risponderle che i camerieri ci distraggono, iniziando a servire la portata successiva con l’oratore che torna a parlare.

“Non è la posizione che fa un uomo, ma l’uomo che fa la posizione.” – Napoleone Bonaparte

l’oratore della serata (foto leonardo.ai)

Prima Portata. L’Ascesa di un Imperatore: Ambizione e Conquiste

I camerieri ci servono la prima portata, una zuppa di pesce elbana, preparata con pescato locale e arricchita da erbe aromatiche tipiche dell’isola. Il profumo è invitante, e il calice di Aleatico Bianco, servito insieme, esalta i sapori con la sua dolcezza leggera e il retrogusto fruttato.

L’oratore torna a raccontare, la sua voce sicura riecheggia nella sala.

«Dopo la brillante difesa di Tolone, Napoleone non solo dimostrò il suo genio militare, ma iniziò a costruire il mito del suo nome. Le sue campagne militari furono epiche: dal 1796 al 1797, guidò l’Armata d’Italia, conquistando il nord del paese e stabilendo il dominio francese. Non era solo un comandante, ma un leader che ispirava i suoi uomini a compiere l’impossibile.»

L’oratore si prende una pausa drammatica, poi riprende:

«Napoleone non fu solo un brillante stratega militare. Le sue campagne non lasciavano dietro di sé solo confini ridisegnati e trionfi sul campo di battaglia, ma anche un’eredità culturale che avrebbe influenzato l’Europa per decenni. Se le sue conquiste cambiarono la mappa del continente, le sue riforme cambiarono la società.»

Osservo per un istante la zuppa ancora fumante davanti a me, poi lo sento proseguire:

«La spedizione in Egitto ne è l’esempio perfetto: da un lato una sfida militare complicata, dall’altro una missione scientifica senza precedenti. Con lui c’erano studiosi, ingegneri e archeologi, uomini il cui compito non era combattere, ma comprendere. Fu in quell’impresa che venne scoperta la Stele di Rosetta, che avrebbe permesso di decifrare i geroglifici e di svelare i segreti di una civiltà millenaria. Era il segno di un leader che non voleva solo dominare i territori, ma anche comprenderli e lasciare una traccia duratura nella cultura e nella scienza.»

Sorseggio un po’ di vino, lasciando che il retrogusto dolce si mescoli al pensiero di quella doppia eredità: la forza di un generale e la visione di un innovatore.

«Il suo carisma e la sua determinazione lo portarono al potere nel 1799, quando organizzò un colpo di stato e divenne Primo Console di Francia. Ma non era abbastanza. Nel 1804, Napoleone si proclamò Imperatore e, con la sua incoronazione, iniziò un’era di riforme e conquiste che cambiarono il volto dell’Europa.»

Conclude questa parte della narrazione con una riflessione:

«Napoleone non era solo un leader militare. Era un visionario, un uomo che cercava di modellare il mondo secondo i suoi ideali, trasformando ogni sfida in un’opportunità per lasciare un segno indelebile.»

La sala si riempie di un leggero brusio mentre l’oratore si interrompe, lasciandoci il tempo di gustare la zuppa e riflettere sul racconto.

Al nostro tavolo iniziamo a scambiare qualche parola.

La coppia di italo-tedeschi, seduta di fronte a noi, si unisce alla conversazione.

«Anche noi siamo qui in ferie» spiega l’uomo con un accento appena percepibile. «È la nostra seconda serata sull’isola, ma tra qualche giorno dovremo ripartire.»

«L’Elba è bellissima, sono sicura vi piacerà» interviene la signora accanto alla ragazza. «Noi torniamo in Corsica domani mattina. Sono venuta qui a prendere mia nipote, che vive qui con mia sorella, e la porto con me a festeggiare il compleanno della cuginetta. Sarà una sorpresa: ha la stessa età e non sa nulla.»

Ci limitiamo a sorridere, lasciando che la conversazione si sviluppi tra loro.

Non facciamo in tempo ad aggiungere altro che i camerieri iniziano a preparare il servizio per la seconda portata e l’oratore si prepara a riprendere il filo del discorso.

“Il vero uomo non è colui che conquista le vittorie ma colui che crea le opportunità per ottenerle.” – Napoleone Bonaparte

zuppa di pesce all’elbana (foto di Dall-E)

Seconda Portata. Dalla Gloria alla Caduta: L’Esilio di un Imperatore

Con tempismo impeccabile, i camerieri portano la seconda portata: polpette di baccalà, servite su un letto di insalata di stagione con un filo di limone, un piatto semplice e saporito che richiama la tradizione culinaria dell’epoca napoleonica. L’abbinamento con un calice di Rosso dell’Elba crea un equilibrio unico, esaltando i sapori intensi del pesce e della cucina locale.

L’oratore torna al centro della sala con lo sguardo che si sposta da un tavolo all’altro, come per coinvolgerci tutti nel racconto.

«Nonostante le sue incredibili imprese, la parabola di Napoleone raggiunse un punto critico con la Campagna di Russia del 1812, un evento che segnò l’inizio della sua caduta. Dopo essere avanzato fino a Mosca, le sue truppe furono decimate dal rigido inverno e dalla mancanza di rifornimenti. La sconfitta ridusse il suo esercito da 600.000 a meno di 30.000 uomini. Fu un colpo durissimo.»

Assaggio una polpetta, apprezzando la delicatezza del baccalà e l’equilibrio dei sapori.

L’oratore prosegue:

«Ma non fu solo la Russia. La sconfitta nella Battaglia di Lipsia nel 1813 segnò il crollo definitivo dell’Impero Napoleonico. Gli Alleati avanzarono verso Parigi e Napoleone fu costretto ad abdicare il 6 aprile 1814. Fu allora che le potenze europee decisero di esiliarlo sull’Isola d’Elba, lontano dalle grandi città ma abbastanza vicina da poterlo monitorare.»

Si ferma un istante, lasciando che le sue parole risuonino nella sala. Poi conclude:

«Immaginate un uomo, abituato a comandare milioni di soldati e conquistare nazioni, confinato su una piccola isola con soli 30.000 abitanti. Tuttavia, come vedremo, Napoleone trasformò persino l’esilio in un’occasione per lasciare il segno.»

Dalla grandeur delle sue campagne, Napoleone si ritrovò a osservare il mare da un’isola che sembrava un confine imposto sul suo destino, con l’orizzonte a ricordargli ogni giorno ciò che aveva perso. Ma il suo spirito non era domato.

La sala si riempie di un mormorio mentre gli ospiti si scambiano commenti sul piatto e sulla storia. Io e Veronika ci guardiamo con un sorriso complice quando la nostra attenzione viene catturata da una scena divertente.

La ragazzina accanto a noi, che scopriamo chiamarsi Amandine, ha stretto amicizia con Skippy. Tra un boccone e l’altro, le due giocano a rubarsi piccoli pezzi di pane dal cestino. Skippy, con la sua astuzia, riesce sempre a spuntarla, facendo ridere Amandine, che cerca di riprendersi il suo bottino.

Veronika scuote la testa divertita.

«Guarda queste due, sembra che si conoscano da sempre.»

Le sorrido.

«Skippy trova sempre il modo di conquistare tutti.»

La scena alleggerisce l’atmosfera, creando un momento di spensieratezza, mentre i camerieri iniziano a ritirare i piatti vuoti e l’oratore si prepara a introdurre il prossimo capitolo della storia.

“La gloria è fugace ma l’oscurità dura per sempre.” – Napoleone Bonaparte

Polpette di Baccalà (foto di Dall-E)

Terza Portata. L’Elba: Un Regno in Miniatura e il Sogno del Ritorno

La terza portata arriva con eleganza, portando in tavola un piatto che richiama la tradizione isolana e il periodo napoleonico: filetto di pesce al cartoccio, cucinato con agrumi e spezie locali, servito con un contorno di bietole saltate e un calice di Moscato dell’Elba, un vino aromatico e vellutato che completa alla perfezione la delicatezza del piatto.

L’oratore riprende il racconto con tono solenne ma coinvolgente:

«Quando Napoleone arrivò sull’Isola d’Elba, il 4 maggio 1814, si trovò a dover gestire un regno di soli 30.000 abitanti. Tuttavia, la sua ambizione e il suo genio organizzativo non si fermarono. In pochi mesi trasformò l’isola in un modello di efficienza e modernità.»

Fa una pausa, lasciando che i camerieri finiscano di servire il pesce e versare il vino, poi continua:

«Napoleone migliorò le infrastrutture riparando strade e costruendo ponti. Rivitalizzò l’economia attraverso il commercio e persino la riorganizzazione delle miniere. Creò anche una bandiera per l’isola, con tre api dorate su sfondo bianco e rosso, simbolo di laboriosità e unità.»

Veronika, con il bicchiere in mano, mi sussurra:

«Non immaginavo che avesse fatto così tanto in così poco tempo.»

Annuisco, prendendo un pezzo di pesce.

«Era instancabile. Persino in esilio ha trovato il modo di lasciare il segno.»

L’oratore continua:

«Ma non era solo un leader operativo. Napoleone amava passeggiare lungo le mura di Portoferraio, da cui poteva osservare il mare. Quei momenti di riflessione gli servivano per pianificare il futuro, perché non smise mai di pensare a un ritorno al potere.»

Skippy, seduta accanto a me, sembra incuriosita dalle espressioni di Amandine, che ascolta il racconto con grande entusiasmo.

Mentre il mondo lo credeva sconfitto, Napoleone trasformava l’Elba nel suo banco di prova, perché nella sua mente l’esilio non era mai stato una fine, ma solo il trampolino per un ritorno destinato a lasciare il segno.

“La vera conquista è non smettere mai di prepararsi alla prossima battaglia.” – Napoleone Bonaparte

Filetto di pesce al Cartoccio (foto di Dall-E)

Dolce. Il Ritorno dell’Imperatore: I Cento Giorni di Gloria

I camerieri tornano con un dolce che attira subito l’attenzione: una raffinata tarte aux pommes, una torta di mele tipica della tradizione francese, rivisitata con un tocco locale grazie all’uso di mele elbane e un leggero velo di miele dell’isola.

Accanto viene servito un bicchiere di Aleatico Passito, il vino dolce più iconico dell’Elba, il cui aroma fruttato e la consistenza vellutata si sposano perfettamente con il dessert.

L’oratore si posiziona nuovamente al centro della sala, alzando il tono per riportare l’attenzione su di sé.

«Dopo dieci mesi sull’Elba, Napoleone decise di lasciare l’isola. La notte del 26 febbraio 1815, salpò segretamente con un piccolo gruppo di fedeli, dirigendosi verso la Francia. Era determinato a riconquistare il potere.»

La narrazione si intensifica, catturando l’attenzione di tutti.

«Arrivò a Golfe-Juan, nel sud della Francia, il 1° marzo 1815, e da lì iniziò una marcia verso Parigi che diventò leggendaria. Ovunque andasse, le truppe mandate a fermarlo si unirono a lui e il popolo lo accolse come un eroe. In meno di un mese, il 20 marzo 1815, era di nuovo sul trono di Francia. Fu un evento straordinario conosciuto ancora oggi come i Cento Giorni

Un’impresa senza precedenti: con il solo potere del suo carisma e della sua leggenda, Napoleone riconquistò il trono di Francia senza sparare un colpo.

Mentre assaggio la torta, il sapore dolce delle mele caramellate si mescola con il retrogusto aromatico del miele, creando un perfetto equilibrio. Veronika, accanto a me, sembra altrettanto conquistata dal dessert.

L’oratore conclude questa parte del racconto con un tocco di enfasi:

«Napoleone dimostrò ancora una volta il suo genio politico e militare, trasformando un esilio in un ritorno trionfale. Ma, come vedremo, il sogno del suo secondo impero sarebbe durato poco.»

La sala si riempie di un leggero mormorio mentre gli ospiti gustano il dolce, lasciando spazio ai pensieri e ai commenti sulla storia appena ascoltata.

Skippy, seduta accanto a noi, sembra seguire con curiosità l’atmosfera attorno al tavolo, mentre il vino dolce e la torta segnano il momento perfetto per riflettere su un capitolo così straordinario della vita di Napoleone.

“La vittoria appartiene al più perseverante.” – Napoleone Bonaparte

tarte aux pommes classica (foto di Dall-E)

Amari e Caffè: Waterloo e Sant’Elena: La Fine di un’Impero, la Nascita del Mito

I camerieri servono una selezione di amari tipici dell’Elba, tra cui un limoncello elbano e una grappa al miele, accompagnati da caffè fumanti che avvolgono la sala con un aroma intenso. Gli ospiti iniziano a rilassarsi, ma l’oratore riprende la parola per affrontare uno dei capitoli più drammatici della vita di Napoleone.

«Dopo il suo ritorno trionfale in Francia e i famosi Cento Giorni, le potenze europee si riunirono per opporsi nuovamente a Napoleone. La sua ambizione e il suo genio strategico non bastarono a fermare l’inevitabile. Il 18 giugno 1815, alla Battaglia di Waterloo, in Belgio, Napoleone subì una sconfitta devastante per mano della coalizione guidata dal Duca di Wellington. Quella giornata segnò la fine del suo impero e il sogno di un secondo trionfo.»

L’atmosfera nella sala si fa più silenziosa, quasi sospesa, mentre l’oratore continua:

«Dopo Waterloo, Napoleone cercò di rifugiarsi in America, ma fu catturato dalle forze britanniche. Questa volta, le potenze europee scelsero un luogo da cui non avrebbe mai potuto fuggire: l’isola di Sant’Elena, un avamposto remoto nell’Oceano Atlantico meridionale, lontano da tutto e da tutti.»

Prendo un sorso di limoncello, sentendo il calore diffondersi, e mi appoggio allo schienale della sedia.

Faccio un gesto con le mani sulla pancia, come a dire che sono ufficialmente pieno, attirando lo sguardo di Veronika, che scuote la testa sorridendo.

Alza leggermente il bicchiere vuoto facendo segno che i tanti vini della serata sono stati di suo gradimento, anche se aggiunge con un mezzo sorriso:

«Forse ho esagerato un po’. Mi gira la testa.»

Scuoto la testa incredulo ma divertito.

«E poi dicono che io esagero» le rispondo, mentre Skippy, sempre attenta, lancia un’occhiata al cestino del pane, chiarendo con il suo comportamento che lei non ha ancora finito.

L’oratore conclude questa parte del racconto con un tono riflessivo:

«Sant’Elena non era solo un luogo remoto. Era una condanna alla solitudine. Napoleone vi arrivò nell’ottobre del 1815 con pochi fedeli accanto a lui. Per il resto della sua vita rimase confinato in quel piccolo pezzo di terra, lontano dalle luci della gloria e dal mondo che aveva cercato di dominare.»

Da Sant’Elena, Napoleone non poteva più vedere le sue armate né ascoltare il battito del mondo che un tempo aveva dominato. Gli restavano solo i ricordi e le parole con cui avrebbe cercato di costruire la sua eredità.

Il silenzio che segue è quasi palpabile, mentre ciascuno sembra riflettere sulla grandezza e sulla caduta di un uomo come Napoleone.

Veronika si appoggia con il gomito al tavolo, rompendo la tensione.

«Devo ammettere che è incredibile. Passare dal governare quasi tutta l’Europa a un’esistenza così lontana e isolata… sembra surreale.»

La signora accanto ad Amandine annuisce con un sorriso amaro.

«È la grandezza della storia. Ti ricorda che nulla dura per sempre.»

La donna Italo-Tedesca aggiunge:

«Ma è proprio questo che lo rende affascinante. Anche nei suoi momenti più oscuri, Napoleone è riuscito a lasciare il segno.»

Skippy, intanto, cattura l’attenzione di Amandine, e le due cominciano a giocare con dei pezzi di pane, regalando un momento di leggerezza a una serata intensa.

Il mormorio attorno ai tavoli torna a riempire la sala, mentre i figuranti si preparano all’atto finale.

Il celebre dipinto di Napoleone a Sant’Elena di François-Joseph Sandmann (foto reportdifesa.it)

Memorie, Saluti e Nuove Avventure

Con la sala ormai rilassata e gli amari che accompagnano gli ultimi scambi tra i commensali, l’oratore torna a parlare.

«Napoleone Bonaparte morì a Sant’Elena il 5 maggio 1821. Aveva 51 anni. La causa della morte è ancora oggi dibattuta: c’è chi parla di cancro allo stomaco, chi di avvelenamento. Ma una cosa è certa: anche negli ultimi giorni della sua vita, Napoleone continuò a riflettere sulla sua eredità, scrivendo memorie che avrebbero influenzato generazioni future. La sua vita, fatta di conquiste e cadute, è la prova che la grandezza è tanto fragile quanto straordinaria.»

Le parole dell’oratore lasciano un’eco sospesa nella sala.

Poi, all’improvviso, un applauso si leva, prima timido, poi sempre più forte. Un tributo non solo a Napoleone, ma a una serata che ha saputo far rivivere la sua storia.

Attorno al nostro tavolo scambiamo gli ultimi commenti sulla cena e sulla storia appena ascoltata.

Veronika si rivolge alla signora accanto a noi.

«È stato tutto meraviglioso, dall’atmosfera al cibo, fino ai dettagli storici. Non mi aspettavo di immergermi così tanto nella vita di Napoleone

La signora annuisce, palesemente felice anche lei.

«Questa fortezza ha visto tante storie e stasera siamo stati parte di una di esse.»

L’uomo italo-tedesco aggiunge:

«E i loro abiti, così ricchi di dettagli… sembrava davvero di essere tornati indietro nel tempo.»

Skippy, intanto, cattura l’attenzione di Amandine, che le accarezza la testa con affetto.

«Mi sono divertita molto, mi mancherai» dice la ragazza con un sorriso rivolto sia a Skippy che al resto del tavolo.

Con i saluti che si intrecciano tra i commensali, ci alziamo lentamente dal tavolo. La coppia italo-tedesca ci augura buon viaggio, mentre la signora e Amandine ci salutano calorosamente.

«Buona fortuna per il vostro viaggio in Corsica» dice la signora. «Sono sicura che Ajaccio vi regalerà altre storie da raccontare.»

Uscendo dalla fortezza, ci fermiamo nel piccolo negozietto di souvenir situato accanto all’ingresso.

Veronika si avvicina subito agli scaffali dedicati ai libri e sceglie una copia delle Memorie di Napoleone, visibilmente ispirata dalla serata.

«Penso che valga la pena leggerle» dice, voltandosi verso di me con un sorriso.

Poi aggiunge, prendendo un altro libro:

«E già che ci siamo, prendo anche una guida sulla Corsica. Ci tornerà sicuramente utile.»

Mentre pago i libri, Skippy, incuriosita, si avvicina al bancone osservando con attenzione le cianfrusaglie esposte: portachiavi, magneti, piccoli modellini di cannoni.

La ragazza alla cassa, notando il suo interesse e la sua simpatia, sorride e prende una piccola monetina turistica con l’effige di Napoleone.

«Tieni, è per te» dice, porgendogliela con gentilezza.

Skippy osserva la moneta come fosse un tesoro inestimabile, prendendola con cura tra le zampette.

Poi si volta verso di me, mostrando la monetina con entusiasmo.

«È un bel ricordo della serata» dico ridendo.

“Io chiudo gli occhi ma il mio sguardo rimarrà per sempre rivolto alla Francia.” – Napoleone Bonaparte, ultime parole

la monetina regalata a Skippy (foto Dall-E)

Ritorno a Casa: Un Momento di Pace

Lasciamo la fortezza con la brezza serale che ci accompagna. Le luci di Portoferraio scintillano in lontananza, riflettendosi sulle acque calme del porto.

Skippy cammina accanto a noi, ogni tanto fermandosi per osservare la monetina, come se stesse già immaginando di diventare un grande stratega come Napoleone.

Veronika stringe il sacchetto con i libri e sospira con soddisfazione.

«Non pensavo che una serata potesse essere così intensa e interessante.»

«Lo è stata davvero» rispondo, osservando il cielo stellato. «È stata una giornata piena ma ricca di ispirazione. Approfondiremo la sua storia anche in Corsica sicuramente.»

Raggiungiamo la nostra casetta a Procchio, accolti dal silenzio e dalla tranquillità dell’isola.

Veronika si dirige verso la camera, mentre io mi fermo un attimo sulla terrazza ad osservare il mare in lontananza.

Skippy si acciambella accanto a me, stringendo la sua monetina con orgoglio.

«Vai a dormire, piccola. Domani ci aspetta un nuovo viaggio.» dico sottovoce.

Poi entro in casa, chiudendo la porta finestra alle nostre spalle, pronto per una notte di riposo che ci prepara al volo verso la Corsica.poso che ci prepara al volo verso la Corsica.

05 + Diario di viaggio

Il calore di un rifugio inaspettato

La casa della signora ci avvolge immediatamente in un’atmosfera calda e accogliente. Nonostante il nostro aspetto, stanco e infangato, lei sembra a suo agio, come se avesse già affrontato situazioni simili molte volte.

«Toglietevi i giubbotti e lasciate che mi prenda cura di voi» dice con un sorriso rassicurante. La sua voce calma, il modo in cui si muove nella cucina, tutto parla di una sicurezza che sembra contagiosa.

Una luce soffusa amplifica il senso di pace mentre ci concediamo una veloce doccia purificante e rigenerante. Quando torniamo in cucina, il calore della stufa e l’aroma del cibo ci avvolgono in un abbraccio familiare, facendoci dimenticare il peso delle ultime ore.

Mentre mangiamo, finalmente sento la tensione sciogliersi. La pioggia continua a cadere fuori, ma qui dentro c’è solo il suono delle posate sui piatti e il lieve crepitio di una stufa nell’angolo. È allora che noto le foto appese alla parete. Scatti in bianco e nero mostrano una coppia accanto ad aerei d’epoca, entrambi giovani, sorridenti e pieni di energia. Non riesco a trattenere la curiosità.

«Queste foto…» comincio, indicando la parete. «Siete voi, vero? Lei e suo marito?»

La signora si ferma un momento, il cucchiaio sospeso a metà. I suoi occhi si fanno immediatamente lucidi mentre un sorriso nostalgico le illumina il viso.

«Sì» risponde con un tono che mescola orgoglio e malinconia. «Io e Pietro, mio marito. Abbiamo condiviso una vita intera di voli e avventure.»

Si percepisce nella sua voce un’eco lontana di quei giorni, come se per un attimo fosse di nuovo lassù, tra le nuvole.

La vita non è solo quella che viviamo giorno per giorno ma anche quella che scegliamo di ricordare. E ogni ricordo, come ogni volo, ci accompagna, anche quando siamo fermi

la signora Marina che ci attende all’ingresso di casa. (foto leonardo.ai)

Un amore per il volo senza tempo

«Pietro era un pilota» continua la signora, posando il cucchiaio e sfiorando il bordo della tazza con le dita. «Era dieci anni più grande di me e aveva iniziato a volare negli anni Cinquanta, subito dopo la guerra. All’epoca Grosseto era già una base importante per l’aviazione italiana e lui prestò servizio lì per diversi anni. Volava sui caccia dell’Aeronautica Militare ma il suo sogno era sempre stato quello di esplorare il mondo, non di combattere.» Fa una breve pausa, come persa in un ricordo lontano. «Me lo diceva sempre, sai? Che il cielo era troppo vasto per sprecarlo in guerra.»

«Ha servito in missioni importanti?» chiedo incuriosito.

«Sì, ma non nella guerra mondiale» precisa. «Era troppo giovane. Ha invece partecipato a esercitazioni e missioni di pattugliamento durante la Guerra Fredda. Dopo il servizio militare decise di acquistare questo terreno. L’idea era di costruire un campo volo, un luogo dove la nostra passione potesse continuare senza limiti.»

Veronika interviene con interesse. «E voi volavate insieme?»

«Oh sì» risponde la signora illuminandosi in volto. «Ho imparato a volare grazie a lui. Non era comune per una donna all’epoca, ma Pietro insisteva che il cielo non aveva regole di genere. Abbiamo girato l’Italia e l’Europa a bordo di un piccolo Piper. Ogni volo era un’avventura: ci fermavamo in campi volo remoti, mangiavamo in osterie locali e dormivamo sotto le ali dell’aereo quando non c’erano altri posti disponibili.»

«Che storia stupenda» esclamo, immaginando quella vita di libertà. «E adesso il campo volo è ancora attivo?»

«Lo gestisce la persona con la quale avete parlato a telefono prima. Io non ne faccio più parte, almeno non ufficialmente» spiega. «Da quando Pietro non c’è più, è rimasto solo un luogo dove i vecchi amici vengono a trovarmi, magari per un atterraggio di passaggio. Io mi limito a mantenere in ordine il nostro piccolo hangar con ancora i ricordi di Pietro.»

«Dev’essere difficile continuare da sola» dice Veronika con empatia.

La signora annuisce, ma c’è una nota di malinconia nei suoi occhi. «Lo è. A volte, se chiudo gli occhi, mi sembra quasi di sentire ancora la sua voce nella radio che mi comunica che sta per atterrare. Magari mentre mescolavo la zuppa in cucina, aspettandolo per cena.»

La conversazione con la signora Marina, così scopriamo si chiami, prosegue per tutto il pomeriggio. Restiamo a tavola così a lungo che, quando finalmente ci alziamo per andare a riposare, il cielo è già buio. Fuori la pioggia ha quasi smesso e il silenzio, interrotto solo dal gocciolio sulle grondaie, porta con sé la speranza che il maltempo finisca del tutto durante la notte.

«Domani sarà una bella giornata, ne sono certa» dice l’anziana signora chiudendo le tende e accendendo una lampada che illumina la stanza con una luce calda.

Il pensiero di un cielo sereno e della possibilità di rimettersi in viaggio ci dà un senso di sollievo. Andiamo a dormire con una strana sensazione di pace, nonostante il ricordo ancora vivido del nostro atterraggio d’emergenza.

Il cielo non ha regole di genere, né confini. È un rifugio dove ogni passione può volare libera e ogni storia, anche la più silenziosa, può lasciare la sua traccia.

la cucina della signora Marina (foto leonardo.ai)

Un nuovo giorno sotto un cielo limpido

Quando ci svegliamo la mattina successiva, il tempo è completamente cambiato. La pioggia ha lasciato spazio a un cielo limpido e a un sole che illumina il terreno ancora umido. La casa della signora è silenziosa, interrotta solo dai rumori della natura che sembrano rinascere dopo il temporale.

Dopo una rapida colazione, Veronika rimane in casa con la signora Marina, mentre io e Skippy ci dirigiamo verso il campo volo per controllare il Cessna e dargli una sistemata della quale ha sicuramente bisogno. Mentre camminiamo nel fango ormai quasi asciutto, penso a quanto siamo stati fortunati ad aver trovato un rifugio come questo.

Una volta all’aereo, cominciamo il lavoro di pulizia e controllo.

«Ok, Skippy» dico con tono deciso. «Ora dobbiamo rimettere a nuovo questo Cessna.»

Lei sembra un piccolo manutentore: si posiziona accanto alla cassetta degli attrezzi, pronta a passarmi quello che mi serve. Ogni tanto mi guarda con occhi pieni di determinazione. Altre volte sgrana gli occhi quando le chiedo qualche attrezzo del quale non conosce il nome ma tutto sommato se la cava bene.

Finiti i controlli su motore e, soprattutto, sul carrello inizio a pulire il fango dalla carlinga, mentre Skippy si dedica al parabrezza, strofinandolo con una pezza e dando il meglio di sé.

«Non male» le dico, vedendo che il vetro sta tornando lucido.

Ma quando salgo per controllare l’interno, scopro che i sedili anteriori sono pieni di impronte sporche.

«Skippy!» esclamo con un tono finto indignato. «Hai lasciato le tue firme personali sui sedili!»

Lei mi guarda, inclina la testa, si osserva sotto le zampette, poi scivola giù con aria colpevole ma non troppo. Scoppiamo entrambi a ridere.

Skippy che lava il Cessna (foto Dall-E)

Una lezione di vita e un dono inaspettato

Intanto, in casa, Veronika e Marina conversano davanti a una tazza di tisana.

«Le situazioni di emergenza come quella di ieri sono difficili da dimenticare» dice Veronika, stringendo la tazza tra le mani, ancora leggermente tremanti al ricordo. «È stato tutto così… improvviso. Non mi aspettavo che qualcosa di simile potesse accadere. Non le nascondo che ho avuto paura.»

La signora annuisce con un sorriso comprensivo. «Sai, cara, il volo ha sempre avuto i suoi rischi. Pietro e io ne abbiamo vissute tante. Una volta, durante un volo, il motore si è fermato in piena tempesta. Siamo stati costretti ad atterrare in una radura senza sapere se ci saremmo riusciti. È stata una delle esperienze più spaventose della mia vita ma sai cosa mi ha insegnato? Che se non è la tua ora, tutto andrà bene.»

Veronika la guarda attentamente, colpita dalla sicurezza delle sue parole.

La signora continua: «Anche la morte di Pietro mi ha rafforzato questa mia convinzione. Se il nostro tempo è finito, è finito. Può succedere in cielo, mentre voliamo e facciamo cose che riteniamo pericolose, o anche sul divano di casa. Lui è morto così, sai? Seduto in poltrona mentre guardava il suo programma preferito, dopo aver rischiato la vita in tantissime attività pericolose. La verità è che non possiamo controllare tutto ma possiamo scegliere come vivere il tempo che ci è dato. E questo significa vivere serenamente, senza rimpianti e senza paura.»

Veronika rimane in silenzio per un momento, riflettendo su quelle parole.

«È un modo intenso di vedere le cose» ammette infine. «Ma ha senso. Aiuta a mettere tutto in prospettiva.»

La signora si alza e si dirige verso una credenza.

«Vieni, voglio mostrarti qualcosa.»

Apre una scatola di latta e inizia a tirar fuori delle fotografie.

«Questi siamo noi» dice, indicando le immagini.

Ci sono scatti, in bianco e nero, di una giovane coppia accanto a velivoli d’epoca e foto più recenti con aerei che Veronika non riconosce.

«Volavate su questi?» chiede, incuriosita.

«Sì» risponde Marina con un sorriso nostalgico. «Niente di tecnologico come il vostro Cessna. Non avevamo navigazione elettronica o tablet. Usavamo mappe di carta e in mezzo a una tempesta, credimi, diventavano quasi inutilizzabili. Dovevamo fidarci dei nostri occhi e del nostro istinto. Voi siete fortunati: la tecnologia vi offre strumenti incredibili ma il cielo rimane sempre lo stesso.»

Mentre sposta alcune foto, la signora trova un piccolo anello. Lo prende tra le dita con cura e lo guarda per un momento.

«Questo» dice, mostrandolo a Veronika «mi ha sempre aiutata nei momenti di stress. Pietro me l’aveva regalato il giorno del mio primo volo in solitaria. Mi diceva che tenerlo con me mi avrebbe dato forza e così è stato. Ora voglio che sia tu a tenerlo.»

Veronika scuote la testa, visibilmente emozionata.

«Non posso accettarlo, è troppo importante per lei.»

Ma la signora insiste, prendendo con dolcezza le mani di Veronika e poggiandole l’anello sul palmo.

«Voglio che abbia una nuova storia, con voi. È fatto per volare, non per restare chiuso in una scatola. Io ormai non posso più portarlo lontano. Voglio che lo faccia tu.»

Veronika la guarda, combattuta tra l’emozione e la riluttanza. Alla fine, sorride e annuisce.

«Grazie. Prometto che lo onorerò come merita.»

La vera ricchezza non sta nei luoghi, né nelle cose, ma nei legami che formiamo e nelle storie che condividiamo. Anche il tempo, che sembra inesorabile, diventa un compagno di viaggio quando impariamo a viverlo con serenità.

la scatola con le foto e i ricordi della signora Marina (foto leonardo.ai)

Tra aviatori ci si aiuta sempre

Io e Skippy torniamo verso casa, stanchi ma soddisfatti del lavoro. Quando entriamo, troviamo Veronika e la signora Marina sedute davanti alla stufa, ancora immerse nella loro conversazione.

«Tutto ok» annuncio, togliendomi le scarpe infangate sull’uscio. «Abbiamo controllato e pulito tutto. Il Cessna è pronto a ripartire.»

Veronika sorride, visibilmente sollevata. «Ottimo. Grazie a te e alla tua assistente speciale.» Poi mi mostra l’anello che tiene con cura tra le dita. «Guarda cosa mi ha regalato Marina.»

Osservo l’anello, semplice ma carico di storia. Mi giro verso la signora. «Non so davvero come ringraziarla per tutto quello che sta facendo per noi. Ci sta aiutando più di quanto immagini.»

Marina scuote la testa con un sorriso. «Tra aviatori ci si aiuta sempre. Anche se ormai non volo più, resto una di voi. E vedere giovani come voi continuare a scoprire il mondo mi dà speranza.»

Le sue parole mi toccano profondamente e, per un momento c’è solo silenzio interrotto dal lieve scoppiettio della legna nella stufa.

Cena e condivisione dei nostri piani

La cena di quella sera è semplice ma piena di calore. Marina ci serve una pasta fatta in casa e un piatto di verdure del suo orto. Mentre mangiamo, raccontiamo brevemente le nostre avventure fino a quel momento: il progetto Sky Wander, i luoghi che abbiamo sorvolato e le sfide che abbiamo affrontato per organizzare questa avventura.

Marina ascolta con attenzione e i suoi occhi brillano ogni volta che parliamo di volo.

«Il vostro progetto è straordinario» dice. «Vi ammiro per il coraggio e la determinazione che avete. E dopo Corsica e Sardegna, cosa avete in programma?»

Io e Veronika ci guardiamo per un momento.

«In realtà non lo sappiamo ancora» rispondo. «Abbiamo un’idea generale ma non abbiamo ancora deciso quale sarà la tappa successiva. Stiamo ancora valutando.»

Marina annuisce. «È questo il bello del volo. La libertà di scegliere dove andare e di lasciare che il cielo decida per voi.»

pasta fatta in casa (foto Dall-E)

Un riposo meritato

Dopo cena ci ritiriamo nelle nostre stanze. Prima di salire le scale, mi fermo un attimo sulla soglia della cucina. Marina sta sistemando i piatti, nonostante abbia insistito tanto per lavarli io. Il suo volto è rilassato e sereno, un’immagine che trasmette una profonda calma.

«Grazie ancora per tutto» le dico con sincerità.

Lei mi guarda e risponde con un sorriso caldo. «Buonanotte, esploratore. Anche io ringrazio voi per avermi portato alla memoria tanti ricordi bellissimi di me e Pietro. Siete letteralmente un dono del cielo. Sogni sereni.»

Senza pensarci, la stringo forte in un abbraccio, lasciando che le sue parole risuonino dentro di me. C’è una gratitudine reciproca che non ha bisogno di essere spiegata.

Una volta in camera, il silenzio della notte ci avvolge. Skippy è già accoccolata sul letto, il muso nascosto tra le zampe, il respiro lento e regolare. Io e Veronika ci sediamo sul bordo, senza parlare. È come se il peso di questa esperienza fosse ancora nell’aria, sospeso tra pensieri che faticano a trovare forma.

Sospiro profondamente, cercando di dare ordine a tutto ciò che ho dentro.

«È stato un momento intenso» dico infine, la voce più bassa del solito. «Ma tutto sommato siamo stati davvero fortunati.»

Veronika resta qualche istante in silenzio, poi annuisce.

«Sì… più che fortunati, direi che è stato significativo.» La sua voce è tranquilla ma carica di pensieri. «Marina non è stata solo un incontro. È stato come se sapesse esattamente cosa dirci, come se fosse lì apposta per farci vedere le cose da un’altra prospettiva.»

La guardo, riflettendo sulle sue parole.

«Ti capisco. Non era solo gentilezza, c’era qualcosa di più. Sembrava sapere esattamente cosa dirci, come se ci avesse dato un segnale.»

Veronika incrocia le gambe e si stringe nel maglione, abbassando lo sguardo.

«In questi giorni ho pensato tanto al motivo per cui facciamo tutto questo. Al volo, al viaggio, agli incontri. A volte mi sembra che il viaggio stesso sia solo una scusa… per trovare pezzi di qualcosa che ancora non abbiamo capito.»

Le sue parole risuonano perfettamente con il turbine di pensieri che ho dentro.

«Forse è proprio così. E forse Marina è stata uno di quei pezzi. Sai cosa mi colpisce di più? Il modo in cui ci ha parlato, senza mai farci sentire deboli, senza mai trattarci come se avessimo bisogno di aiuto… ma riuscendo comunque a farci sentire al sicuro.»

Un sorriso sfiora il viso di Veronika.

«Già… Ogni parola aveva il peso giusto, senza bisogno di essere straordinaria.»

Mi appoggio allo schienale del letto e osservo il soffitto.

«Sai cosa mi spaventa di più? Che fino a ieri non avrei nemmeno dato peso a un incontro così. E invece ora mi chiedo quante storie come la sua ho incrociato senza ascoltarle davvero. Quanti insegnamenti ho lasciato indietro, quante prospettive mi sono sfuggite.»

Veronika si sporge leggermente verso di me e mi prende la mano.

«Allora forse è vero che ogni cosa accade per un motivo. Forse era il momento giusto per incontrarla. Per capire.»

La guardo negli occhi, stringendole la mano con un calore nuovo, come se dentro di me si fosse fatto spazio qualcosa che prima non riuscivo a vedere.

«Forse sì. E forse ci saranno altri incontri così. Altri segnali. E noi dovremo solo essere abbastanza svegli per accorgercene.»

Lei sorride appena e, senza dire altro, mi si avvicina e si appoggia alla mia spalla. Il silenzio che segue non è vuoto, non è pesante. È uno di quei silenzi che riempiono, che dicono più di mille parole.

Spegniamo la luce, lasciandoci avvolgere dalla quiete. E per la prima volta dopo giorni, il sonno arriva senza sforzo, come un volo sereno che prende quota nella notte, portandoci lontano dai pensieri e più vicini al domani.

Nel volo, come nella vita, ogni passo è un atto di fiducia. La strada che percorriamo si svela solo quando accogliamo le sfide con il cuore aperto e l’animo pronto a ricevere. È nelle esperienze condivise che troviamo la forza per andare avanti.

04 + Diario di viaggio Giglio

Una mattina di entusiasmo

Non è la sveglia a tirarci giù dal letto, ma Skippy. Con un’energia incontenibile, salta tra le coperte, emettendo piccoli versi eccitati e spingendo la zampa contro Veronika, impaziente come una bambina la mattina di Natale.

Ridiamo, ancora mezzi addormentati, mentre lei si sporge curiosa verso la finestra, convinta di poter già vedere l’elicottero.

«Ok, ok, piccola esploratrice, ci siamo…» dico stiracchiandomi.

Veronika mi lancia uno sguardo assonnato ma divertito, mentre Skippy trotterella per la stanza, il musetto rivolto verso la porta, già pronta a partire.

Io sbadiglio. «Mi piace vederti felice, piccolina… ma prima ho bisogno di un caffè.»

In pochi minuti siamo fuori, diretti verso il centro di Orbetello in cerca di un bar. La città ci accoglie con il tepore delle prime luci del mattino, il silenzio interrotto solo dai suoni della vita che riprende piano.

Davanti alla laguna, con una tazza fumante tra le mani, il programma della giornata prende forma.

«Alle 10.45 il pilota ci aspetta poco fuori dal centro» dico, cercando di mostrarmi calmo, anche se dentro sento il peso di ciò che dovrò fare.

«Sarà speciale» aggiungo, lanciando un’occhiata al cielo limpido. «Intanto godiamoci la mattinata. Orbetello merita una passeggiata.»

Skippy non ha bisogno della sveglia. Quando c’è un volo in programma è lei a decidere quando inizia la giornata.

piazza del plebiscito Orbetello (foto invacanzaallargentario.it )

Orbetello

Finita la colazione, lasciamo il bar e ci immergiamo nelle strade tranquille del centro storico di Orbetello. L’aria è fresca, ancora intrisa della quiete mattutina, e il profumo del mare si mescola a quello delle prime botteghe che aprono le loro porte.

Il primo punto di interesse che incontriamo è la Porta Medina Coeli, un ingresso imponente che conserva ancora i segni del passato. Veronika alza lo sguardo e indica un dettaglio.

«Guarda, sopra l’arco c’è ancora lo stemma degli Spagnoli» dice con entusiasmo. «L’ho letto ieri sera prima di dormire. Era uno degli ingressi principali quando Orbetello era sotto il loro controllo.»

Orbetello racconta la sua storia in ogni pietra, in ogni riflesso sulla laguna. Qui il tempo non si è fermato: ha semplicemente imparato a scorrere piano.

mulino spagnolo di Orbetello (foto di invacanzaallargentario.it)

Proseguiamo lungo il corso principale, tra piccole botteghe e case dai colori caldi, fino a raggiungere la punta del borgo. Davanti a noi si apre la Diga Leopoldina, il confine tra la terra e l’acqua.

Veronika si ferma e osserva la laguna con un sorriso curioso. «Sai, questa città ha sempre avuto un rapporto particolare con il mare. Non solo per il commercio, ma anche per il volo…» Si volta verso di me con un’espressione pensierosa. «Lo sapevi che un tempo qui decollavano gli aerei?»

Mi fermo, inarcando un sopracciglio. «Dalla diga?»

«No, dall’acqua…» balbetta, cercando il termine giusto. «Quei… quegli aerei che atterrano e decollano dal mare…»

Rifletto un attimo. «Ah… gli idrovolanti? Quindi qui c’era un idroscalo?»

Veronika schiocca le dita. «Esatto! L’idroscalo di Orbetello! L’ho letto ieri. Negli anni ’30 da qui partirono missioni transatlantiche incredibili. La più famosa? Quella di Italo Balbo e la sua squadriglia, che solcò l’oceano senza strumenti moderni, solo con il coraggio e la determinazione di veri pionieri.»

Mi fermo a immaginare quel periodo e le dico:

«Effettivamente, non avendo bisogno di una pista, la laguna offriva loro spazio, calma e un decollo più morbido.»

«Sì, ma pensa alle condizioni in cui volavano» aggiunge Veronika. «Niente radar, niente GPS, solo una bussola e carte approssimative. Eppure hanno attraversato l’oceano.»

«Oggi ci sentiamo avventurosi solo perché sorvoliamo qualche isola con un tablet di bordo e un GPS al metro. Loro invece si lanciavano nel vuoto, senza sapere se sarebbero tornati.» aggiungo.

Veronika sorride. «Noi seguiamo rotte sicure. Loro hanno disegnato il cielo.»

A volte cerchiamo l’esotico lontano, dimenticando che la meraviglia è spesso più vicina di quanto pensiamo.

fenicotteri rosa nella laguna di Orbetello (foto invacanzaallargentario.it)

Rimaniamo per un attimo in silenzio, lasciando che la laguna ci restituisca l’immagine di un’altra epoca. Poi Veronika indica un punto più avanti.

«Guarda, i Mulini Spagnoli

Mi volto per osservare meglio le antiche strutture in mezzo all’acqua. Il loro aspetto è fuori dal tempo, come se appartenessero a un’altra epoca.

«Sembrano sospesi tra il passato e il presente.»

«Li usavano per macinare il grano con la sola forza del vento. Oggi sono uno dei simboli più particolari di Orbetello.» mi racconta lei, indicando poi degli uccelli poco lontani, fermi sulla laguna.

«Fenicotteri. Sono bellissimi.»

«Anche loro usano l’idroscalo» scherzo, osservando un paio di fenicotteri che scivolano sull’acqua con grazia. «Sai che la maggior parte degli italiani non sa nemmeno che in Italia ci sono i fenicotteri?» le faccio notare, mentre la osservo scattare delle foto.

«È vero» conferma Veronika. «Pensiamo sempre a posti esotici, e invece certe meraviglie sono proprio dietro casa. Come quella volta a Comacchio, quando non credevo davvero che li avremmo visti.»

Skippy drizza le orecchie di colpo, gli occhi puntati al cielo.

«Tranquilla, non è ancora il nostro elicottero» la rassicuro con una carezza.

«Ma lo sarà presto» aggiunge Veronika con un sorriso.

Proseguiamo il cammino, con il sole ormai alto sopra di noi e l’adrenalina che inizia a farsi sentire.

Mulino di Orbetello (foto invacanzaallargentario.it)

L’arrivo del Cabri

Spostandoci verso il punto di atterraggio, attraversiamo Piazza del Duomo, dove la Cattedrale di Santa Maria Assunta si staglia con la sua facciata sobria, segnata dai secoli. Le sue fondamenta poggiano sui resti di un antico tempio romano, e nel tempo ha subito trasformazioni che le hanno dato un aspetto unico.

«Sai che questo è uno degli edifici più antichi di Orbetello?» dice Veronika, osservandola con attenzione. «Ha dettagli che mescolano influenze diverse, dalle linee romaniche a tocchi gotici. E sotto di noi potrebbe esserci ancora un pezzo della storia romana.»

«Interessante» rispondo, apprezzando come riesca sempre a notare particolari che mi sfuggono. Il mio sguardo si sposta presto verso l’orizzonte: un rumore inconfondibile si avvicina.

Il battito delle pale dell’elicottero rompe l’aria e Skippy salta entusiasta, quasi travolta dall’emozione. Il piccolo Cabri celeste e giallo appare sopra di noi, scendendo lentamente verso l’area di atterraggio designata. L’erba si piega sotto il vento, mentre la polvere si solleva in vortici sottili. Skippy, con gli occhialoni indossati, osserva la scena con il musetto rivolto verso l’alto, il pelo scompigliato ma lo sguardo fisso sul velivolo.

Il pilota spegne il motore e scende, camminando basso a passo svelto verso di me.

«Camillo, piacere di conoscerti di persona» dice con un sorriso, tendendomi la mano. «Io sono Luca, ci siamo sentiti al telefono. Siete pronti?»

Stringo la sua mano con fermezza, ma le dita tradiscono una leggera tensione. Sento il palmo un po’ più umido del solito e mi schiarisco la gola prima di rispondere.

«Sì, penso di sì.»

Luca mi osserva con attenzione, come se leggesse oltre le mie parole.

«Non preoccuparti. Il vento oggi tira un po’ più del solito, ma il Cabri lo regge benissimo. Devi solo rilassarti e seguire quello che sai già.»

Inspiro a fondo, cercando di sciogliere la tensione. «Grazie, ci proverò.»

«Ah, e un consiglio» aggiunge Luca, abbassando il tono di voce. «Attenti al rientro: la nebbia qui arriva all’improvviso e può cancellare ogni punto di riferimento. Non è il massimo se non hai familiarità con questa zona.»

Un nuovo strato di ansia si insinua dentro di me, sottile ma persistente. Cerco di scrollarlo di dosso con un rapido sguardo al cielo, che per ora è limpido, e ne prendo nota mentale per il ritorno.

«Il mio amico vi aspetta al Giglio» prosegue Luca. «L’elicottero lo potete lasciare nel suo giardino, proprio sopra Giglio Porto. Se ne occuperà lui fino a quando tornerete. È abituato a queste cose, quindi tranquilli.»

«Sì, mi ricordo, ti ringrazio.» rispondo, cercando di mostrarmi più sicuro di quanto mi senta.

Luca annuisce soddisfatto. «Perfetto. Io resterò qui fino al vostro ritorno. Non c’è fretta. Godetevi la giornata. Avvisatemi solo quando state per ripartire.»

Skippy, che fino a quel momento scalpitava accanto a Veronika, le salta in braccio, pronta per partire.

«Tranquilla, piccola, siamo quasi pronti» le dice Veronika, accarezzandole la testa.

Mi avvicino al Cabri, facendo un rapido controllo visivo e cercando di concentrarmi sui gesti meccanici. Respiro, passo mentalmente in rassegna la check-list, ma le parole di Luca sulla nebbia mi tornano in mente. Veronika mi osserva per un attimo e, come se avesse intuito qualcosa, mi sorride.

«Andrà tutto bene» le dico.

Ma forse è più un promemoria per me stesso.

Con il Cabri pronto a portarci in questa nuova avventura, il mare e l’Isola del Giglio ci aspettano. Sento che questa sarà una giornata indimenticabile.

Ogni nuovo decollo porta con sé un brivido: l’emozione dell’ignoto e la fiducia di poterlo affrontare

il piccolo Cabri pronto per il decollo (foto flight simulator 2024)

Dentro al Cabri

Veronika si avvicina all’elicottero con la stessa sicurezza di quando sale su un Cessna, istintivamente tenta di entrare dal lato destro.

«Ehi, aspetta un attimo» le dico con un sorriso. «Sai qual è la prima grande differenza? In elicottero il pilota sta a destra.»

Lei si ferma ridendo e passa dall’altro lato, mentre Skippy, già tra le sue braccia, osserva l’elicottero con l’aria di chi sta per entrare in una nuova dimensione.

Una volta saliti, ci sistemiamo con le cinture di sicurezza e indossiamo le cuffie per le comunicazioni. Lo spazio è più raccolto rispetto al Cessna, e il parabrezza avvolgente ci offre una visione quasi totale del mondo fuori.

Luca, ancora in piedi accanto al portellone aperto, si sporge verso di me.

«Ok, Camillo, questo modello ha qualche differenza rispetto a quello su cui hai preso il brevetto» spiega con calma. «Il Cabri G2 è più leggero e sensibile rispetto ai modelli più grandi. È reattivo nei movimenti laterali e richiede più precisione nelle correzioni. Cerca di dosare il ciclico con delicatezza e ricorda che il collettivo risponde bene anche con pochi input.»

Annuisco mentre cerco di interiorizzare i suoi consigli. Pilotare un elicottero è diverso da un aereo: la stabilità è minore, ogni movimento è amplificato e la sensazione di controllo è più diretta, quasi istintiva, ma richiede un’attenzione costante.

Mi giro verso Veronika e Skippy, che seguono il nostro scambio con espressioni confuse.

«Avete ragione ragazze, vi spiego cosa stiamo dicendo» dico sorridendo. «Il ciclico è questa leva davanti a me: controlla la direzione, come uno sterzo, ma su tutti gli assi, quindi avanti, indietro, destra e sinistra. Il collettivo, invece, è questa leva qui alla mia sinistra e regola la potenza e l’altitudine. Se lo alzo, saliamo, se lo abbasso, scendiamo. E poi ci sono i pedali, che servono per controllare il rotore di coda e mantenere la direzione.»

Veronika scuote la testa ridendo. «Ok, ora mi è tutto chiarissimo» dice ironicamente.

Skippy, invece, inclina la testa con aria seria, come se stesse prendendo memoria di queste informazioni.

Luca ride. «Non preoccuparti, Veronika. Camillo sa il fatto suo. E tu, Skippy, sembri già pronta per diventare copilota.»

Luca mi spiega come affrontare l’atterraggio e gestire il vento. Assimilo ogni dettaglio mentre avvio i sistemi.

Il rumore del rotore inizia a crescere, accompagnato da leggere vibrazioni che riempiono la cabina. Le lancette degli indicatori si spostano una dopo l’altra sul verde, segnalando che tutto è in ordine.

Con le mani ferme sui comandi, osservo il rotore raggiungere i giri previsti. Luca si è allontanato, portandosi in un’area di sicurezza. Gli faccio un cenno con il pollice in su, lui ricambia il gesto con un sorriso e mi osserva attentamente.

Pronto a decollare, respiro profondamente.

«Ok, ci siamo!» dico attraverso le cuffie.

L’adrenalina cresce insieme al ronzio dei rotori, riempiendo la cabina di aspettativa.

Ogni volo inizia con un battito d’ali invisibile: quello dell’adrenalina che sale prima di staccarsi da terra.

decollati da Ortobello (foto flight simulator 2024)

Decollo verso Porto Santo Stefano

Con un leggero movimento del collettivo, il Cabri G2 si solleva da terra. La risposta è immediata: il decollo è fluido, quasi sospeso, diverso dalla corsa su pista di un Cessna.

Veronika stringe leggermente le mani sulle ginocchia e sorride, guardandomi con stupore.

«Che strana sensazione… È come un ascensore, ma più leggero. Come se ci staccassimo dal mondo senza strappi.»

Dal parabrezza, il paesaggio si spalanca davanti a noi. La laguna di Orbetello scorre piano e il mare, increspato dal vento, si distende all’orizzonte.

Mi concentro sui comandi mentre mi lascio andare a un pensiero ad alta voce.

«L’elicottero per me è come la moto. Amo potermi muovere in ogni direzione, senza vincoli.»

Veronika ha gli occhi fissi sul panorama.

«Sì, peccato che fare un giro del mondo in elicottero sarebbe stato logisticamente impossibile.»

Le onde si frangono dolcemente sulle sponde del Tombolo della Giannella mentre Veronika riflette ad alta voce.

«Anche la dinamica del volo è diversa. È fluida, verticale. Non sembra di attraversare il cielo, sembra di farne parte.»

Annuisco, mantenendo l’attenzione sugli strumenti.

«Non pilotavo un elicottero da quando ho preso il brevetto, ma è come andare in bicicletta. I movimenti tornano naturali.»

«E non sei nemmeno un po’ teso?» mi chiede Veronika, curiosa.

«Forse un po’. Ma è una tensione buona. Ti tiene vigile.» le rispondo, cercando di sembrare il più tranquillo possibile.

Il Cabri procede sicuro, superando leggere turbolenze, mentre Porto Santo Stefano si avvicina e le sue case colorate iniziano a spiccare contro il blu intenso del mare.

Il parabrezza trasparente amplifica la vista, regalandoci l’impressione di fluttuare nel vuoto.

Volare in elicottero è come galleggiare tra cielo e terra, senza pareti a separarti dall’infinito

Porto Santo Stefano visto dal Cabri (foto flight simulator 2024)

Porto Santo Stefano e il volo verso il Giglio

Sorvoliamo la costa poco distante da Porto Santo Stefano, seguendo il profilo frastagliato della terra che si tuffa nel mare. Il porto è un mosaico in movimento: pescherecci, velieri e yacht moderni si intrecciano in una danza lenta tra gli ormeggi.

Veronika osserva affascinata.

«Sai che Porto Santo Stefano è stato quasi interamente ricostruito dopo la Seconda Guerra Mondiale?» dice. «Fu uno dei porti più bombardati in Toscana, ma oggi è tornato a essere il cuore dell’Argentario

Osservo la costa.

«Non lo sapevo, ma ha senso. Ha quell’aria di posto che ha saputo rialzarsi.»

Veronika si illumina di colpo.

«Oh, le foto!» esclama ridendo, afferrando la macchina fotografica che aveva lasciato in grembo.

Inizia a scattare, immortalando la costa che si estende verso il promontorio.

Skippy, invece, sembra più interessata agli strumenti che al panorama. Ogni tanto muove il musetto, scrutando ogni mio movimento, come se cercasse di decifrare ogni mia azione.

Superiamo il porto, seguendo il profilo del promontorio. La costa si fa più selvaggia, le scogliere precipitano a picco nel mare, interrotte solo da piccole calette nascoste tra la vegetazione.

Lontano, l’Isola del Giglio emerge come un’ombra scura tra cielo e mare.

Alla nostra sinistra, il sole si riflette sull’acqua, creando scie dorate che danzano con le leggere onde.

Prendendo il mare aperto, Veronika abbassa la fotocamera e guarda la strumentazione con aria curiosa.

«Mi ha sempre incuriosito come funzionano quei pedali» dice, indicando quelli ai suoi piedi. «Sul Cessna non li vedo mai così chiaramente.»

Felice di poter condividere informazioni così da ripeterle anche a me stesso, le rispondo:

«Sul Cessna 172 sono meno evidenti perché servono solo per il timone di coda, mentre qui hanno un ruolo più attivo. Regolano il rotore di coda, che ci permette di mantenere la direzione o ruotare l’elicottero su se stesso. Li uso molto più spesso, soprattutto quando siamo fermi o a basse velocità

Lei segue il movimento dei miei piedi sui pedali, osservando con attenzione.

«Quindi, invece di sterzare, lo fai girare su sé stesso?»

«Esatto. È come stare in equilibrio su un punto, tutto è più immediato ma anche più instabile rispetto a un aereo

Veronika scoppia a ridere all’improvviso.

«E il ciclico, si chiama così giusto?» dice, indicando la leva davanti a me. «Ogni volta che lo usi, il mio si muove di conseguenza e mi ha toccato le mani un paio di volte. È come se mi stesse salutando!»

Sorrido.

«Sì, sono collegati direttamente.»

L’elicottero vibra leggermente con il vento, una sensazione più diretta rispetto al volo in Cessna.

Qui tutto è immediato, ogni correzione passa attraverso i comandi e si riflette istantaneamente nel velivolo. Non c’è inerzia, solo reazione.

Davanti a noi, il Giglio si avvicina sempre di più, avvolto dalla luce dorata del mattino.

Ogni viaggio è una scoperta ma alcuni luoghi raccontano la loro storia anche dall’alto, tra mare e vento.

la costa dietro Porto Santo Stefano (foto flight simulator 2024)

Arrivo al Giglio e la costa sud

La costa sud del Giglio ci appare come un paesaggio aspro e selvaggio. Virando a sud, seguiamo il profilo dell’isola per circumnavigarla interamente.

«Guarda laggiù» dice Veronika, indicando un faro che si erge solitario sulla punta meridionale.

«Il Faro di Capel Rosso è uno dei più antichi della Toscana, costruito a metà Ottocento e ancora oggi attivo.»

Si ferma un istante, poi aggiunge:

«Dal vivo è ancora più affascinante che in foto. Chissà quante tempeste ha visto passare.»

Mantengo l’elicottero stabile in una virata per tornare verso nord.

«Un punto di riferimento che non smette mai di fare il suo lavoro» rifletto ad alta voce.

Veronika scatta delle foto, poi si gira verso di me.

«Sai che sull’isola vivono solo circa 1400 persone? Tra Giglio Porto, Giglio Castello e Campese. Deve essere un posto in cui il tempo ha un ritmo diverso.»

in arrivo all’isola del Giglio (foto flight simulator 2024)

Osservo Skippy, il musetto incollato al finestrino, incantata da ogni dettaglio.

Poi si gira verso di me, gli occhi pieni di meraviglia.

In quel momento capisco: per lei, sono di nuovo il pilota, il riferimento, quello che la porta oltre i confini del mondo.

Dopo Siena, dopo Carlo, dopo quel momento in cui il mio ruolo sembrava scivolato via, ora sento di averlo ritrovato.

E questo, lo ammetto, mi fa sorridere sotto gli occhiali.

La costa, con bellissime scogliere a strapiombo, scorre ora alla nostra destra e ci accompagna verso nord.

«Questa parte dell’isola è famosa per i suoi fondali» spiega Veronika.

«Pare che sia uno dei luoghi preferiti dai sub. Hanno trovato relitti qui vicino, tra cui alcuni antichi risalenti al periodo romano

«Ha senso» rispondo, lasciando che le sue parole arricchiscano il panorama.

«L’isola è stata abitata fin dall’antichità. Gli Etruschi e poi i Romani usavano questi mari per il commercio e probabilmente anche come rifugio.»

Il paese a nord, Campese, si avvicina lentamente.

Le sue case colorate si affacciano su una baia tranquilla, dominata dalla Torre medicea che continua a fare la guardia alla costa.

Alcuni luoghi sembrano sospesi nel tempo, custodi silenziosi di storie che il mare continua a sussurrare.

la costa dell’isola del Giglio dal Cabri (foto flight simulator 2024)

In salita verso Giglio Castello

Mi fermo in hovering sopra Campese e ruoto l’elicottero per avere una visuale completa. Poi inizio a guadagnare quota, salendo verso l’interno dell’isola.

Giglio Castello, il borgo fortificato sulla montagna, si svela lentamente mentre saliamo, con le sue mura imponenti che spiccano sul paesaggio sottostante.

«Questo è uno dei borghi più antichi dell’Arcipelago Toscano» dice Veronika.

«Le sue mura risalgono al Medioevo e il centro è praticamente intatto. È come fare un salto indietro nel tempo

Skippy segue ogni movimento con una concentrazione sorprendente. Il suo entusiasmo è contagioso e per un attimo mi sento completamente immerso nella bellezza di ciò che stiamo vivendo.

Felice di poter condividere tutto questo con loro, sapendo che sarà un ricordo che ci porteremo dietro.

Superato Giglio Castello, il terreno precipita rapidamente verso il mare, aprendo un panorama mozzafiato.

Giglio Castello (foto vrbo.com)

Mi abbasso di quota, puntando verso Giglio Porto.

Cerco il punto d’atterraggio indicato da Luca, con un occhio al tablet e l’altro alla costa.

Lo riconosco quasi subito: un piccolo appezzamento di terra vicino ad alcune case, circondato da alberi, con una piccola bandiera a vento, di quelle bianche e rosse degli aeroporti, proprio come descritto da Luca.

Mi tornano in mente le parole di Luca:

«Il mio amico è abituato a vedere elicotteri atterrare lì.»

Il pensiero che questa manovra sia riuscita a molti altri prima di me mi rassicura, ma solo in parte.

Gli alberi intorno sembrano stringersi attorno all’elicottero, e sento il peso della responsabilità premere sulle mie spalle.

Controllo gli strumenti, mi concentro e inizio la manovra di discesa.

L’atterraggio procede liscio fino al momento finale quando, abbassando il collettivo un po’ troppo velocemente, un leggero colpo scuote l’elicottero, facendoci sussultare.

«Scusate» dico imbarazzato, togliendo le mani dai comandi con un sospiro di sollievo.

Veronika mi lancia un sorriso comprensivo, accarezzando Skippy che, nonostante tutto, sembra più incuriosita che spaventata.

Giglio Castello si erge come un guardiano del tempo, un luogo dove le storie non sbiadiscono ma si rafforzano con il vento e le pietre

discesa verso Giglio Porto (foto flight simulator 2024)

Giglio Porto: tra colori e storia

Appena i motori si spengono e il rotore inizia a rallentare con un sibilo che sfuma nell’aria, un uomo sulla cinquantina esce da una casa vicina. Il sole basso illumina il suo viso mentre si avvicina con passo deciso. «Ben arrivati!» dice con un sorriso aperto. «Io sono Sandro, l’amico di Luca. Spero che il volo sia andato bene.» Scendiamo dall’elicottero uno alla volta, a testa bassa e schivando il vento ancora sollevato dalle pale in movimento. «È stato fantastico» risponde Veronika, mentre io gli stringo la mano con gratitudine. «Grazie per averci ospitati» aggiungo. «E mi scuso per l’atterraggio un po’… brusco.» Sandro ride. «Non ti preoccupare, sei andato benissimo. Ho visto atterraggi molto peggiori.» Dopo qualche scambio di battute ci avviamo verso Giglio Porto. Skippy, finalmente rilassata dopo l’atterraggio, mi salta sulla spalla con l’agilità di sempre, abbracciandomi il collo con una zampetta. Mi scappa un sorriso: era da un po’ che non lo faceva. Dopo Siena, dopo Carlo, dopo quel piccolo momento di gelosia che avevo provato, ora la sento di nuovo mia complice. Le case color pastello si specchiano nell’acqua immobile, mentre le barche ondeggiano appena, cullate dal respiro del porto. Il mormorio delle onde riempie l’aria, mescolandosi al profumo di salsedine.

«Carlo raccontava che questo porto ha sempre avuto un ruolo importante, vero?» dice Veronika, lasciando vagare lo sguardo sulle barche. «Prima per i commerci romani, poi come rifugio sicuro per le navi in tempesta.»

Alcuni luoghi sembrano costruiti per proteggere, altri per accogliere. E Giglio Porto ha imparato a fare entrambe le cose.

Giglio Porto (foto viaggi.corriere.it)

Una sosta dolce vista mare

Osservando la conformazione del porto, le rispondo. «Non mi sorprende. Sembra costruito apposta per proteggere non solo le barche, ma anche chi vive qui.» Arrivati in paese ci fermiamo lungo una viuzza per prendere un gelato artigianale. Skippy, dal suo posto privilegiato sulla mia spalla, assapora la sua coppetta come se fosse un’esperienza mistica.

Ci spostiamo poi su una panchina fronte mare, lasciandoci avvolgere dall’atmosfera rilassata del borgo. Il porto da qui sembra pulsare di vita, incorniciato dalle case color pastello che si riflettono nell’acqua ha un non so che di magico. Forse anche per il sole che nel mentre si sta abbassando tingendo il cielo di sfumature calde. «Sai» dice Veronika, osservando il mare «una delle cose che amo di questi posti è che non hanno bisogno di esagerare. La loro bellezza è essenziale, autentica.» Le rispondo mentre assaporo l’ultimo pezzo del mio gelato. «Hai ragione. Perfino il silenzio qui sembra avere un suono diverso.» Poco dopo riprendiamo la passeggiata senza una meta precisa, finché lo sguardo di Veronika viene catturato da un espositore di cartoline fuori da una piccola bottega. Si avvicina lentamente, quasi richiamata da un pensiero improvviso. La osservo sfiorare con le dita le immagini di Giglio Porto, poi ne prende una e la rigira tra le mani, riflettendo.

Non c’è bisogno di parole. So esattamente a chi sta pensando. Senza interromperla, la vedo prendere una penna dal bancone e iniziare a scrivere. Mi allontano di qualche passo, lasciandole tutto il tempo di esprimere ciò che sente. Da lontano, la guardo sorridere mentre riempie la cartolina di parole. In quel momento, mi accorgo di quanto sia felice di vederla così, dopo il momento di malinconia di ieri. Nel frattempo Skippy si è intrufolata in un gruppo di bambini che rincorrono i gabbiani sulla piazzetta del porto. La scena è pura gioia: si lancia all’inseguimento con entusiasmo ma i gabbiani, con un battito d’ali, la lasciano con le zampe nel vuoto. I bambini ridono e gridano, mentre lei, per nulla scoraggiata, cambia strategia, correndo in cerchio per anticiparli. Poi, cercando di fermarsi troppo in fretta, ruzzola sulla schiena con le zampe all’aria. Un attimo di silenzio, poi un’esplosione di risate. Anche Skippy, dopo un secondo di sorpresa, scoppia a ridere con il suo verso caratteristico, rialzandosi come se nulla fosse accaduto.

Veronika torna verso di me con la cartolina ormai spedita. I suoi occhi luminosi non hanno bisogno di parole. Mi bacia con dolcezza, come per ringraziarmi di averla spronata a trovare un modo per esprimere ciò che provava. Skippy, ansimante dopo la sua corsa con i bambini, ci raggiunge barcollando, ancora euforica. «Hai dato spettacolo, eh?» le dico ridendo. Lei si accascia tra le nostre gambe con fare teatrale, soddisfatta della sua impresa. Diamo un’ultima occhiata al porto. Il tramonto è vicino, le ombre si allungano sulle barche. «Forse è meglio iniziare a rientrare» dico, scrutando l’orizzonte che si tinge di arancio e rosa. Veronika annuisce, riponendo la fotocamera dopo aver scattato un’ultima foto.

«La signora del negozio mi ha raccontato una cosa curiosa» dice mentre ci avviamo verso l’elicottero. «Pare che il primo faro dell’isola sia stato acceso dai Romani, per guidare le loro navi cariche di ferro dall’Elba Immagino le antiche imbarcazioni solcare il mare secoli fa. «Non c’è niente di più affascinante di un posto piccolo con una grande storia.» Siamo vicini casa di Carlo, pronti a salutare questo angolo di paradiso e riprendere il volo verso casa. Con una cartolina in viaggio e un sorriso che accompagna il tramonto.

Anche il silenzio ha un suono diverso qui.

il porto di Giglio Porto (foto gigliovacanze.it)

Ritorno nell’oscurità

Dopo aver salutato e ringraziato Sandro per l’ospitalità, gli porgo una bottiglia di vino che accetta con un sorriso caloroso. «Non era necessario ma grazie. Spero torniate presto al Giglio» dice stringendomi la mano con un calore genuino. Skippy, dal suo posto accanto a Veronika, lo osserva con l’aria di chi ha già classificato questa giornata tra le sue preferite. Avvio il motore e il suono, adesso familiare, del rotore che inizia a girare riempie l’aria. Veronika e Skippy si sistemano velocemente al loro posto mentre io verifico per l’ultima volta gli strumenti. Con un leggero movimento del collettivo decolliamo. Giglio Porto, ora avvolto dall’oscurità, appare ancora più suggestivo con le sue luci che disegnano riflessi tremolanti sul mare. La vista è quasi ipnotica.

Man mano che ci allontaniamo dall’isola, la sensazione di quiete lascia spazio alla concentrazione. Provo a regolare la retroilluminazione degli strumenti, troppo intensa e affaticante per gli occhi, ma non riesco a trovare il giusto equilibrio. Sospirando mi rassegno al fastidio, cercando di ignorarlo mentre controllo la rotta verso Orbetello. Davanti a noi il mare è avvolto da piccoli banchi di nebbia sulla superficie. Il faro dell’elicottero ne illumina alcuni, creando giochi di luce irreali, quasi ipnotici. Il promontorio dell’Argentario emerge netto all’orizzonte, un riferimento chiaro che guida il volo senza incertezze. Per ora, la nebbia è un elemento scenico, non un ostacolo.

Ma avvicinandoci alla costa, il paesaggio cambia. La nebbia, prima solo un velo sospeso sul mare, inizia a risalire lungo i fianchi della montagna, avvolgendo le insenature come un respiro trattenuto. I contorni del promontorio, prima così definiti, si dissolvono gradualmente nell’oscurità. Per un attimo il mondo esterno si dissolve. Il mare, il cielo, la costa: tutto diventa un’unica ombra indistinta. Istintivamente stringo il ciclico, un secondo di esitazione, poi porto lo sguardo sugli strumenti. La bussola mi conferma la rotta. Il cuore accelera ma la mente si ancora ai numeri e alle linee luminose che segnano il confine tra controllo e smarrimento.

Stringo il ciclico e aggiusto la rotta con un micro-movimento, affidandomi alla bussola e all’orizzonte artificiale. «Luca aveva ragione» penso, mentre un sottile brivido mi percorre. «Tornare prima del buio completo è stata una scelta saggia.» Porto Santo Stefano si rivela alla nostra destra, ora sembra un presepe illuminato. Le luci delle case e delle strade si riflettono dolcemente sul mare, creando un’immagine perfetta. Sorrido, lasciando che quel pensiero semplice ma evocativo mi accompagni per qualche istante.

Mentre Veronika continua a scattare foto puntiamo verso il nuovo luogo di atterraggio, un campo poco distante dal Tombolo della Giannella come consigliato da Luca. Con il promontorio ormai alle spalle mi preparo mentalmente per l’atterraggio, consapevole che ogni fase del volo richiede la massima attenzione.

Nel buio della notte il Giglio si allontana e le luci di Porto Santo Stefano brillano come un presepe sospeso sul mare. Ogni volo è un viaggio tra attesa e meraviglia

Porto Santo Stefano al buio (foto flight simulator 2024)

Atterraggio sotto le stelle

Il faro dell’elicottero illumina il campo erboso che si staglia davanti a noi. Noto la figura familiare di Luca, in piedi accanto a un fuoristrada, con le braccia incrociate e un sorriso rilassato. Con attenzione guido il Cabri verso il punto di atterraggio mantenendo la concentrazione mentre i pattini toccano terra con una leggera vibrazione. Spengo il motore e il rotore rallenta gradualmente fino a fermarsi.

Una volta spenti tutti gli strumenti ci togliamo le cuffie e scendiamo dall’elicottero. Sciolgo le spalle e apro le mani lentamente, rendendomi conto solo ora di quanto le dita siano rimaste contratte sui comandi. Anche l’adrenalina inizia a calare, lasciando spazio alla stanchezza buona, quella che arriva dopo un volo che ti ha tenuto sul filo.
Luca si avvicina stringendomi la mano con calore. «Ottimo lavoro, Camillo. Ti sei mosso come un veterano» dice con un tono che mi strappa un sorriso di sollievo.
«Grazie, Luca. È stato un volo indimenticabile ma credo che ora mi servirà un bicchiere d’acqua per calmare l’adrenalina» rispondo ridendo.

Skippy si sporge verso Luca con il musetto curioso dopo che lui l’ha chiamata a sé «Vieni qui, piccola pilota» dice tirando fuori dalla tasca un piccolo portachiavi a forma di elicottero. «Questo è per te, per ricordarti del tuo primo volo in elicottero.»
Skippy emette un verso di pura gioia, stringendo il piccolo elicottero come se fosse il trofeo di una grande avventura. Poi lo solleva con orgoglio per mostrarlo a noi, come se avesse davvero conquistato il cielo. «Grazie, Luca. È un gesto bellissimo» dice Veronika accarezzando la testa di Skippy. Poi aggiunge: «Sai, raccoglie sempre piccoli souvenir dai nostri viaggi. Questo sarà uno dei più speciali.»

il piccolo souvenir regalato da Luca a Skippy (foto Dall-E)

Luca sorride salutandoci con un ultimo abbraccio. «Allora ci vediamo al prossimo volo, magari con un altro Cabri.»
Ci allontaniamo verso l’auto con cui torneremo in albergo. La notte è fresca e l’adrenalina inizia a lasciare spazio a una piacevole stanchezza. Una volta arrivati in camera Veronika si siede accanto alla finestra, accarezzando Skippy che tiene stretto il suo nuovo portachiavi.

«Domani si riparte per l’Elba» dico controllando le previsioni meteo sul tablet. «Ti ricordi la vacanza in moto all’Elba? La Rebel 500 e il giro dell’isola intera?»
Veronika sorride. «Come dimenticarlo? È stata una delle nostre vacanze più belle. La moto e quelle strade ci facevano sentire parte del paesaggio.»
Sorrido. «Già. Questa volta sarà diverso, ma sono sicuro che sarà altrettanto speciale.»

Mentre controllo il meteo la mia espressione però cambia. «Ci sono venti forti previsti anche per domani» dico preoccupato. «Spero che riusciremo a partire senza problemi.»
Veronika mi guarda con comprensione. «Qualunque cosa accada, troveremo un modo. Come sempre.»

Con quel pensiero rassicurante ci prepariamo per la notte, sapendo che ogni giorno in volo porta con sé nuove sfide ma anche momenti unici da custodire.

Ogni atterraggio porta con sé sollievo e nuove emozioni ma è nei piccoli gesti – una stretta di mano, un portachiavi tra le zampe di Skippy – che restano impressi i ricordi più preziosi.

03 + Diario di Viaggio Siena

Irina

Quando mi sveglio, il letto accanto a me è vuoto. Skippy, invece, dorme profondamente, acciambellata ai piedi del letto con il musetto nascosto, come sempre, sotto la giacchetta da pilota. Sorrido alla vista della sua piccola figura raggomitolata, poi mi alzo e seguo il profumo di caffè che sale dalle scale.

Apro la porta del patio e la vedo: Veronika è seduta con una donna, immerse in una conversazione che sembra quella di due vecchie amiche. Ridono, complici, come se si conoscessero da sempre.

«Camillo, vieni! Ti presento Irina» mi dice Veronika, sollevando lo sguardo con un sorriso luminoso.

Irina mi saluta con calore. Ha un viso sereno, lineamenti eleganti e un italiano fluido che tradisce un accento russo. Un dettaglio che spiega subito l’intesa con Veronika.

Mi unisco a loro, ancora un po’ assonnato, mentre la conversazione si sposta sul nostro viaggio. Irina ascolta con attenzione, le sue domande rivelano un interesse sincero. Ha lo sguardo di chi ha vissuto molto ma senza bisogno di raccontarlo apertamente. C’è un’eleganza nei suoi silenzi, una calma che la rende magnetica.

“Alcuni incontri arrivano nel momento esatto in cui devono accadere, senza bisogno di spiegazioni, solo con la certezza che lasceranno il segno.”

Irina seduta sotto il portico (foto leonardo.ai)

Carlo

Mentre chiacchieriamo, un uomo si avvicina al tavolo. Andatura calma, sguardo sicuro, il portamento di chi ha vissuto molto e affrontato ancora di più. Irina si alza per presentarlo.

«Camillo, questo è mio marito Carlo. Anche lui un pilota.»

La sua stretta di mano è ferma, il sorriso accogliente. Ha quell’aria di chi sa stare ovunque con naturalezza, senza bisogno di imporsi. Ci sediamo e la conversazione prende subito vita.

Carlo ha il tono di chi racconta storie senza ostentazioni ma con l’abilità di chi le ha vissute davvero.

«Ci siamo conosciuti durante un volo d’emergenza medica in Africa» racconta, lanciando un’occhiata a Irina. «Io ero il pilota, lei il medico responsabile.»

Irina sorride. «Era una missione rischiosa. Quando siamo finiti in una turbolenza, Carlo mi ha tranquillizzata con una battuta, come se stessimo sorvolando un campo di margherite.»

Si guardano con intesa, quella connessione silenziosa che solo chi ha condiviso il rischio e l’incertezza può avere. Raccontano di missioni in villaggi sperduti, voli sopra deserti e montagne, emergenze affrontate senza sapere cosa avrebbero trovato all’atterraggio.

«Non abbiamo mai avuto figli» dice Irina, con un sorriso malinconico ma sereno. «Abbiamo considerato nostri figli tutti i bambini che abbiamo aiutato e curato.»

Carlo annuisce. «E ora, finalmente, abbiamo tempo per noi. Viaggiamo senza fretta, scoprendo quei luoghi che un tempo sorvolavamo soltanto.»

Ogni parola pesa come un bagaglio pieno di esperienze. Ascoltandoli, sento che questo incontro cambierà anche il nostro viaggio.

“Alcuni viaggi si fanno per vedere il mondo, altri per incontrare persone che lo cambiano per sempre.”

Carlo (foto leonardo.ai)

Un invito inaspettato

Mentre la conversazione scivola su Siena, Carlo accenna ai suoi trascorsi nella città. «Ho studiato qui, è un luogo che mi ha formato. Conosco ogni angolo ma c’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire.»

Veronika si illumina. «Perché non venite con noi oggi? Sarebbe bellissimo avere voi come compagnia!»

Rimango sorpreso dalla proposta, ma l’entusiasmo di Veronika è contagioso. Carlo e Irina si scambiano un’occhiata complice, poi annuiscono con un sorriso.

«Sarà un piacere» dice Carlo.

Irina si appoggia allo schienale della sedia, divertita. «Ma ho sentito che non siete soli in questo viaggio.»

Veronika ride. «Vero. Abbiamo una piccola compagna di avventure. Vi avverto, ha un carattere tutto suo… e un talento speciale nel combinare disastri con incredibile disinvoltura.»

Come se avesse sentito, Skippy compare dal nulla, sbucando dalla porta con le orecchie dritte e un passo sicuro. Ma invece di avvicinarsi con grazia, scivola leggermente sul pavimento di pietra e finisce la sua entrata con un saltello maldestro per recuperare l’equilibrio.

Irina la guarda con un sorriso affettuoso. «Mi piace già.»

Skippy si ricompone con assoluta serietà, come se il piccolo incidente non fosse mai successo, poi si avvicina con aria attenta, osservando Irina e Carlo come se li stesse analizzando.

«Ecco a voi Skippy» dice Veronika, accarezzandole la testa. «La nostra mascotte, esploratrice e… beh, protagonista di più momenti comici di quanto vorrebbe ammettere.»

Carlo la osserva con divertimento. «Ha l’aria di chi sa il fatto suo. E ammiro il suo stile da pilota esploratrice. Mi piace!»

Skippy inclina la testa, come se stesse considerando il complimento, poi si arrampica sulle gambe di Veronika, prende un biscotto dal tavolo e si accoccola, come per dire che ora possiamo continuare a parlare.

Osservo la scena e incrocio le braccia. Avrei preferito venisse da me. Pilota e copilota, no?

Irina scuote la testa sorridendo. «Sì, decisamente una vera viaggiatrice.»

A quelle parole, Skippy alza il musetto con fierezza e si ricompone nella sua posa da navigatrice esperta, gonfiando leggermente il petto e posizionandosi con un’aria di professionalità quasi esagerata.

Mentre ci prepariamo a partire, l’atmosfera è già familiare. Siena ci aspetta e stavolta non saremo solo noi tre a scoprirla.

“Alcuni incontri avvengono per caso, altri sembrano scritti nel viaggio prima ancora di partire.”

la camera dell’agriturismo (foto leonardo.ai)

Siena e le storie del passato

Attraversiamo le strade di Siena seguendo Carlo, che si muove con la sicurezza di chi conosce ogni angolo ma con lo sguardo di chi continua a scoprire qualcosa di nuovo. Non ha fretta, come se volesse lasciare che i ricordi emergano da soli, al ritmo della città.

«Quando cammino qui» dice, «mi sembra di tornare agli anni dell’università. Ogni vicolo mi racconta una storia, come un vecchio amico che non vedo da tempo.»

«Ti senti ancora legato a Siena?» chiedo mentre ci addentriamo in una piazza meno affollata.

Carlo annuisce con un sorriso. «Non credo si possa mai lasciare davvero un posto come questo. Non sono nato qui, ma per anni è stata casa mia. Quando studiavo qui, c’era un’energia diversa… più studenti per le strade, più botteghe aperte. Ogni angolo aveva il suo piccolo mondo, la sua storia. Oggi qualcosa è cambiato, alcuni posti sono spariti, ma le mura, i vicoli, il cielo sopra questa città… quelli sono gli stessi. Siena è rimasta la stessa, eppure ogni volta sembra raccontare qualcosa di nuovo. Forse è solo il tempo che ci fa scoprire sfumature diverse.»

Lo ascolto parlare e mi rendo conto che, in pochi minuti, ha conquistato l’attenzione di tutti. Ha quella capacità di far sembrare ogni storia importante, di dare peso alle parole senza ostentazione. Anche Skippy, che solitamente è più selettiva nelle sue simpatie, lo segue con una devozione quasi assoluta.

Ogni tanto si ferma, osserva qualcosa che Carlo indica e poi lo raggiunge di corsa, quasi prendendo appunti invisibili.

Dietro di noi Veronika e Irina camminano vicine, ridendo e scambiandosi sguardi complici. Il loro legame cresce a ogni passo, come se si conoscessero da sempre.

«Qui sopra venivo spesso a studiare» dice Carlo, fermandosi su una scalinata panoramica. «Mi piaceva il silenzio, interrotto solo dai rintocchi delle campane.»

Si avvicina a una panchina e sfiora lo schienale con le dita. «Qui invece ho preso la decisione più importante della mia vita.»

Veronika si accosta. «Il volo?»

Carlo sorride. «Sì. Siena mi ha insegnato tante cose, ma quella sera mi ha dato la più importante: a volte non è il destino che decide, sei tu che devi fare il primo passo.»

Skippy, accovacciata accanto a lui, inclina la testa con un’aria attenta, come se cercasse di capire esattamente cosa intendesse dire. Poi si avvicina un po’ di più, posandogli una zampa sulla scarpa, con un gesto lento, quasi solenne, come a voler confermare che aveva preso la decisione giusta.

«A volte basta un attimo per cambiare tutto» aggiunge Carlo, abbassando lo sguardo su di lei con un sorriso.

Riprendiamo il cammino e Carlo ci porta davanti a un’insegna modesta. «Qui lavoravo mentre studiavo» dice con un sorriso nostalgico. «Ora il nome è cambiato, come anche i proprietari, ma l’atmosfera è sempre la stessa.»

Osservo la scena e incrocio le braccia, lanciando un’occhiata a Skippy, che continua a seguirlo come se fosse il suo nuovo mentore. Sorrido tra me e me. Va bene, posso accettarlo… per ora.

“Alcuni luoghi non si limitano a ospitarci ma ci plasmano, diventando parte di noi.”

Osteria di Carlo (foto Leonardo.ai)

Un piatto di ricordi

Ci sediamo e Carlo, senza nemmeno aprire il menu, suggerisce subito: «Dovete provare gli gnudi

Veronika annuisce con curiosità e poco dopo il cameriere porta i piatti ancora fumanti. Il profumo di burro e salvia si diffonde nell’aria, avvolgendoci in un’atmosfera di casa. La consistenza morbida della ricotta e il sapore delicato dei carciofi raccontano Siena in un boccone.

«È come un abbraccio» commenta Veronika, assaporando il primo morso.

La osservo sorridendo. Ha questo modo di perdersi completamente nei sapori, come se ogni piatto fosse una piccola scoperta da vivere fino in fondo.

Carlo sorride, osservandoci soddisfatto. «Non serve essere complicati per essere straordinari.»

«Infatti» aggiunge, poggiando la forchetta. «Gli gnudi nascono come piatto povero della tradizione contadina, fatti con pochi ingredienti semplici. Ma è proprio nella loro essenzialità che si trova la loro forza.»

Accanto a noi, Skippy fissa il piatto con interesse, le orecchie dritte e il musetto leggermente inclinato. La sua capacità di individuare il cibo buono con una precisione millimetrica è qualcosa che rasenta il soprannaturale.

Irina ride e le accarezza la testa. «Credo che anche lei approvi.»

Carlo posa la forchetta con un’espressione nostalgica. «Qui ho imparato che inseguire un sogno può essere più difficile di quanto immagini, ma ogni passo conta. E, come per questi piatti, spesso la semplicità è la chiave.»

“A volte basta un piatto semplice per raccontare la storia di un luogo e di chi lo ha vissuto.”

Gnudi di carciofo conditi con burro e salvia (foto Dall-E)

Passeggiando tra storia e curiosità

Usciti dall’osteria, Carlo continua a raccontare Siena con la voce di chi non si è mai stancato di lodarla.

«Vedete quel palazzo?» indica un’imponente costruzione in pietra. «È Palazzo Tolomei, uno degli edifici più antichi della città. Qui si decidevano le sorti politiche di Siena prima ancora che diventasse famosa per il Palio

Proseguiamo fino alla Fonte Gaia.

«Nel Medioevo questa fontana rappresentava la gioia della città» spiega Carlo. «Portare l’acqua fin qui fu un’opera d’ingegneria straordinaria.»

Veronika sfiora l’acqua con le dita. «Quindi il nome ‘Gaia’ viene da questo?»

Carlo annuisce. «Dalla gioia dei senesi nel vedere l’acqua scorrere dopo secoli di difficoltà.»

Poco dopo ci fermiamo ai piedi della Torre del Mangia.

«Sapete perché si chiama così?» domanda Carlo con un sorriso.

«Non ne ho idea» ammetto.

«Il suo primo custode era Giovanni di Balduccio, detto ‘Mangia’ perché spendeva tutto in cibo e divertimenti.»

Scoppiamo a ridere. «Quindi una delle torri più imponenti della città prende il nome da un gaudente?»

Carlo annuisce. «Ironico, vero?»

Skippy, che ci ha seguiti diligentemente, comincia a rallentare visibilmente provata. Carlo si china verso di lei. «Dai, piccola, sali qui.»

Senza farselo ripetere due volte, Skippy si arrampica sulle sue spalle, il musetto puntato in avanti come un piccolo capitano.

La scena mi strappa un sorriso, ma sento un leggero pizzico di gelosia.

«Mi sembra che stia scegliendo nuovi pupilli» commento scherzando.

Carlo ride. «Forse ha solo bisogno di un punto di vista diverso.»

Davanti alla Basilica di San Domenico, Carlo si ferma.

«Qui è conservata la reliquia della testa di Santa Caterina. Una giovane donna che riuscì a influenzare papi e re nel XIV secolo.»

Veronika osserva il portale decorato. «Deve essere stata una donna incredibile.»

«Immagina» continua Carlo, «una ragazza nata in una famiglia modesta, decisa a seguire la sua fede senza lasciarsi fermare da nessuno. A soli sette anni fece voto di consacrarsi a Dio. E da adulta, mentre il mondo era diviso tra guerre e lotte di potere, lei riuscì a convincere il Papa a riportare la sede pontificia a Roma

Veronika incrocia le braccia e la guarda con nuovo interesse. «Dev’essere stata incredibilmente determinata.»

Carlo annuisce. «Più che determinata, inarrestabile. Per alcuni una santa, per altri una ribelle.»

Mentre passeggiamo tra i vicoli, Carlo ci racconta di feste di contrada, di rivalità secolari e di storie che vivono ancora oggi nelle strade di Siena.

«Un giorno, durante il Palio, ho visto un anziano raccontare ai bambini di quando aveva corso per la sua contrada. Era come se stesse rivivendo ogni emozione. Siena è così: una città che non dimentica.»

Mi soffermo su quelle parole. I luoghi hanno davvero una memoria? A volte sembra che certi angoli di città trattengano le storie di chi li ha vissuti, come se aspettassero solo qualcuno disposto ad ascoltarle. E Siena, con i suoi vicoli e le sue tradizioni ancora vive, sembra essere uno di quei posti.

E forse è per questo che Carlo e Irina sembrano così a loro agio qui: non solo per il tempo che hanno vissuto in questa città, ma perché sanno riconoscere e raccogliere storie ovunque vadano.

Guardo la nostra piccola mascotte, ancora sulle spalle di Carlo, che osserva il panorama con un’aria fiera.

Mi rendo conto che non è solo Skippy ad aver trovato un nuovo mentore. Carlo e Irina hanno qualcosa di speciale: la capacità di farti sentire parte di una storia più grande. Non sono solo viaggiatori, sono custodi di esperienze, di scelte fatte e sogni seguiti.

Forse anche il nostro viaggio, in fondo, è proprio questo: raccogliere pezzi di storie, imparare da chi ha già trovato la sua rotta e, un giorno, essere noi quelli che raccontano.

Forse, per la prima volta, non è solo un viaggio. È un incontro che ci sta cambiando.

“Siena non è solo una città: è memoria vivente, un intreccio di storie che continuano a sussurrare tra le sue strade.”

Torre del Mangia Siena (foto di michelangelobuonarrotietornato.com)

Verso le Crete Senesi

Le ore a Siena scorrono leggere tra racconti e risate, tanto che quasi mi dimentico della sorpresa che ho preparato per Veronika. Poi, con discrezione, mi allontano un attimo e controllo il telefono: il pilota conferma che c’è posto per quattro. Perfetto.

«Dai, è quasi ora di muoverci» annuncio casualmente, guidando il gruppo verso l’auto. Durante il tragitto, Carlo racconta del suo ultimo viaggio in Portogallo, Irina di un borgo nascosto che hanno scoperto, mentre Veronika prende nota di ogni spunto con l’entusiasmo di chi ha già mille idee in testa. Skippy, accoccolata sulle sue ginocchia, osserva fuori dal finestrino con la sua solita attenzione, come se stesse studiando il percorso.

Poi, all’orizzonte, le Crete Senesi si aprono davanti a noi, un susseguirsi di colline ondulate che sembrano onde pietrificate nel tempo. L’oro della terra arata si mescola al verde delle vigne, e qua e là qualche cipresso solitario segna il paesaggio come una pennellata d’inchiostro su una tela antica.

Veronika si sporge, cercando di intuire la destinazione. «Ma… dove stiamo andando?» chiede con curiosità.

Sorrido, mantenendo il mistero. «Vedrai.»

Poco dopo appare il nostro punto d’arrivo: un campo aperto al centro del quale giace una mongolfiera ancora sgonfia, un gigante addormentato pronto a risvegliarsi.

“A volte il viaggio più emozionante è quello che non ti aspetti, quando le sorprese prendono il volo prima ancora di decollare.”

Crete senesi (foto di tuscanypeople.com)

La sorpresa svelata

Appena scendiamo dall’auto, Veronika si blocca. «Ma quella è una mongolfiera!» esclama, gli occhi spalancati dall’emozione.

«Tadaaa! Sorpresa!» rispondo ridendo.

Per un istante mi fissa, incredula. Poi corre verso di me e mi salta in braccio, ridendo e stringendomi forte. «Non ci posso credere! È incredibile, Cami

«Te l’avevo promesso» le sussurro. «Saremmo tornati a Siena e questa volta sarebbe stato speciale.»

Mentre lei saltella eccitata attorno alla mongolfiera, Carlo e Irina osservano la scena con sorrisi divertiti, ignari che la sorpresa sia anche per loro.

«Venite» dico con un sorriso complice. «La sorpresa è anche per voi.»

Irina si porta una mano alla bocca, gli occhi che brillano come quelli di una bambina davanti a un regalo inaspettato. Per un istante sembra quasi senza parole, poi sussurra: «Non ci posso credere… ho sempre sognato di volare in mongolfiera

Carlo mi guarda, poi mi stringe in un abbraccio forte e sincero. «Camillo, questo incontro non può essere stato casuale.»

E in effetti, guardandoli, mi viene da pensare che certe persone entrano nella nostra vita esattamente quando devono. Come se ci fosse una rotta già segnata, invisibile fino a quando non la si percorre davvero.

Il pilota si avvicina, accompagnato da una donna.

«Benvenuti! Io sono Marco e lei è mia moglie, Anna, che ci seguirà da terra con il furgone. Siete pronti per un’esperienza indimenticabile?»

Veronika continua a saltellare dall’entusiasmo e Skippy, che fino a quel momento era rimasta nello zaino, continuamente sballottata dai suoi movimenti, decide di trovare un rifugio più stabile. Con un balzo mi atterra sulle spalle, sbuffando e guardando storto Veronika.

Marco ride. «Direi che qualcuno apprezzerà la tranquillità del volo in mongolfiera

A quelle parole, Skippy si assesta con aria solenne sulle mie spalle, come un piccolo comandante pronto per il decollo. Poi annuisce leggermente, come se avesse approvato l’idea.

Ci scambiamo uno sguardo e ridiamo tutti insieme. L’attesa è finita.

È ora di volare.

“Ci sono sorprese che non si dimenticano perché non sono solo esperienze: sono promesse mantenute, sogni che prendono il volo.”

Marco e Anna intenti a preparare il volo (foto leonardo.ai)

Curiosità in volo

Il bruciatore si accende con un soffio profondo, un respiro di fuoco che gonfia lentamente l’enorme pallone sopra di noi. L’aria calda solleva il tessuto pesante e la mongolfiera prende forma davanti ai nostri occhi, un colosso pronto a staccarsi da terra.

Marco ci guida a bordo del cesto con la calma di chi ha fatto questa manovra centinaia di volte. «Tranquilli, non c’è nessuna sensazione di vuoto come sugli aerei. È un volo dolce, lento… più simile a galleggiare nell’aria.»

Veronika stringe la mia mano, gli occhi ancora carichi di emozione. «Non ci posso credere, Cami. È perfetto.»

Il fuoco ruggisce di nuovo sopra le nostre teste e poco dopo il cesto si stacca dal suolo con una leggerezza inaspettata. La terra si allontana, è una sensazione diversa da qualsiasi altro volo: non c’è velocità, nessuna cabina chiusa. Solo noi e l’aria aperta, il vento che accarezza il viso mentre la mongolfiera si solleva silenziosa.

Le Crete Senesi si stendono sotto di noi come un dipinto immobile. Colline dai profili morbidi si susseguono a perdita d’occhio, interrotte solo da cipressi e stradine che sembrano tracciate a mano.

Marco, con un sorriso soddisfatto, rompe il silenzio. «Sapete che la prima mongolfiera della storia volò con a bordo… una pecora, un’anatra e un gallo?»

Irina alza un sopracciglio divertita. «Un equipaggio decisamente insolito.»

«Era il 1783» continua Marco. «I fratelli Montgolfier volevano dimostrare che si poteva sopravvivere a un volo senza ossigeno, così testarono il pallone aerostatico con quegli animali. Dopo otto minuti di volo, atterrarono sani e salvi. Poco dopo tentarono con un equipaggio umano.»

Veronika ride. «Quindi, tecnicamente, noi stiamo seguendo le orme di una pecora?»

«Esatto.» Marco annuisce con un sorriso.

Skippy, ancora accovacciata sulla mia spalla, inclina il musetto e osserva la cesta sotto di noi, scrutandola con attenzione. Dopo un attimo di riflessione, si sistema meglio e lascia andare un piccolo sbadiglio soddisfatto, come se avesse ufficialmente approvato il mezzo di trasporto.

Una folata di vento sposta la mongolfiera, facendoci prendere velocità in una nuova direzione. La cesta oscilla appena e per un attimo sentiamo il cambiamento, come se il cielo stesso ci stesse indicando un’altra strada.

Marco ci indica un piccolo borgo in lontananza. «Quello è Chiusure. Famoso per il pecorino e per l’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, una delle più belle della Toscana. Un tempo era un punto di riferimento per i pellegrini sulla Via Francigena.»

Un’improvvisa folata di vento ci spinge con dolcezza in un’altra direzione, facendoci sentire il cambio di rotta. Marco osserva il cielo per un istante, poi si volta verso di noi sorridendo. «Volare in mongolfiera è un’altra cosa rispetto all’aereo. Non c’è un motore per correggere la rotta, nessun controllo preciso sulla destinazione. Possiamo solo affidarci al vento e accettare il viaggio per come viene.»

Si ferma un attimo, lasciando che le sue parole si depositino. «A volte nella vita è lo stesso. Non sempre abbiamo il controllo, ma possiamo scegliere come goderci il viaggio.»

Irina gli prende la mano e lo osserva con affetto. «È una bella metafora.»

Annuisco, mentre il cielo intorno a noi assume sfumature più calde. «Vale anche per la vita.»

Skippy, ormai a suo agio, si accoccola meglio sulle mie spalle e lascia andare un piccolo sbadiglio soddisfatto. Sorrido tra me e me.

Per lei, questo è solo un altro modo di volare.

“In un volo in mongolfiera, come nella vita, non possiamo controllare tutto. A volte bisogna solo accettare di lasciarsi trasportare dal vento.”

in volo sulle crete senesi (foto flight simulator 2024)

Legami nel cielo

Mentre la mongolfiera scende lentamente, Marco si assicura che siamo pronti. «Ora tenetevi forte ai bordi del cesto e piegate leggermente le ginocchia» ci spiega con calma. «L’atterraggio può essere morbido o con qualche rimbalzo, dipende dal vento. Niente paura, è normale.»

Il cesto oscilla leggermente, e per un attimo ci prepariamo all’impatto. Poi, con un ultimo sobbalzo, tocchiamo terra.

«Benvenuti a terra!» esclama Marco con un sorriso.

Ci guardiamo intorno, come se dovessimo ancora realizzare la magia di ciò che abbiamo vissuto. Irina ha gli occhi lucidi, Carlo mi batte una pacca sulla spalla. «Camillo, non dimenticherò mai questo momento.»

Dopo i saluti, torniamo verso l’auto, ancora immersi nei pensieri. Il viaggio verso l’agriturismo è silenzioso ma non è un silenzio vuoto. Ognuno di noi porta dentro il peso leggero di questa esperienza, di un incontro che, in poche ore, ci ha lasciato più di quanto avremmo immaginato.

“Alcuni incontri durano poche ore ma il loro ricordo rimane per sempre, come un segno lasciato nel cielo.”

Atterrati dopo uno splendido volo (foto flight simulator 2024)

Un addio che è solo un arrivederci

Torniamo in agriturismo con le prime luci del tramonto che avvolgono la campagna. Il tempo sembra essersi fermato, ma sappiamo che è già il momento di ripartire.

Saliamo a recuperare le valigie. Carlo e Irina ci aspettano nel patio. Non servono molte parole: c’è quella consapevolezza silenziosa che a volte gli incontri più brevi lasciano le tracce più profonde.

«Non potevamo farvi partire senza salutarvi» dice Carlo con un sorriso sincero.

Veronika e Irina si stringono in un abbraccio lungo, mentre io e Carlo ci scambiamo una stretta di mano che vale più di tanti discorsi.

«Grazie, Camillo. Mi hai ricordato che, anche se nella vita ho fatto tanto, ho sempre qualcosa di nuovo da scoprire.»

Poi Carlo si china verso Skippy e, con un gesto affettuoso e solenne, le appunta sul petto una piccola spilletta dorata a forma di ali.

«Ogni buon navigatore ha bisogno di un distintivo.»

Skippy inclina la testa, osserva il regalo, poi scodinzola piano, come se avesse capito l’importanza del momento. Poi, con un gesto solenne, alza una zampina alla fronte in un piccolo cenno che assomiglia a un saluto militare, ringraziando Carlo a modo suo.

Veronika la accarezza, sussurrando: «Ogni tappa ci lascia un nuovo souvenir.»

Carlo ci osserva, poi si aggiusta la giacca e annuisce con un mezzo sorriso.

«Ricordatevi, il vento porta sempre dove bisogna andare. Chissà, magari ci rivedremo prima di quanto pensiate.»

Irina si avvicina a Veronika e, con un tono più intimo, le dice: «Spero davvero che un giorno ci rivedremo. Abbiamo ancora molto di cui parlare.»

Lasciamo Carlo e Irina allontanandoci lungo la strada sterrata, con la sensazione che, in qualche modo, le nostre strade si incroceranno di nuovo.

“Gli incontri più significativi non finiscono mai davvero: restano dentro di noi, come rotte pronte a incrociarsi ancora.”

La spilletta di Carlo nuovo souvenir di Skippy (foto DALL-E)

Verso la prossima tappa

Ci dirigiamo verso l’aeroporto, le colline senesi che scorrono accanto a noi come un ultimo saluto. In auto c’è uno strano silenzio.

Veronika rimane silenziosa, il viso ancora rivolto al paesaggio che scorre fuori dal finestrino. Ha le mani incrociate in grembo, strette come a trattenere qualcosa che non vuole lasciar andare. So che c’è qualcosa che la turba, ma lascio che i suoi pensieri restino sospesi, come la mongolfiera di poche ore prima.

Anche Skippy, acciambellata sul sedile posteriore, muove appena la coda e tiene le orecchie basse, anche lei riflette su qualcosa.

«Stavo pensando…» dico, cercando di ravvivare un po’ la situazione. «Domani ci aspetta il giro in elicottero all’Isola del Giglio. Ricordi che abbiamo prenotato per sfruttare il brevetto che presi tempo fa?»

Veronika si volta verso di me, gli occhi che si illuminano un po’, anche se meno del solito. «Davvero? Sarà un’esperienza nuova. Non ricordavo.»

Le mie parole sembrano passare in secondo piano per lei, ma colpiscono subito Skippy, che solleva le orecchie di scatto e mi fissa con sguardo acceso, già emozionata all’idea.

«Direi che qualcuno qui è già carica» rido, mentre Veronika rimane silenziosa, il viso ancora rivolto al paesaggio che scorre fuori dal finestrino.

Arrivati all’aeroporto, il Cessna 172 ci aspetta, pronto per il decollo. Il sole sta calando ed è il momento di lasciare Siena e puntare verso l’orizzonte.

“Ogni partenza è anche una promessa di nuove scoperte.”

02 + Diario di Viaggio Pisa

Pisa di sera

Le strade di Pisa a quest’ora hanno un suono diverso. Il rumore delle biciclette che sfiorano i ciottoli, il passo lento di qualche turista rimasto incantato dalla città e il vento leggero che scivola tra i vicoli. Il brusio del giorno è ormai svanito, lasciando spazio a un silenzio che amplifica ogni dettaglio.

La nostra destinazione è Piazza dei Miracoli, che di notte non abbiamo mai visto. Pisa ci è familiare, ma senza la folla, immersa nella luce dorata dei lampioni, sembra rivelarci un segreto che durante il giorno resta nascosto.

Skippy, ancora mezza addormentata, si è sistemata sulle mie spalle, lasciandosi trasportare senza opporre resistenza. Le sue zampette penzolano, gli occhialoni leggermente storti sul muso. Ogni tanto sbadiglia piano, come se stesse ancora elaborando dove siamo e cosa stiamo facendo.

Poi, all’improvviso, la piazza si apre davanti a noi. La Torre Pendente, così iconica e insolita, sembra ancora più affascinante nel silenzio della sera. Accanto a lei, il Duomo di Pisa e il Battistero di San Giovanni brillano come gioielli antichi, la luce soffusa ne esalta ogni curva, ogni dettaglio.

“Non c’è paragone con il giorno” commenta Veronika mentre ci fermiamo a osservare il complesso. “Visto così sembra un altro mondo.”

Lascio che la calma del momento ci avvolga. Questa non è la solita Pisa che conosciamo. È un luogo sospeso nel tempo che si concede solo a chi arriva tardi o si sveglia presto.

Poi, all’improvviso, Skippy si rianima. Non perché abbia avuto un’illuminazione storica o architettonica, ma per un motivo molto più terreno. Il suo naso si muove veloce, fiuta l’aria con crescente interesse. Dopo un ultimo sbadiglio, solleva la testa e, con grande solennità, punta la Torre. Per un istante sembra osservarla con rispetto, quasi meditativa.

Ma poi accade l’inevitabile: le narici si dilatano, il muso vibra, e in un lampo si fionda giù dalle mie spalle con l’agilità di un ninja sonnolento. A terra, si blocca per un secondo come se stesse decifrando un codice segreto nell’aria, poi parte a passo deciso nella direzione del profumo che l’ha colpita, con l’andatura di chi ha appena trovato il vero senso della vita.

Veronika scoppia a ridere. “A quanto pare ha deciso dove andiamo adesso.”

“Non so se è più affascinata dalla Torre o da quello che stanno cucinando laggiù.”

Skippy si volta verso di noi con aria impaziente, poi riprende la marcia con la determinazione di un generale che guida le truppe. E, a dire il vero, nemmeno noi resistiamo all’idea di seguirla.

“Di notte Pisa svela la sua anima nascosta: meno frenesia, più magia. Un luogo che cambia volto e si concede solo a chi sa osservarlo nel silenzio.”

Piazza dei Miracoli in notturna (foto foto Flight Simulator 2024)

Un assaggio di Pisa

E a quanto pare, Skippy aveva ragione.

Ora anche noi sentiamo quel profumo avvolgente: forno caldo, farina tostata e una nota salmastra che si mescola all’aria fresca della sera. Seguiamo il nostro segugio improvvisato fino a un piccolo locale d’angolo, poco più di un banco con una vetrina illuminata e qualche sgabello all’esterno. Dietro il bancone, un uomo estrae una teglia fumante da un grande forno, mentre un cliente prende il suo pezzo servito su carta oleata.

“La cecina” legge Veronika su un’insegna scritta a mano mentre aspettiamo in fila. “Dobbiamo proprio provarla.”

Fortunatamente la fila è corta. C’è solo un cliente prima di noi.

Skippy si siede, paziente. Per tre secondi. Poi la coda batte un ritmo crescente sul pavimento. Un lieve tremolio le percorre le zampe mentre fissa la teglia fumante come se potesse teletrasportarla tra le sue fauci.

“Skippy, calma” mormoro.

Lei non mi degna di uno sguardo. Quando il cliente prende il suo pezzo, lo segue con lo sguardo così intensamente che per un attimo temo voglia placcarlo.

Finalmente arriva il nostro turno e prendiamo tre porzioni, sottili e fragranti, ancora calde tra le mani. Al primo morso la consistenza sorprende: morbida all’interno con un leggero strato croccante in superficie. Il sapore è semplice e intenso, un equilibrio perfetto tra il dolce della farina di ceci e il sale che ne esalta il gusto.

“Buona” commento mentre Skippy, con un pezzo tra le zampe, lo fissa come se fosse la scoperta del secolo. Poi lo annusa con aria solenne, lo lecca con cautela… e infine lo divora con la delicatezza di un tornado.

Il gestore ci osserva con un sorriso divertito. “Siete turisti, vero?”

Annuiamo e Veronika, incuriosita, gli chiede di raccontarci qualcosa su questo piatto.

“Ah, la cecina è roba antica signorina” dice appoggiandosi al bancone. “Dicono sia nata per caso, nel 1284. Una nave genovese si beccò una tempesta e i barili di farina di ceci si rovesciarono, finendo nell’acqua di mare. Per non buttarla via i marinai la fecero asciugare al sole… ed eccola qui.”

“Una leggenda che sa di mare e di viaggi, interessante” commenta Veronika, mordendone un altro pezzo.

Finito di mangiare ringraziamo e riprendiamo il cammino, lasciandoci alle spalle il piccolo locale e il suo profumo invitante. Pisa ci ha già sorpresi e domani ci aspetta un’altra prospettiva, quella dall’alto della Torre.

“A volte la storia più autentica di un luogo non si trova nei monumenti ma nei sapori tramandati nei secoli.”

Cecina Ripiena (foto Dall-E)

La sveglia e il siparietto con Skippy

La sveglia suona presto ma la stanza è ancora avvolta nella penombra. Io e Veronika siamo già in movimento: lei organizza lo zaino mentre io cerco di raccogliere i pensieri sparsi della mattina.

Skippy, invece, sembra avere un’altra opinione su come iniziare la giornata. È ancora sdraiata sul letto, spalmata come un tappetino con il musetto nascosto nella giacchetta da pilota. Si direbbe pronta a battere ogni record di non-reattività.

“Skippy, è ora di andare!” dico con il tono di chi vuole essere fermo ma gentile.

Niente. Neanche un’orecchia che si muove.

“Dai, non fare storie” aggiunge Veronika, scuotendola delicatamente. “Ti aspetta la Torre di Pisa!”

Un occhio si apre pigramente ma dura solo un secondo. Poi, con un lungo sospiro di protesta, si gira dall’altra parte infilando ancora più a fondo il musetto sotto la giacchetta.

Proviamo di tutto: un biscotto sotto il naso, il tintinnio delle chiavi e persino un conto alla rovescia. Ma niente: Skippy non collabora. Quando la solleviamo, si lascia andare mollemente come un sacco di farina, con uno sguardo che sembra dire ‘era proprio necessario?’

Alla fine Veronika le toglie la giacchetta dalla testa con delicatezza e la nostra piccola mascotte si arrende, lanciandoci uno sguardo offeso prima di infilarsi di malavoglia nel mio zaino.

“Almeno lei ha il vantaggio di vestirsi sempre allo stesso modo” ride Veronika mentre usciamo dalla stanza.

“Ogni viaggio inizia con una sveglia… e con qualcuno che non vuole alzarsi.”

Skippy dormigliona (foto Dall-E)

L’incontro con la Torre e Giorgio

Piazza dei Miracoli è avvolta nella calma del mattino quando incontriamo Giorgio, la nostra guida. È un uomo robusto, con occhiali tondi e un sorriso cordiale che ci mette subito a nostro agio.

“La Torre vi aspetta” dice con entusiasmo, indicando il campanile. “Ci hanno messo quasi due secoli a finirla. Le guerre, la mancanza di fondi e qualche pausa fortunata hanno rallentato i lavori… ma forse è grazie a questo che è ancora in piedi.”

Mentre ci avviciniamo all’ingresso Giorgio ci racconta un dettaglio che non conoscevamo.

“Sapete che le campane erano sette, una per ogni nota musicale? Nei giorni di festa il suono riempiva tutta la piazza.”

La salita alla Torre comincia. I gradini, consumati dal tempo, seguono una pendenza quasi surreale e ad ogni passo sembra di perdere leggermente l’equilibrio. Skippy, finora raggomitolata nello zaino, si sveglia all’improvviso, probabilmente infastidita dal movimento. Con aria contrariata infila fuori il musetto e ci lancia uno sguardo che dice tutto.

“Non sembra molto entusiasta” ride Veronika.

Giorgio sorride, fermandosi per una breve pausa. “Neanche noi pisani siamo certi di come faccia a stare in piedi” scherza. Poi aggiunge, con un tono più serio: “Si dice che Galileo abbia lasciato cadere due sfere da questa torre per dimostrare che la gravità agisce nello stesso modo su tutti i corpi.”

“Allora è successo davvero?” chiedo, incuriosito.

Giorgio si stringe nelle spalle con un sorriso enigmatico. “A volte le leggende raccontano più della realtà.”

L’ultimo gradino ci porta in cima e per un attimo tutto sembra fermarsi. Non c’è più la pendenza della salita né l’incertezza dell’inclinazione sotto i piedi. Solo il vento che accarezza il viso e la città che si svela a 360 gradi.

Pisa non si spalanca davanti a noi con imponenza ma si lascia scoprire un pezzo alla volta. I tetti delle case sembrano più bassi da qui, i vicoli più stretti, il ritmo della città più lento. L’Arno serpeggia tra i palazzi, non come un confine, ma come un filo che tiene tutto insieme.

Più in là le mura medievali che racchiudono il centro si distinguono ancora e fuori da esse la città cambia forma, si distende, fino a sbiadire nelle campagne circostanti. Non c’è un’unica prospettiva, tutto dipende da dove ci si affaccia, come se Pisa avesse mille volti diversi, ognuno nascosto dietro l’altro.

Skippy, ormai sveglia del tutto, si sporge dallo zaino. Il vento le scompiglia il pelo mentre rimane immobile a osservare il panorama, come se stesse cercando di memorizzare ogni dettaglio.

Giorgio si ferma accanto a noi e rompe il silenzio con una riflessione che ci sorprende.

“Sapete perché la Torre non cade? Perché si adatta. Si è inclinata, sì, ma non ha mai smesso di cercare un equilibrio con il terreno su cui poggia.” Poi continua riflessivo: “Non sempre resistere è la risposta. A volte, il segreto per restare in piedi è sapersi adattare.”

Veronika gli risponde fissando l’orizzonte. “Direi che è una bella lezione, anche per noi.”

È uno di quei momenti che rimangono impressi più delle immagini. Scesi dalla Torre, salutiamo Giorgio con una stretta di mano sincera e un grazie che va oltre la semplice visita. Questa mattina non abbiamo solo ammirato la vista. Abbiamo portato via una lezione che resterà con noi.

“Non sempre resistere è la soluzione. A volte, per restare in piedi, bisogna sapersi adattare.”

Giorgio la guida che ci ha accompagnato sulla torre. (foto leonardo.ai)

Foto di rito e risate in piazza

Lasciamo la Torre con il pensiero ancora sospeso tra le parole di Giorgio. Ma appena scendiamo in piazza, la realtà ci richiama subito all’ordine: il momento delle foto di rito è inevitabile.

“Ok, tocca a te” ride Veronika, posizionandomi con le mani tese verso la Torre. Mi muovo avanti e indietro, cercando di allinearmi perfettamente mentre lei aggiusta l’inquadratura con la serietà di un direttore d’orchestra. Dopo qualche tentativo finalmente lo scatto arriva: un’illusione perfetta che sembra raddrizzare secoli di pendenza.

Poi è il suo turno. Con la grazia che solo lei possiede sembra davvero mantenere la Torre in equilibrio con un tocco delicato e naturale. Le scatto una raffica di foto, catturando ogni istante mentre lei si diverte a cambiare posa.

E infine, arriva il turno di Skippy, l’inaspettata protagonista.

Ancora un po’ assonnata e con il musetto perplesso proviamo comunque a farle imitare la nostra posa. Naturalmente, lei ha altre idee: dopo qualche esitazione scivola in avanti con le zampette tese, finendo con un’espressione tra il confuso e il disperato come se davvero stesse cercando di afferrarsi alla Torre per non cadere.

“Questa è perfetta!” esclama Veronika, scoppiando a ridere così forte da attirare qualche sguardo curioso. “La Torre non cade ma Skippy sì!”

Guardiamo le foto: un piccolo capolavoro di comicità. Con gli occhialoni storti e quella posa goffa, Skippy sembra davvero l’incarnazione della mascotte perfetta: sempre fuori dagli schemi ma capace di rendere ogni momento unico.

“Le foto migliori non sono quelle perfette ma quelle che catturano l’anima del momento.”

Skippy che cade a Piazza dei Miracoli (foto Dall-E)

Una pausa nel verde

Dopo la visita alla Torre di Pisa abbiamo ancora un po’ di tempo prima di ripartire. Decidiamo di fermarci in un piccolo parco poco distante per riposare un po’.

Ci sediamo su una panchina lasciando che la città riprenda il suo ritmo intorno a noi. Le parole di Giorgio ci tornano in mente, il suo modo di raccontare la Torre non solo come un’opera architettonica ma come una lezione di adattamento, di equilibrio, di resistenza senza ostinazione ci hanno colpito.

“Non serve resistere a tutti i costi” aveva detto. “A volte basta piegarsi un po’ per restare in piedi.”

Veronika fissa il cielo attraverso i rami degli alberi, il pensiero ancora sospeso tra quelle parole. “Chissà quante cose vedremmo diversamente se imparassimo ad adattarci, invece di opporci sempre alle difficoltà.”

Annuisco silenzioso, osservando il via vai della gente nel parco. Bambini che corrono, coppie sedute sull’erba, persone immerse nei loro pensieri.

A pochi passi da noi Skippy ha trovato nuovi compagni di gioco. Un gruppetto di bambini si è accovacciato accanto a lei, intrecciando piccoli ramoscelli raccolti da terra. Lei li osserva con curiosità, poi si lascia coinvolgere, allungando le zampette e annusando ogni nuova creazione con attenzione.

Quando arriva il momento di andare, Skippy ci raggiunge trotterellando con la sua solita aria soddisfatta tra i saluti dei bambini.

“Ma… cos’è questo?” dice Veronika tirando fuori un piccolo braccialetto intrecciato con ramoscelli sottili dallo zaino mentre lo caricava in spalla. Lo rigira tra le dita con un sorriso divertito mentre la nostra mascotte si mette a osservare lontano con aria innocente.

“L’hanno fatto i bambini?” chiede Veronika, lanciandole uno sguardo complice. “Un altro souvenir per la tua collezione?”

Come al solito Skippy evita ogni responsabilità. Si volta con aria impassibile, fingendo di non aver sentito, come se la conversazione non la riguardasse affatto.

Veronika scoppia a ridere. “Ormai abbiamo una piccola collezionista di ricordi. Questo lo mettiamo accanto al tappo di Firenze.” Con un gesto delicato fa scivolare il braccialetto nello zaino e accarezza la testa di Skippy. “Se continua così, a fine viaggio ci ritroveremo con un museo intero di storie da raccontare.”

Diamo un ultimo sguardo a Pisa. Un’altra città che ci ha lasciato qualcosa, un altro ricordo che si aggiunge alla nostra avventura.

La prossima tappa ci attende.

“Ogni viaggio lascia un segno, anche nei dettagli più piccoli: un oggetto intrecciato a mano, un incontro fugace, un’idea che resta.”

01 + Diario di Viaggio Firenze

Arrivo a Firenze

Il taxi ci lascia nel cuore di Firenze, dove le strade strette e lastricate sembrano intrecciarsi in un labirinto che porta i segni del tempo e delle trasformazioni. Qui edifici medievali e rinascimentali si mescolano con palazzi più moderni, ricostruiti dopo la guerra, alcuni perfettamente integrati nel tessuto urbano, altri più spigolosi, quasi fuori posto in questa città di arte e armonia. Nonostante tutto Firenze ha imparato a convivere con queste contraddizioni, custodendo la sua anima tra passato e presente.

“Ci siamo” dico, mentre Skippy allunga il muso verso l’aria frizzante del mattino, inspirando con curiosità. Con passo deciso ci incamminiamo verso il centro.

Sbucando da una stradina stretta la Cattedrale di Santa Maria del Fiore si staglia davanti a noi in tutta la sua imponenza.

“Incredibile come riesca sempre a sorprendermi” mormora Veronika, sollevando lo sguardo verso la Cupola del Brunelleschi che dall’alto ci aveva già lasciato senza fiato durante il volo.

Oggi decidiamo di salire sul Campanile di Giotto: meno affollato e con una vista altrettanto spettacolare. In fondo la cupola l’abbiamo già vista dall’alto poco fa.

In fila per i biglietti raccolgo un volantino e comincio a leggere ad alta voce per passare il tempo. “Sapevi che il Campanile è alto 85 metri? Dovremo fare 414 gradini per arrivare in cima e non c’è nessun ascensore.”

Skippy, inizialmente entusiasta di esplorare, si blocca sentendo queste parole. I suoi occhi seguono i gradini poi lancia un verso lamentoso, si gira lentamente e con un gesto plateale si infila di testa nel mio zaino, lasciando fuori solo le orecchie.

Veronika scoppia a ridere. “Sta succedendo davvero?”

“Direi di sì” rispondo, sentendo il peso improvviso sulle spalle. “Complimenti per la tattica, esploratrice provetta.”

Skippy emette un verso soddisfatto e si sistema meglio nel suo nuovo trono mobile, felice di aver avuto un colpo di genio.

La salita è un esercizio di resistenza, soprattutto con Skippy comodamente seduta nello zaino sulle mie spalle, ma ogni sosta offre uno scorcio sempre più spettacolare su Firenze. Quando finalmente raggiungiamo la sommità il vento ci accoglie con una carezza leggera. Da qui la vista ripaga lo sforzo con l’Arno che scorre tra i palazzi, le colline lontane che incorniciano il tutto e la città viva con la piazza sotto di noi piena di turisti.

Veronika si appoggia alla balaustra, il respiro ancora un po’ corto. “Che spettacolo.”

Skippy, che nel frattempo è uscita dallo zaino e ora si affaccia curiosa sulla mia spalla, sembra ipnotizzata dal panorama.

“Chissà come doveva apparire ai fiorentini di un tempo” aggiunge Veronika, lasciando vagare lo sguardo sulla città che si stende fino all’orizzonte.

Poi indica l’edificio ottagonale al centro della piazza con la sua elegante decorazione in marmo bianco e verde. “Posso chiederti cosa è quello?” chiede, osservandolo con curiosità.

“È il Battistero di San Giovanni” rispondo. “Uno degli edifici più antichi di Firenze, costruito tra l’XI e il XII secolo. La sua forma ottagonale simboleggia l’ottavo giorno, quello della resurrezione, secondo la tradizione cristiana.”

Veronika inclina la testa, interessata. “Quindi qui battezzavano tutti i fiorentini?”

“Esatto. Per secoli, prima che venisse costruito il fonte battesimale dentro la Cattedrale, i bambini fiorentini venivano battezzati proprio qui. Pensa che anche Dante Alighieri fu battezzato in questo battistero.”

Veronika sorride. “L’ultima volta avevo dimenticato di chiedertelo anche se dalla piazza mi aveva colpito per la sua bellezza.”

Sorrido e le indico le grandi porte di bronzo del battistero rivolte verso la Cattedrale. “E guarda quelle: le chiamano le ‘Porte del Paradiso’. Le ha realizzate Lorenzo Ghiberti nel Quattrocento e Michelangelo disse che erano così belle da poter essere le porte del paradiso.”

Veronika osserva i rilievi dorati con attenzione. “Quindi stiamo guardando un capolavoro dentro un altro capolavoro.”

“Già e questa è Firenze” le rispondo con un sorriso.

“Firenze è una città che sorprende sempre: un equilibrio perfetto tra passato e presente, dove ogni strada, ogni piazza e ogni monumento raccontano una storia senza tempo.”

il Campanile di Giotto (foto da google heart)

Un pranzo con una storia da raccontare

Dopo la lunga discesa dal Campanile di Giotto le gambe iniziano a protestare. La sveglia all’alba e il viaggio ci hanno messo fame e, anche se è ancora presto, l’idea di un pasto tipico fiorentino diventa irresistibile.

Attraversiamo Piazza della Signoria che si apre davanti a noi come un grande palcoscenico di storia e arte. La Loggia dei Lanzi, con le sue statue imponenti, osserva silenziosa il via vai dei turisti mentre il maestoso Palazzo Vecchio, con la sua torre, si erge fiero e imponente. A pochi passi la copia del David di Michelangelo domina la scena, ricordando a tutti il legame indissolubile tra Firenze e il Rinascimento.

Evitiamo i locali turistici e ci infiliamo in una piccola trattoria nascosta in un vicolo laterale, lontano dalla folla. L’aria è densa del profumo di schiacciata fiorentina appena sfornata e spezie, i pochi tavoli in legno scuro raccontano di un luogo rimasto immutato nel tempo.

Ci accoglie una signora anziana con i capelli raccolti in uno chignon impeccabile e un grembiule consumato dall’uso. Il suo volto porta i segni del tempo ma il sorriso che ci rivolge è di chi ha visto Firenze cambiare mille volte senza mai perdere la sua essenza.

“Siete forestieri, vero?” chiede con un tono bonario mentre ci porge un menù scritto a mano.

“Sì, anche se un po’ ci sentiamo a casa” rispondo, scorrendo le proposte del giorno. “Non è la prima volta che veniamo a Firenze.”

Veronika posa il menù con decisione. “Vorremmo provare qualcosa di veramente fiorentino.”

La donna sorride con un lampo d’orgoglio negli occhi. “Allora vi porto dell’ottimo lampredotto.”

Quando ritorna porta con sé una piccola pentola di terracotta, un “coccio” tradizionale, da cui si sprigiona un aroma intenso e speziato. Appoggia la pentola al centro del tavolo e, con un gesto misurato, solleva il coperchio. Il vapore caldo si mescola all’aria, avvolgendoci in un profumo che sa di antiche osterie e di storia.

Si ferma accanto al tavolo, aspettando di vedere la nostra reazione al primo assaggio. Veronika prende un boccone, chiude gli occhi e annuisce lentamente.

“Ma è buonissimo” esclama con un sorriso sorpreso. “Ha un sapore così intenso ma allo stesso tempo delicato.”

La donna sorride, compiaciuta. “Sai, quando ero bambina, il lampredotto era il pasto dei lavoratori. Mio padre faceva il ciabattino e ogni sabato mi portava qui a mangiarlo, seduti proprio a questo tavolo.”

Le sue parole ci trasportano in un’altra epoca. La immaginiamo, bambina, seduta accanto a suo padre con un panino tra le mani e gli occhi curiosi rivolti al mondo. Mi soffermo a pensare che un viaggio non è fatto di sole opere d’arte o viste mozzafiato ma anche di storie, di gesti tramandati, di sapori che resistono al tempo. Così le chiedo di raccontarci di più.

La signora si siede accanto a noi, prendendosi un momento di pausa. “Un tempo il lampredotto era il cibo del popolo. Chi lavorava tutto il giorno nei mercati, nelle botteghe, non poteva permettersi i tagli nobili della carne. Così si usava tutto. Con il tempo quella che era una necessità è diventata una tradizione, un sapore che sa di casa.”

Quando ci alziamo per andare via, Assunta ci osserva con un sorriso appena accennato, come se sapesse di averci lasciato qualcosa di più di un semplice pasto.

“E ricordate che Firenze non si racconta, si assapora.”

Fa una piccola pausa, come se volesse assaporare anche lei quelle parole prima di concludere. Poi aggiunge con voce più bassa, quasi confidenziale:

“È come il lampredotto: all’apparenza semplice ma se lo vivi davvero scopri sapori che non ti aspettavi.”

Usciamo dalla trattoria con la sensazione di aver assaporato non solo un piatto tipico ma anche un pezzetto della Firenze più autentica.

Mentre ci incamminiamo per le strade del centro Veronika si accorge che Skippy sembra avere qualcosa tra le mani. Si avvicina con curiosità e, con un sorriso, chiede: «Che cosa hai lì, piccola esploratrice?» Skippy, con uno sguardo solenne, solleva tra le zampe un tappo di sughero come se stesse presentando un trofeo conquistato con grande onore.

«È il tappo della bottiglia di vino che abbiamo bevuto a pranzo?». Skippy, con un lieve movimento del muso, solleva il tappo con aria di vittoria, come se stesse dicendo “esattamente!”

Veronika sorride, complice del suo gesto. «Ah, quindi questo è il tuo souvenir di Firenze?» le dice con affetto. «Che idea fantastica, Skippy!» Poi, con un sorriso malizioso, aggiunge: «Mettilo nello zaino con gli altri souvenir che raccoglierai durante il nostro viaggio.»

Io intervengo, ridendo: «Ottima idea, Skippy! Questo è sicuramente un ricordo speciale.»

Skippy, con la massima delicatezza, adagia il tappo nello zaino e torna a trotterellare allegra tra le strade di Firenze. Passeggiando mano nella mano con Veronika sento che ogni passo, ogni piccolo gesto, sta contribuendo a rendere questo viaggio ancora più unico.

“Firenze non si racconta, si assapora. Ogni piatto, ogni sapore è una storia che resiste al tempo.”

la singora Assunta con il suo lampredotto (foto leonardo.ai)

Il Ponte Vecchio: Storia sospesa sull’Arno

Seguendo il flusso incessante di turisti e fiorentini che affollano le strade del centro arriviamo al Ponte Vecchio.

Man mano il vociare si fa più intenso, il suono dei passi si mescola a quello dei musicisti di strada che animano il Lungarno con le loro melodie. L’atmosfera ha qualcosa di magico: le botteghe storiche, colme di gioielli e oggetti scintillanti, sembrano sospese tra cielo e acqua affacciandosi direttamente sul fiume.

“Non sembra nemmeno un ponte” dice Veronika, guardandosi intorno con meraviglia.

“Effettivamente sembra più una strada” rispondo, osservando le vetrine ornate d’oro e pietre preziose.

Poco più avanti una guida turistica sta spiegando la storia del ponte a un gruppo di visitatori. Non posso evitare di ascoltare.

“Pare che nel Medioevo qui ci fossero macellerie” dico sottovoce a Veronika, indicando le strutture basse delle botteghe. “Però i macellai gettavano gli scarti direttamente nell’Arno finché Ferdinando I de’ Medici non decise di sostituirli con orafi e gioiellieri.”

“Macellerie? Su un ponte come questo?” sgrana gli occhi.

“Già, voleva migliorare l’immagine del ponte e risolvere il problema degli odori… diciamo poco piacevoli” aggiungo con un sorriso.

Veronika sorride al pensiero mentre continuiamo a camminare tra i negozi che, nonostante i secoli, sembrano ancora mantenere un fascino senza tempo.

Poi, alzando lo sguardo, Veronika nota una struttura che sovrasta le botteghe. “E quello? Cos’è quella specie di corridoio?”

“Credo sia il Corridoio Vasariano” rispondo, frugando nella tasca per estrarre una brochure che avevo recuperato mentre facevamo i biglietti al campanile. “Dice che fu costruito nel 1565 per volere di Cosimo I de’ Medici. Permetteva ai granduchi di spostarsi da Palazzo Vecchio a Palazzo Pitti senza doversi mescolare alla folla.”

Veronika segue con lo sguardo il passaggio sopraelevato che corre lungo il ponte come un sentiero segreto della nobiltà.

“Dovevano proprio fidarsi poco della gente” commenta con una punta di ironia.

“Beh, ai tempi governare Firenze non era esattamente un compito facile” dico “Credo fosse meglio avere un passaggio sicuro che rischiare imboscate tra la folla.”

Ci fermiamo al centro del ponte dove un piccolo spazio aperto regala una vista mozzafiato sull’Arno. L’acqua riflette la luce dorata della giornata mentre il mormorio della città si mescola al suono del fiume che scorre placido.

Veronika si appoggia alla balaustra e sospira. “Chissà quanti mercanti, artisti e viaggiatori hanno attraversato questo ponte nei secoli.”

Un piccolo pannello informativo accanto a una bottega attira la mia attenzione. “Guarda qui Vero. Dice che questo ponte ha visto di tutto: alluvioni, guerre e persino un re che vi rimase bloccato. Durante l’alluvione del 1966 l’Arno sommerse le botteghe, distruggendo gioielli e libri contabili. E pare che nel 1495 il re di Francia Carlo VIII rimase incastrato con il suo cavallo tra i negozi troppo stretti. Dopo quell’episodio iniziarono a regolamentare meglio lo spazio qui sopra.”

Veronika scorre con lo sguardo il pannello. “Quindi non è sempre stato così ordinato?”

“Evidentemente Firenze ha dovuto trovare il suo equilibrio, proprio come questo ponte.”

Restiamo qualche minuto in silenzio, lasciando che la storia del ponte si intrecci ai suoni della città e al fluire dell’Arno sotto di noi.

“Il Ponte Vecchio è più di un ponte: è una passerella sospesa nella storia, dove ogni passo racconta un secolo di vita fiorentina.”

vista del Ponte Vecchio dal Lungarno (foto da google heart)

Palazzo Pitti e i Giardini di Boboli: il potere e la bellezza

Attraversato il Ponte Vecchio ci ritroviamo di fronte alla massiccia facciata di Palazzo Pitti. Le pietre grezze, squadrate e possenti trasmettono un senso di imponenza quasi schiacciante. È un contrasto netto con l’eleganza dei palazzi rinascimentali del centro e, per un attimo, rimaniamo in silenzio osservandolo.

“Non me lo ricordavo così… massiccio” commenta Veronika, inclinandosi leggermente all’indietro per coglierne l’altezza.

“Già, sembra quasi fuori posto rispetto al resto della città” rispondo, scorrendo lo sguardo lungo la facciata severa. “Eppure è stato costruito proprio per essere il simbolo della grandezza di una famiglia.”

Facciamo il biglietto e ci uniamo a un gruppo di turisti radunati attorno a una guida locale, una donna dai capelli ricci che parla con il tono appassionato di chi racconta una storia mille volte senza perdere entusiasmo.

Palazzo Pitti fu costruito a metà del Quattrocento per volere di Luca Pitti, un banchiere fiorentino che voleva superare per grandezza e maestosità il Palazzo Medici Riccardi, la residenza dei suoi rivali.”

Veronika solleva un sopracciglio. “Quindi era una questione di ego?”

La guida annuisce con un sorriso. “Assolutamente. Pitti voleva finestre grandi quanto le porte di Palazzo Medici e una facciata imponente per dimostrare il suo potere. Ma ironia della sorte, pochi decenni dopo, la famiglia Pitti cadde in disgrazia e chi comprò il palazzo?”

“I Medici” risponde un uomo del gruppo prima ancora che qualcuno possa rifletterci.

“Quindi alla fine hanno vinto loro.” commento divertito.

“Come sempre” aggiunge la guida con un sorriso. “Lo trasformarono nella loro residenza ufficiale e da qui governarono Firenze e la Toscana.”

Veronika osserva le finestre alte e strette. “Chissà com’era viverci…”

“Probabilmente lussuoso e caotico” risponde la guida aggiungendo subito dopo: “Pensiamo solo a quanti artisti e scienziati hanno frequentato queste stanze. Qui hanno vissuto Cosimo I de’ Medici, Eleonora di Toledo e poi i Lorena, persino i Savoia quando Firenze era capitale d’Italia. Dentro il palazzo oggi si possono visitare gli Appartamenti Reali, la Galleria Palatina con opere di Raffaello e Tiziano, la Galleria d’Arte Moderna e persino una farmacia storica.”

“Una farmacia?” ripete una turista incuriosita.

“Esatto” conferma la guida. “Una spezieria di corte per l’esattezza, dove venivano preparati rimedi e unguenti per la famiglia ducale.”

Mentre la guida prosegue, Skippy si arrampica con agilità sulla spalla della donna, afferrando con le zampette la piccola bandierina che la guida teneva in mano per farsi seguire dal gruppo. Per un attimo tutti restiamo in silenzio, io e Veronika imbarazzati, poi una risata collettiva esplode tra i turisti.

“Ehi, ma sei proprio un’assistente perfetta!” esclama la guida, accarezzandole la testa. “Direi che abbiamo trovato la nostra mascotte ufficiale!”

Skippy, fiera della sua performance, solleva la testa e batte una zampa sul petto. Poi, con un’aria teatrale, saluta il gruppo con un piccolo gesto della zampa mentre i turisti scattano foto ridendo.

“Attenta” ridacchia Veronika. “Se si affeziona potrebbe voler restare qui.”

Skippy batte le zampette sulla spalla della guida, poi si sistema meglio, come se il posto le piacesse davvero.

Ci addentriamo nel cortile interno circondato da colonne imponenti che sembrano stringersi attorno a noi. L’ombra fresca e la pietra antica creano un’atmosfera solenne, come se il tempo qui scorresse più lentamente.

Poi un arco si apre su un vialetto alberato e davanti a noi si dispiega l’immenso Giardino di Boboli.

“Palazzo Pitti è la prova che il potere può cambiare mano ma la grandezza resta. Ogni pietra racconta di ambizioni, cadute e rinascite, in un continuo intreccio di storia e arte.”

Palazzo Pitti e la sua piazza antistante (foto da google heart)

Tra natura e potere: il Giardino di Boboli

Appena varcato il cancello monumentale ci ritroviamo immersi in un labirinto di viali ordinati, siepi geometriche e statue di marmo.

“Wow” esclama Veronika. “È immenso.”

“Questo è il primo giardino all’italiana della storia” spiega la guida mentre ci incamminiamo lungo un viale alberato. “Fu realizzato nel Cinquecento per Eleonora di Toledo, moglie di Cosimo I de’ Medici. Era uno spazio privato ma anche un modo per dimostrare il potere della famiglia.”

“Ogni cosa qui sembra studiata per impressionare” commenta una turista osservando la precisione geometrica del paesaggio.

La guida annuisce. “Esattamente. Qui tutto ha un significato politico. Il potere dei Medici si rifletteva nella simmetria perfetta del giardino.”

Skippy, ancora in spalla alla guida, si sporge per osservare una statua vicino alla Fontana dell’Oceano.

“Quella fontana rappresenta il dominio sulle acque. Nettuno al centro indica che Firenze, pur non essendo sul mare, aveva un controllo strategico sui commerci marittimi.”

Veronika, osservando le figure intorno, mi sussurra. “Queste statue sembrano vive, ferme solo per un momento.”

Più avanti la guida si ferma davanti a un ingresso scolpito nella pietra, ricoperto di stalattiti finte e decorazioni surreali.

“Benvenuti alla Grotta del Buontalenti.”

Varcato l’ingresso ci troviamo in un ambiente che sembra uscito da un sogno. Le pareti, ricoperte di figure scolpite, sembrano sciogliersi nella roccia mentre affreschi e statue emergono come visioni oniriche.

“Non è una grotta naturale” spiega la guida. “Fu costruita per stupire gli ospiti della corte. Ogni dettaglio è stato studiato per creare un’illusione, come se l’arte stesse prendendo vita dalla pietra.”

Skippy, affascinata, inclina la testa e imita la posa di una delle statue, facendo ridere tutto il gruppo.

Proseguendo lungo i sentieri arriviamo ad una terrazza panoramica da cui si può ammirare tutta Firenze.

“Che vista…” mormora Veronika, scattando una foto.

La guida continua con entusiasmo. “Pensate che questo giardino non serviva solo a passeggiare. Qui si svolgevano spettacoli teatrali, feste e persino tornei.”

Mi appoggio alla balaustra osservando Firenze stendersi sotto di noi. “Ecco perché i Medici lo volevano perfetto. Non era solo un giardino, era una dichiarazione di potere.”

Skippy salta giù dal suo posto privilegiato dal quale ha osservato comodamente il paesaggio, si gira verso la guida e le porge la bandierina con un gesto solenne. Poi si volta verso il gruppo e, con un piccolo inchino, si mette una zampetta sul petto come una perfetta aiutante da tour.

Un applauso spontaneo scoppia tra i turisti e la guida ride divertita.

Il sole inizia a calare e sappiamo che è il momento di proseguire. Salutiamo la guida e lasciamo i Giardini di Boboli alle nostre spalle, con la sensazione di aver attraversato secoli di storia e bellezza.

Mentre ci allontaniamo, Skippy si gira un’ultima volta verso il gruppo, alza la zampetta in un piccolo saluto e si gode gli ultimi applausi. Poi, con la dignità di una star, si sistema gli occhialoni e ci segue con passo fiero.

“Il Giardino di Boboli non è solo natura: è potere, arte e teatro all’aperto, un’eredità eterna della Firenze rinascimentale.”

Palazzo Pitti dai Giradini (foto da google heart)

Il Piazzale Michelangelo e l’ultima lezione di Firenze

Lasciati i Giardini di Boboli e usciti da Palazzo Pitti troviamo una carrozza ferma sul ciglio del marciapiede. Il cavallo, un esemplare dal manto scuro e lucido, attende paziente mentre sul sedile di guida siede un uomo dall’aria serena e il cappello a tesa larga calcato sugli occhi.

“Vi porto al Piazzale Michelangelo, signori?” chiede con un accento toscano che profuma di storie vissute.

Ci riflettiamo un attimo, pensando che sarebbe un modo alternativo di spostarsi tra le vie di Firenze, poi saliamo a bordo. Il ritmo cadenzato degli zoccoli sul selciato si mescola al brusio della città mentre ci lasciamo alle spalle il centro storico.

“Quanti turisti vedo passare ogni giorno” riflette il cocchiere mentre guida con gesti sicuri. “Tutti corrono per vedere Firenze ma pochi si fermano davvero a guardarla.”

Il suo tono non è di rimprovero ma di chi ha visto il tempo scorrere su questa città come un fiume, con i suoi cicli di bellezza e distruzione.

“Lei è di Firenze da sempre?” chiede Veronika, incuriosita.

“Da sempre e per sempre” risponde con un sorriso appena accennato. “Mi chiamo Gino e questo è il mio modo di vedere la città: un passo alla volta, con il ritmo di chi non ha fretta.”

Attraversiamo quartieri meno turistici dove le facciate dei palazzi alternano nobiltà e decadenza, la voce di Gino diventa il nostro filo conduttore con la storia di Firenze.

“Questa città l’hanno costruita gli artisti e i mercanti” dice, indicando con un cenno le strade che si aprono su piazzette più intime. “La bellezza non è mai stata fine a se stessa, aveva sempre uno scopo: stupire, governare, ricordare. Pensate a chi ha calcato queste strade… Dante, Michelangelo, Galileo.”

Ci racconta di come il Piazzale Michelangelo sia stato progettato nel 1869 dall’architetto Giuseppe Poggi durante i lavori di rinnovamento della città.

“Doveva essere una celebrazione del genio di Michelangelo” continua, rallentando per indicarci le prime scalinate che conducono alla terrazza panoramica. “Un museo a cielo aperto dedicato a lui… ma il museo non lo costruirono mai. Rimase solo la grande copia del David in bronzo e qualche altra scultura.”

Arriviamo al Piazzale e il tempo sembra dilatarsi. Firenze, da qui, appare in tutto il suo splendore.

“Non è come vederla dall’alto del Campanile di Giotto” dico, appoggiandomi al parapetto. “Qui sembra quasi di farne parte.”

Veronika annuisce. “È come un quadro che cambia ogni minuto.”

Gino sorride, sistemandosi il cappello. “Eppure Firenze è sempre la stessa. Siete voi a cambiare, ogni volta la guardate con occhi diversi. E forse, la prossima volta, non sarà la città a sorprendervi… ma voi stessi.”

Le sue parole ci colpiscono, c’è qualcosa di vero in quel pensiero, qualcosa che ci accompagna mentre scendiamo dal Piazzale e torniamo verso l’Aeroporto di Peretola. Il taxi scorre silenzioso lungo le strade. Firenze si allontana ma questa volta ce la portiamo dietro in un modo nuovo. Gli incontri fatti ci hanno lasciato qualcosa in più e sappiamo che, anche questa volta, il ricordo di questa città resterà con noi, non solo negli occhi ma nel cuore.

“Firenze cambia con chi la guarda: ogni ritorno è un nuovo viaggio, un nuovo sguardo su una città senza tempo.”