16 – Diario di Viaggio Qayrawan
Benvenuti a Casa
La polvere rossa si sta ancora posando lentamente sul terreno quando scendiamo dall’aereo. Ali si avvicina con passo sicuro, spalanca le braccia e ci accoglie con un ampio sorriso. Meriem, sua moglie, ci raggiunge subito dopo. Ha uno sguardo calmo, accogliente. Incrocia quello di Veronika e, come se si fossero riconosciute da sempre, le porge la mano con un gesto delicato, poi le sfiora le spalle con un abbraccio laterale e due baci rapidi sulle guance.
«Marhba bikum… benvenuti.»
Ali, con un italiano marcato ma comprensibile, ci invita a seguirli. «Prego, venite.»
Ci incamminiamo lungo un sentiero di terra battuta con il sole che accende i colori della campagna. La casa è bellissima, intonacata a calce bianca, con infissi azzurri e una tettoia di canne intrecciate che regala ombra alla piccola veranda. All’interno l’aria è sorprendentemente fresca grazie ai muri spessi. Il salotto è semplice ma pieno di dettagli: tappeti berberi, cuscini colorati, fotografie incorniciate alle pareti, scatti in bianco e nero, momenti di volo, istantanee familiari. Un modellino di aereo fatto a mano troneggia su una mensola accanto a un vecchio casco da pilota.
Meriem ci porge tre bicchieri bassi di tè alla menta, caldo e profumato.
«Zouj choia sucrée? Poco zucchero?» chiede a Veronika, che annuisce sorridendo. Sul tavolino, una ciotola con datteri, mandorle e un pane tondo ricoperto di semi di sesamo completa l’accoglienza.
Bevo un sorso. Il sapore è forte, dolce e profondo. Poi appoggio il bicchiere e mi rivolgo ad Ali. «Durante il volo… abbiamo avuto un problema. La pressione del carburante è calata all’improvviso. Non si è ripresentato ma non mi convince. Hai per caso strumenti più tecnici per controllare bene il regolatore e il circuito?»
Ali si gratta la barba e annuisce. «Sì, certo. Ho tutto. Facciamo insieme. È importante.»
Ci alziamo e ci dirigiamo verso il piccolo hangar accanto alla casa, lasciando Veronika e Skippy in compagnia di Meriem.
Rimaste sole le due donne si guardano un attimo in silenzio. Poi Meriem si siede accanto a Veronika e le porge un altro dattero. Parlano piano, mescolando italiano e inglese. In pochi minuti, tra loro si crea una confidenza semplice, sincera. Fatto di gesti, sorrisi, e silenzi condivisi.
Ci sono luoghi che ti accolgono con una tazza di tè e uno sguardo sincero. E in quel gesto… sei già a casa.

Scoperte
Ali si avvicina al Cessna e si infila sotto l’ala con naturalezza, come se lo facesse ogni giorno. Lo seguo in silenzio con in mano la torcia e la chiave inglese lunga che mi ha passato.
Iniziamo controllando il vano motore, poi seguiamo la linea del carburante. Passiamo molto tempo in assoluta concentrazione, scambiandoci poche parole, finché Ali, inginocchiato sul lato destro della fusoliera, si blocca e mi chiama con un cenno.
«Qui. Vicino all’attacco della pompa meccanica… vedi questo tubo?»
Mi chino per osservare meglio. È uno dei condotti che convoglia il carburante dalla pompa meccanica verso l’unità di controllo aria-carburante. A prima vista sembra tutto in ordine ma, quando Ali spinge leggermente un raccordo, noto una sottile traccia di benzina secca proprio lì dove non dovrebbe esserci nulla.
Ali si alza lentamente, lo sguardo serio. «Questo… non è bene. È stato allentato. Apposta.»
Lo guardo fisso. Le parole si fermano tra i denti. Non era un guasto. Era una manomissione intelligente. Un intervento preciso su un punto chiave del circuito, dove una piccola perdita avrebbe potuto peggiorare col tempo, causare un calo di pressione, indebolire il motore… lontano da testimoni, lontano da chiunque potesse aiutarci.
«Qualcuno voleva farci precipitare ma… non subito. Voleva che ce ne andassimo… per poi sparire nel nulla.» La mia voce è bassa, contratta.
Le immagini si affollano nella mia mente: quell’uomo che ci fotografava a Cagliari, l’uomo incappucciato al mercato di Tunisi, il mio sospetto che cresceva senza prove. Ora le prove sono lì, sotto gli occhi.
Sono furioso.
Ali resta composto. Non parla ma mi guarda con un rispetto silenzioso.
Riprendo fiato. «Dove possiamo trovare questo pezzo per la sostituzione?»
Ali scuote la testa. «No. Non qui. È specifico. Regolatore… raccordo per questa zona del circuito. Qui in Tunisia… mesi per averlo.»
Mi passo una mano sul viso, cercando di controllare la rabbia e trovare una soluzione. Poi prendo il telefono e compongo il numero di Carlo. Risponde al terzo squillo.
«Carlo… il Cessna è stato sabotato. Credo a Tunisi. Hanno allentato un raccordo vicino alla pompa del carburante e manomesso il regolatore. È stato fatto apposta. Hanno giocato con la pressione ma senza fretta.»
Dall’altra parte, il silenzio dura un istante. Poi Carlo, con voce bassa ma ferma: «Camillo te lo avevo detto. State disturbando qualcuno. Qualcuno che ha paura che arriviate troppo vicini a qualcosa che non vuole venga scoperto.»
«Lo so Carlo… ormai è chiaro anche a me. Ali dice che potremmo restare qui settimane perché questo specifico tipo di ricambio non è disponibile probabilmente in questa zona.»
«Dammi un’ora. Faccio un po’ di telefonate. Conosco qualcuno in zona. Tu intanto resta lì e mi raccomando… occhi aperti.»
Annuisco chiudendo la chiamata e resto in silenzio, immerso nei mille pensieri mentre osservo il Cessna. Rientriamo in casa con le scarpe impolverate e il cuore gonfio; Ali vuole controllare dei siti web specializzati della zona per capire se hanno una soluzione.
Quello che trovo in cucina è un contrasto totale rispetto al mio stato d’animo. Veronika, Meriem e Skippy sono attorno al tavolo. Le mani delle donne impastano insieme sottili sfoglie di pasta.
«Si chiamano brik» spiega Meriem, indicando le forme triangolari. «Si preparano con pasta sottile e si farciscono con uova, tonno e prezzemolo. Poi si friggono fino a doratura.»
Skippy osserva Veronika sorridere di gusto. L’atmosfera è calda, serena. C’è odore di cumino e farina tostata.
Rimango sulla soglia, con un sorriso che non riesce a essere sincero. Per ora, preferisco non dire nulla.
La verità a volte sta tutta in un dettaglio. Una vite allentata, un odore secco… e un istante in cui capisci di essere nel mirino.

Un pranzo denso di pensieri
Il pranzo viene servito sotto il portico, all’ombra di una tettoia di canne intrecciate. Il tavolo è basso, coperto da una tovaglia decorata a mano con motivi geometrici. Al centro un grande piatto colmo di kaftaji, un mix fritto di patate, peperoni verdi, uova, pomodori e spezie. Accanto, ciotoline con olive nere, harissa, carote speziate, datteri freschi e pane piatto, caldo e profumato, spezzato con le mani e distribuito senza formalità.
Meriem appoggia un brik triangolare nel piatto di Veronika. «Si mangiano caldi, appena fritti. Sono semplici ma se li fai con calma… sono buonissimi.»
Ali, seduto accanto a me, annuisce. «Il kaftaji è povero… ma potente. Ti resta dentro. Come Qairouan.»
«Qairouan… è così che si pronuncia?» chiede Veronika, appoggiando il cucchiaio per un momento.
«Sì. Qairouan. In arabo si dice Al-Qayrawān. Vuol dire “accampamento” o “luogo di raduno”.»
Ali si piega in avanti, coinvolto dal racconto. «Fu fondata dagli arabi nel settimo secolo, come punto strategico tra mare e deserto ma poi è diventata sacra. La quarta città santa dell’Islam, dopo La Mecca, Medina e Gerusalemme. C’è una leggenda che dice che ogni sette pellegrinaggi a Qairouan valgono come uno alla Mecca.»
Ascolto distrattamente. Muovo il cucchiaio nel piatto con gesto meccanico. Non ho fame. Sono ancora teso, la mente piena di immagini e sospetti. Cerco di tornare in me.
Ali mi osserva con la coda dell’occhio, poi cambia tono cercando di coinvolgermi nella conversazione. «Sai cosa dicono gli anziani da queste parti? Che Qairouan è come il tè alla menta: se la bevi una volta, torni sempre. Ma se la bevi due volte… ci resti per sempre.»
Meriem sorride mentre riempie nuovamente i piatti, offrendo un altro pezzo di pane caldo.
Accenno un sorriso, più per educazione che per fame.
Ali lo capisce. Non insiste. Prende un boccone, poi si pulisce le mani con un tovagliolo e cambia argomento con discrezione.
«Dunque… quell’uomo che cercate. Il posto che mi hai descritto prima… lo conosco. È isolato ma ci si può arrivare. Se volete, vi accompagniamo con piacere. Possiamo andare subito dopo pranzo, prima che il sole si abbassi troppo.»
Veronika si volta verso di me. Alzo lo sguardo dal piatto e annuisco, anche se quell’uomo e la sua storia ora, per me, sono l’ultima cosa a cui riesco a pensare. Ma devo capire come chiudere questa storia. Come farci lasciare in pace.
Bevo un sorso d’acqua.
«Sì. Andiamo.»
Ci sono tavole dove il cibo parla. Ma a volte, anche il piatto più caldo non riesce a scaldare quello che porti dentro.

Verso il cuore del silenzio
Il grande SUV bianco di Ali scivola lungo una pista di terra battuta che si allontana sempre più dalla strada asfaltata. La campagna intorno è piatta ma viva: ulivi nodosi si alternano a palmeti radi e la terra assume sfumature ramate sotto il sole del primo pomeriggio. Il cielo è terso, immobile. Solo il vento tra le foglie rompe il silenzio.
Meriem si gira verso Veronika, indicando col dito un dosso in lontananza. «Lì c’era una sorgente, una volta. Gli anziani dicevano che l’acqua veniva dal sottosuolo benedetto. Ora è asciutta… ma qualcuno viene ancora a pregare.»
Poco dopo, superiamo un vecchio pozzo in pietra, poi un albero solitario che Meriem chiama l’olivo della promessa. «Dicono che le donne ci legavano nastri se volevano un figlio. Se l’olivo fioriva entro l’anno era segno buono.»
Ascolto senza dire una parola. Veronika mi osserva in silenzio; ormai le è chiaro che qualcosa non va.
Dopo quasi un’ora di guida, il SUV rallenta. Davanti a noi, una piccola struttura in pietra, isolata, con il tetto piatto e l’intonaco scolorito. Nessuna recinzione, nessun rumore.
Ali parcheggia sotto una palma, spegne il motore e si gira verso di noi. «Siamo arrivati. Lui è lì dentro. Ma noi restiamo qui. È meglio.»
Meriem annuisce. «Vi aspettiamo. Prendetevi il tempo che serve.»
Apro la portiera. Il silenzio fuori è quasi solido. Un vento caldo mi accarezza il volto.
Veronika e Skippy mi seguono mentre mi avvio verso la porta con passo lento ma deciso.
Nessuno parla.
Tutto in questo momento e in questo luogo sembra sospeso.
Ci sono silenzi che non fanno rumore ma, quando li attraversi, sai che qualcosa sta per cambiare per sempre.

Il Custode del Segreto
L’anziano esce sul piccolo portico. Non ci chiede nulla ma quando i suoi occhi incrociano la fibula in rame donataci da Adnen, si ferma. Lo sguardo cambia.
Ci osserva uno a uno, poi ci fa cenno di entrare. Nessuna parola. Nessuna esitazione.
È un uomo alto, magro, il corpo leggermente incurvato dagli anni ma con una presenza che riempie lo spazio. Le mani sono forti, segnate dal legno e dal tempo. Gli occhi invece… sono vivi. Di un’intensità che mette a nudo.
«Se avete quella…» dice piano «e siete arrivati fin qui… allora sapete già chi sono. E so perché siete qui.»
Ci accomodiamo. La casa è piccola ma ogni oggetto ha un peso. Oggetti intagliati, utensili antichi, frammenti lignei… reliquie. Pezzi di storia.
«Ho servito tutta la mia vita come custode del segreto del nostro Ordine. Quando è iniziata la scissione e ho scelto da che parte stare… mi hanno fatto capire che il mio tempo era finito. Vi dirò quel che posso. Ma oltre questo… c’è solo silenzio.»
La sua voce è limpida. Perfetto italiano ma attraversato da un accento maghrebino che lo rende ancora più grave.
«Ampsicora… non si tolse la vita. Fu fatto fuggire. Dopo la sconfitta guidò i pochi rimasti in un esilio volontario. Un esilio voluto per proteggere un sapere che i vincitori non volevano solo dimenticare… volevano cancellarlo. Non erano solo i Romani. Era la religione del potere. Quella che l’Impero portava ovunque. E che ancora oggi… veste altri nomi.»
Indica una statua in legno: alta, sproporzionata, potente. I contorni sono grezzi ma lo spirito scolpito dentro è antico e fiero.
«Durante la battaglia con Roma non tutti furono uccisi. Alcuni scelsero di sparire. Ampsicora non voleva diventare un martire ma un seme. Qui, in questa terra accogliente, dove la sabbia protegge più che nascondere fondò un nuovo Ordine. I suoi figli… e poi i figli dei figli… hanno continuato a custodire il segreto. Fino a noi.»
Fa una pausa. Abbassa lo sguardo.
«Ma oggi… il tempo dell’Ordine è alla fine. I giovani non vogliono più vivere nell’ombra. Sono distratti, affamati di visibilità, rapiti dal mondo veloce che ci gira intorno. Alcuni nell’ordine credono che il mondo sia pronto per la verità. Altri… sanno che il momento è passato. E forse… hanno ragione.»
Alza gli occhi. Lo sguardo si fa tagliente.
«Loro… quelli di Roma e dei loro alleati… oggi sono ancora più forti. Controllano i media. Le menti. La narrazione. Se dicessimo oggi ciò che sappiamo… se mostrassero ciò che nascondiamo ci descriverebbero come pazzi. Complottisti. E la verità… morirebbe ridicolizzata.»
Estrae una shisha da sotto il tavolo. L’accende con calma e l’aroma caldo del tabacco speziato riempie la stanza.
«E poi… se scoprissero che siamo ancora attivi… non ci darebbero nemmeno il tempo di spiegare. Loro hanno eserciti. Hanno banche. Hanno delegazioni nei posti giusti. Noi… siamo solo ombre. E peggio ancora: divisi.»
Aspira lentamente. Espira.
«Da anni ormai l’Ordine è spaccato in due. Una parte vuole mostrare tutto. L’altra vuole cancellare ogni traccia. E chi si avvicina troppo… viene fermato. In qualunque modo.»
Mi irrigidisco. Sento la rabbia salire come un’onda.
«Lo so. Hanno sabotato il nostro aereo. Ci seguono da giorni. E non si fermeranno. Vogliono metterci a tacere. Per sempre.»
Veronika sgrana gli occhi. Skippy si stringe alla sua gamba, ora consapevole del rischio che abbiamo corso e che stiamo correndo.
L’anziano mi guarda con più attenzione. Annuisce.
«È la fazione del silenzio. Sono fanatici. Per loro… voi siete un rischio che non possono permettersi.»
Mi alzo. Il cuore mi batte forte. Le mani strette a pugno.
«E allora che facciamo? Come si ferma questa follia?»
L’anziano rimane in silenzio. Lo vedo riflettere. Poi si alza anche lui, lentamente.
«C’è solo una persona che può decidere il destino di questa storia. Il Maestro Venerabile. Vive a Gafsa. È l’ultimo discendente diretto di Ampsicora. Entrambe le fazioni gli devono rispetto. È l’unico che può proteggerli… e forse, proteggere anche voi.»
«Un… suo discendente?» sussurra Veronika.
«Sì, a differenza di quel che hanno sempre raccontato. Ampsicora ebbe una nuova progenie in Tunisia. L’ultimo discendente non ha mai lasciato Gafsa. È lui che custodisce ciò che nessun altro ha mai visto. Ma non vi aprirà le porte con leggerezza. Chi ha voluto sapere… ha dovuto rinunciare a molto. Perché sapere, figli miei… significa portare un peso. E non tutti sono pronti a portarlo.»
Stringo i pugni. Lo sguardo fermo.
«Lo troveremo. Qualsiasi cosa ci chieda… lo faremo. Ma questa storia va chiusa. Una volta per tutte.»
L’anziano cammina verso una vecchia cassapanca. La apre. Dentro, tra tessuti consumati, prende un oggetto avvolto in un panno. Lo scarta lentamente.
È un medaglione. Il simbolo è quello: un cerchio spezzato con una punta ricurva. Lo stesso che aveva Adnen. Lo stesso inciso sulla spilla di Skippy.
Ce lo porge. Nessuna parola.
Il nostro viaggio…
…non è ancora finito.
Ci sono verità che non si cercano. Ti scelgono loro ma chiederanno qualcosa in cambio… sempre.

Decidere in silenzio
Esco dalla piccola casa con il cuore in tumulto e i pensieri che si accavallano come onde.
Cammino deciso verso l’auto, Veronika e Skippy mi seguono in silenzio. Non c’è bisogno di parole. Hanno capito. Lo vedo nei loro occhi.
Salgo in macchina senza dire nulla. Mi siedo accanto ad Ali, fisso il finestrino e mi lascio inghiottire dal paesaggio. Lui mi osserva senza dirmi nulla, poi mette in moto.
La campagna tunisina sembra più secca, più dura rispetto all’andata. Forse rispecchia il mio stato d’animo.
Ali e Meriem non fanno domande. L’auto si muove lenta, come se volesse darci tempo.
Poi il telefono vibra nella tasca. Lo tiro fuori. Sullo schermo compare il nome di Carlo.
Rispondo subito. La chiamata dura poco ma basta a rimettere in moto qualcosa dentro di me.
Rifletto un attimo, prendo un respiro profondo e mi volto verso Ali.
«Carlo ha trovato una soluzione. A Kasserine c’è ancora una delle sedi del vostro gruppo. Una vecchia base usata per le missioni umanitarie. C’è un uomo lì, un ex tecnico aeronautico. Si chiama Jonas Meijer. È olandese. Carlo mi ha detto che è preciso, silenzioso… ma se qualcosa si può fare, lui lo fa.»
Ali annuisce prima ancora che finisca.
«Conosco bene quel posto. Ci passo spesso e conosco Jonas. È uno che non parla ma agisce. Se Carlo ha detto di andare da lui, allora si può fare.»
Lo guardo, serio. «Voglio partire subito. Appena possibile.»
Ali non ci pensa due volte. «Allora vengo con te. Ma prendiamo il mio Xcub. Non ti lascio andare da solo e non puoi volare in sicurezza con il Cessna.»
Mi volto verso Veronika. Lei mi fissa, immobile.
Meriem, intuendo i nostri pensieri, ci dice con un mezzo sorriso:
«Tranquillo… loro resteranno con me. Faremo una vera serata tra donne.»
Il sole, fuori, sta già calando. Ma dentro… il fuoco non si è mai spento.
Ci sono momenti in cui non puoi aspettare il domani. Perché è adesso che si decide tutto.

Preparativi
Il sole inizia la sua discesa quando rientriamo alla casa di Ali. Non perdiamo tempo: ognuno sa cosa fare. Io recupero il mio zaino e qualcosa da bere, mentre Ali apre le porte dell’hangar con un gesto lento, quasi cerimoniale. Lì dentro, sotto una luce calda e bassa, l’XCub sembra una creatura pronta a scattare.
Mi avvicino con rispetto. Non è il nostro Cessna e si vede subito. Questo è più alto da terra, con ruote anteriori molto grandi pronte a mordere la polvere. La fusoliera snella, le ali allungate come braccia tese al vento.
«È come passare da una station wagon… a un fuoristrada nervoso» mormoro tra me.
Ali sorride. «E vola come una gazzella se la sai trattare.»
Controlliamo insieme i flap, l’elica Hartzell, i livelli. Poi lui sale sulla pedana laterale e apre il portellone. L’interno è spartano ma moderno: pannelli digitali, sedili leggeri, tutto pensato per il bush flying. Mi passa le cuffie e mi fa segno di salire nel posto del pilota.
«Tocca a te. Io solo co-pilota oggi.»
Annuisco. Non mi tiro indietro. Non più e poi sarà divertente.
Nel frattempo, alle nostre spalle, le voci delle donne si intrecciano come fili di seta. Veronika e Skippy sono in veranda con Meriem, che si è avvicinata a lei con passo leggero.
«Stasera serata speciale» le dice con un sorriso. «Solo donne. Henné, musica, racconti. Una mia amica viene… ne ha sempre voglia.»
Veronika la guarda sorpresa. «Henné?»
«Sì. È un rito antico. Decoriamo le mani e i piedi. Parliamo. Cantiamo. Niente uomini, solo noi.»
Skippy emette un verso di approvazione, ha già deciso che le va benissimo.
Veronika annuisce, quasi emozionata. «Mi sembra perfetto. Dopo tutto questo… ci vuole proprio una serata tra donne.»
Meriem le stringe le dita tra le sue. «E ti farà bene. Il disegno non è solo decoro. È protezione.»
Ali mi fa cenno: è ora.
Saliamo a bordo. Il portellone si chiude con un clic metallico.
Il mondo fuori si fa silenzioso.
Dentro, il motore ci attende.
Fuori… la notte arriverà con nuove storie da scrivere.
Ci sono partenze che somigliano a un ritorno. Basta il rumore del motore… e tutto ricomincia.
