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16 – Diario di Viaggio Qayrawan

Benvenuti a Casa

La polvere rossa si sta ancora posando lentamente sul terreno quando scendiamo dall’aereo. Ali si avvicina con passo sicuro, spalanca le braccia e ci accoglie con un ampio sorriso. Meriem, sua moglie, ci raggiunge subito dopo. Ha uno sguardo calmo, accogliente. Incrocia quello di Veronika e, come se si fossero riconosciute da sempre, le porge la mano con un gesto delicato, poi le sfiora le spalle con un abbraccio laterale e due baci rapidi sulle guance.

«Marhba bikum… benvenuti.»

Ali, con un italiano marcato ma comprensibile, ci invita a seguirli. «Prego, venite.»

Ci incamminiamo lungo un sentiero di terra battuta con il sole che accende i colori della campagna. La casa è bellissima, intonacata a calce bianca, con infissi azzurri e una tettoia di canne intrecciate che regala ombra alla piccola veranda. All’interno l’aria è sorprendentemente fresca grazie ai muri spessi. Il salotto è semplice ma pieno di dettagli: tappeti berberi, cuscini colorati, fotografie incorniciate alle pareti, scatti in bianco e nero, momenti di volo, istantanee familiari. Un modellino di aereo fatto a mano troneggia su una mensola accanto a un vecchio casco da pilota.

Meriem ci porge tre bicchieri bassi di tè alla menta, caldo e profumato.

«Zouj choia sucrée? Poco zucchero?» chiede a Veronika, che annuisce sorridendo. Sul tavolino, una ciotola con datteri, mandorle e un pane tondo ricoperto di semi di sesamo completa l’accoglienza.

Bevo un sorso. Il sapore è forte, dolce e profondo. Poi appoggio il bicchiere e mi rivolgo ad Ali. «Durante il volo… abbiamo avuto un problema. La pressione del carburante è calata all’improvviso. Non si è ripresentato ma non mi convince. Hai per caso strumenti più tecnici per controllare bene il regolatore e il circuito?»

Ali si gratta la barba e annuisce. «Sì, certo. Ho tutto. Facciamo insieme. È importante.»

Ci alziamo e ci dirigiamo verso il piccolo hangar accanto alla casa, lasciando Veronika e Skippy in compagnia di Meriem.

Rimaste sole le due donne si guardano un attimo in silenzio. Poi Meriem si siede accanto a Veronika e le porge un altro dattero. Parlano piano, mescolando italiano e inglese. In pochi minuti, tra loro si crea una confidenza semplice, sincera. Fatto di gesti, sorrisi, e silenzi condivisi.

Ci sono luoghi che ti accolgono con una tazza di tè e uno sguardo sincero. E in quel gesto… sei già a casa.

Ali e Meriem (foto Dall-E)

Scoperte

Ali si avvicina al Cessna e si infila sotto l’ala con naturalezza, come se lo facesse ogni giorno. Lo seguo in silenzio con in mano la torcia e la chiave inglese lunga che mi ha passato.

Iniziamo controllando il vano motore, poi seguiamo la linea del carburante. Passiamo molto tempo in assoluta concentrazione, scambiandoci poche parole, finché Ali, inginocchiato sul lato destro della fusoliera, si blocca e mi chiama con un cenno.

«Qui. Vicino all’attacco della pompa meccanica… vedi questo tubo?»

Mi chino per osservare meglio. È uno dei condotti che convoglia il carburante dalla pompa meccanica verso l’unità di controllo aria-carburante. A prima vista sembra tutto in ordine ma, quando Ali spinge leggermente un raccordo, noto una sottile traccia di benzina secca proprio lì dove non dovrebbe esserci nulla.

Ali si alza lentamente, lo sguardo serio. «Questo… non è bene. È stato allentato. Apposta.»

Lo guardo fisso. Le parole si fermano tra i denti. Non era un guasto. Era una manomissione intelligente. Un intervento preciso su un punto chiave del circuito, dove una piccola perdita avrebbe potuto peggiorare col tempo, causare un calo di pressione, indebolire il motore… lontano da testimoni, lontano da chiunque potesse aiutarci.

«Qualcuno voleva farci precipitare ma… non subito. Voleva che ce ne andassimo… per poi sparire nel nulla.» La mia voce è bassa, contratta.

Le immagini si affollano nella mia mente: quell’uomo che ci fotografava a Cagliari, l’uomo incappucciato al mercato di Tunisi, il mio sospetto che cresceva senza prove. Ora le prove sono lì, sotto gli occhi.

Sono furioso.

Ali resta composto. Non parla ma mi guarda con un rispetto silenzioso.

Riprendo fiato. «Dove possiamo trovare questo pezzo per la sostituzione?»

Ali scuote la testa. «No. Non qui. È specifico. Regolatore… raccordo per questa zona del circuito. Qui in Tunisia… mesi per averlo.»

Mi passo una mano sul viso, cercando di controllare la rabbia e trovare una soluzione. Poi prendo il telefono e compongo il numero di Carlo. Risponde al terzo squillo.

«Carlo… il Cessna è stato sabotato. Credo a Tunisi. Hanno allentato un raccordo vicino alla pompa del carburante e manomesso il regolatore. È stato fatto apposta. Hanno giocato con la pressione ma senza fretta.»

Dall’altra parte, il silenzio dura un istante. Poi Carlo, con voce bassa ma ferma: «Camillo te lo avevo detto. State disturbando qualcuno. Qualcuno che ha paura che arriviate troppo vicini a qualcosa che non vuole venga scoperto.»

«Lo so Carlo… ormai è chiaro anche a me. Ali dice che potremmo restare qui settimane perché questo specifico tipo di ricambio non è disponibile probabilmente in questa zona.»

«Dammi un’ora. Faccio un po’ di telefonate. Conosco qualcuno in zona. Tu intanto resta lì e mi raccomando… occhi aperti.»

Annuisco chiudendo la chiamata e resto in silenzio, immerso nei mille pensieri mentre osservo il Cessna. Rientriamo in casa con le scarpe impolverate e il cuore gonfio; Ali vuole controllare dei siti web specializzati della zona per capire se hanno una soluzione.

Quello che trovo in cucina è un contrasto totale rispetto al mio stato d’animo. Veronika, Meriem e Skippy sono attorno al tavolo. Le mani delle donne impastano insieme sottili sfoglie di pasta.

«Si chiamano brik» spiega Meriem, indicando le forme triangolari. «Si preparano con pasta sottile e si farciscono con uova, tonno e prezzemolo. Poi si friggono fino a doratura.»

Skippy osserva Veronika sorridere di gusto. L’atmosfera è calda, serena. C’è odore di cumino e farina tostata.

Rimango sulla soglia, con un sorriso che non riesce a essere sincero. Per ora, preferisco non dire nulla.

La verità a volte sta tutta in un dettaglio. Una vite allentata, un odore secco… e un istante in cui capisci di essere nel mirino.

manutenzione al cessna (foto Dall-E)

Un pranzo denso di pensieri

Il pranzo viene servito sotto il portico, all’ombra di una tettoia di canne intrecciate. Il tavolo è basso, coperto da una tovaglia decorata a mano con motivi geometrici. Al centro un grande piatto colmo di kaftaji, un mix fritto di patate, peperoni verdi, uova, pomodori e spezie. Accanto, ciotoline con olive nere, harissa, carote speziate, datteri freschi e pane piatto, caldo e profumato, spezzato con le mani e distribuito senza formalità.

Meriem appoggia un brik triangolare nel piatto di Veronika. «Si mangiano caldi, appena fritti. Sono semplici ma se li fai con calma… sono buonissimi.»

Ali, seduto accanto a me, annuisce. «Il kaftaji è povero… ma potente. Ti resta dentro. Come Qairouan.»

«Qairouan… è così che si pronuncia?» chiede Veronika, appoggiando il cucchiaio per un momento.

«Sì. Qairouan. In arabo si dice Al-Qayrawān. Vuol dire “accampamento” o “luogo di raduno”.»

Ali si piega in avanti, coinvolto dal racconto. «Fu fondata dagli arabi nel settimo secolo, come punto strategico tra mare e deserto ma poi è diventata sacra. La quarta città santa dell’Islam, dopo La Mecca, Medina e Gerusalemme. C’è una leggenda che dice che ogni sette pellegrinaggi a Qairouan valgono come uno alla Mecca.»

Ascolto distrattamente. Muovo il cucchiaio nel piatto con gesto meccanico. Non ho fame. Sono ancora teso, la mente piena di immagini e sospetti. Cerco di tornare in me.

Ali mi osserva con la coda dell’occhio, poi cambia tono cercando di coinvolgermi nella conversazione. «Sai cosa dicono gli anziani da queste parti? Che Qairouan è come il tè alla menta: se la bevi una volta, torni sempre. Ma se la bevi due volte… ci resti per sempre.»

Meriem sorride mentre riempie nuovamente i piatti, offrendo un altro pezzo di pane caldo.

Accenno un sorriso, più per educazione che per fame.

Ali lo capisce. Non insiste. Prende un boccone, poi si pulisce le mani con un tovagliolo e cambia argomento con discrezione.

«Dunque… quell’uomo che cercate. Il posto che mi hai descritto prima… lo conosco. È isolato ma ci si può arrivare. Se volete, vi accompagniamo con piacere. Possiamo andare subito dopo pranzo, prima che il sole si abbassi troppo.»

Veronika si volta verso di me. Alzo lo sguardo dal piatto e annuisco, anche se quell’uomo e la sua storia ora, per me, sono l’ultima cosa a cui riesco a pensare. Ma devo capire come chiudere questa storia. Come farci lasciare in pace.

Bevo un sorso d’acqua.

«Sì. Andiamo.»

Ci sono tavole dove il cibo parla. Ma a volte, anche il piatto più caldo non riesce a scaldare quello che porti dentro.

il pranzo a casa di Ali e Meriem (foto Dall-E)

Verso il cuore del silenzio

Il grande SUV bianco di Ali scivola lungo una pista di terra battuta che si allontana sempre più dalla strada asfaltata. La campagna intorno è piatta ma viva: ulivi nodosi si alternano a palmeti radi e la terra assume sfumature ramate sotto il sole del primo pomeriggio. Il cielo è terso, immobile. Solo il vento tra le foglie rompe il silenzio.

Meriem si gira verso Veronika, indicando col dito un dosso in lontananza. «Lì c’era una sorgente, una volta. Gli anziani dicevano che l’acqua veniva dal sottosuolo benedetto. Ora è asciutta… ma qualcuno viene ancora a pregare.»

Poco dopo, superiamo un vecchio pozzo in pietra, poi un albero solitario che Meriem chiama l’olivo della promessa. «Dicono che le donne ci legavano nastri se volevano un figlio. Se l’olivo fioriva entro l’anno era segno buono.»

Ascolto senza dire una parola. Veronika mi osserva in silenzio; ormai le è chiaro che qualcosa non va.

Dopo quasi un’ora di guida, il SUV rallenta. Davanti a noi, una piccola struttura in pietra, isolata, con il tetto piatto e l’intonaco scolorito. Nessuna recinzione, nessun rumore.

Ali parcheggia sotto una palma, spegne il motore e si gira verso di noi. «Siamo arrivati. Lui è lì dentro. Ma noi restiamo qui. È meglio.»

Meriem annuisce. «Vi aspettiamo. Prendetevi il tempo che serve.»

Apro la portiera. Il silenzio fuori è quasi solido. Un vento caldo mi accarezza il volto.

Veronika e Skippy mi seguono mentre mi avvio verso la porta con passo lento ma deciso.

Nessuno parla.

Tutto in questo momento e in questo luogo sembra sospeso.

Ci sono silenzi che non fanno rumore ma, quando li attraversi, sai che qualcosa sta per cambiare per sempre.

ulivo della promessa (foto Dall-E)

Il Custode del Segreto

L’anziano esce sul piccolo portico. Non ci chiede nulla ma quando i suoi occhi incrociano la fibula in rame donataci da Adnen, si ferma. Lo sguardo cambia.

Ci osserva uno a uno, poi ci fa cenno di entrare. Nessuna parola. Nessuna esitazione.

È un uomo alto, magro, il corpo leggermente incurvato dagli anni ma con una presenza che riempie lo spazio. Le mani sono forti, segnate dal legno e dal tempo. Gli occhi invece… sono vivi. Di un’intensità che mette a nudo.

«Se avete quella…» dice piano «e siete arrivati fin qui… allora sapete già chi sono. E so perché siete qui.»

Ci accomodiamo. La casa è piccola ma ogni oggetto ha un peso. Oggetti intagliati, utensili antichi, frammenti lignei… reliquie. Pezzi di storia.

«Ho servito tutta la mia vita come custode del segreto del nostro Ordine. Quando è iniziata la scissione e ho scelto da che parte stare… mi hanno fatto capire che il mio tempo era finito. Vi dirò quel che posso. Ma oltre questo… c’è solo silenzio.»

La sua voce è limpida. Perfetto italiano ma attraversato da un accento maghrebino che lo rende ancora più grave.

«Ampsicora… non si tolse la vita. Fu fatto fuggire. Dopo la sconfitta guidò i pochi rimasti in un esilio volontario. Un esilio voluto per proteggere un sapere che i vincitori non volevano solo dimenticare… volevano cancellarlo. Non erano solo i Romani. Era la religione del potere. Quella che l’Impero portava ovunque. E che ancora oggi… veste altri nomi.»

Indica una statua in legno: alta, sproporzionata, potente. I contorni sono grezzi ma lo spirito scolpito dentro è antico e fiero.

«Durante la battaglia con Roma non tutti furono uccisi. Alcuni scelsero di sparire. Ampsicora non voleva diventare un martire ma un seme. Qui, in questa terra accogliente, dove la sabbia protegge più che nascondere fondò un nuovo Ordine. I suoi figli… e poi i figli dei figli… hanno continuato a custodire il segreto. Fino a noi.»

Fa una pausa. Abbassa lo sguardo.

«Ma oggi… il tempo dell’Ordine è alla fine. I giovani non vogliono più vivere nell’ombra. Sono distratti, affamati di visibilità, rapiti dal mondo veloce che ci gira intorno. Alcuni nell’ordine credono che il mondo sia pronto per la verità. Altri… sanno che il momento è passato. E forse… hanno ragione.»

Alza gli occhi. Lo sguardo si fa tagliente.

«Loro… quelli di Roma e dei loro alleati… oggi sono ancora più forti. Controllano i media. Le menti. La narrazione. Se dicessimo oggi ciò che sappiamo… se mostrassero ciò che nascondiamo ci descriverebbero come pazzi. Complottisti. E la verità… morirebbe ridicolizzata.»

Estrae una shisha da sotto il tavolo. L’accende con calma e l’aroma caldo del tabacco speziato riempie la stanza.

«E poi… se scoprissero che siamo ancora attivi… non ci darebbero nemmeno il tempo di spiegare. Loro hanno eserciti. Hanno banche. Hanno delegazioni nei posti giusti. Noi… siamo solo ombre. E peggio ancora: divisi.»

Aspira lentamente. Espira.

«Da anni ormai l’Ordine è spaccato in due. Una parte vuole mostrare tutto. L’altra vuole cancellare ogni traccia. E chi si avvicina troppo… viene fermato. In qualunque modo.»

Mi irrigidisco. Sento la rabbia salire come un’onda.

«Lo so. Hanno sabotato il nostro aereo. Ci seguono da giorni. E non si fermeranno. Vogliono metterci a tacere. Per sempre.»

Veronika sgrana gli occhi. Skippy si stringe alla sua gamba, ora consapevole del rischio che abbiamo corso e che stiamo correndo.

L’anziano mi guarda con più attenzione. Annuisce.

«È la fazione del silenzio. Sono fanatici. Per loro… voi siete un rischio che non possono permettersi.»

Mi alzo. Il cuore mi batte forte. Le mani strette a pugno.

«E allora che facciamo? Come si ferma questa follia?»

L’anziano rimane in silenzio. Lo vedo riflettere. Poi si alza anche lui, lentamente.

«C’è solo una persona che può decidere il destino di questa storia. Il Maestro Venerabile. Vive a Gafsa. È l’ultimo discendente diretto di Ampsicora. Entrambe le fazioni gli devono rispetto. È l’unico che può proteggerli… e forse, proteggere anche voi.»

«Un… suo discendente?» sussurra Veronika.

«Sì, a differenza di quel che hanno sempre raccontato. Ampsicora ebbe una nuova progenie in Tunisia. L’ultimo discendente non ha mai lasciato Gafsa. È lui che custodisce ciò che nessun altro ha mai visto. Ma non vi aprirà le porte con leggerezza. Chi ha voluto sapere… ha dovuto rinunciare a molto. Perché sapere, figli miei… significa portare un peso. E non tutti sono pronti a portarlo.»

Stringo i pugni. Lo sguardo fermo.

«Lo troveremo. Qualsiasi cosa ci chieda… lo faremo. Ma questa storia va chiusa. Una volta per tutte.»

L’anziano cammina verso una vecchia cassapanca. La apre. Dentro, tra tessuti consumati, prende un oggetto avvolto in un panno. Lo scarta lentamente.

È un medaglione. Il simbolo è quello: un cerchio spezzato con una punta ricurva. Lo stesso che aveva Adnen. Lo stesso inciso sulla spilla di Skippy.

Ce lo porge. Nessuna parola.

Il nostro viaggio…

…non è ancora finito.

Ci sono verità che non si cercano. Ti scelgono loro ma chiederanno qualcosa in cambio… sempre.

l’anziano custode (foto Dall-E)

Decidere in silenzio

Esco dalla piccola casa con il cuore in tumulto e i pensieri che si accavallano come onde.

Cammino deciso verso l’auto, Veronika e Skippy mi seguono in silenzio. Non c’è bisogno di parole. Hanno capito. Lo vedo nei loro occhi.

Salgo in macchina senza dire nulla. Mi siedo accanto ad Ali, fisso il finestrino e mi lascio inghiottire dal paesaggio. Lui mi osserva senza dirmi nulla, poi mette in moto.

La campagna tunisina sembra più secca, più dura rispetto all’andata. Forse rispecchia il mio stato d’animo.

Ali e Meriem non fanno domande. L’auto si muove lenta, come se volesse darci tempo.

Poi il telefono vibra nella tasca. Lo tiro fuori. Sullo schermo compare il nome di Carlo.

Rispondo subito. La chiamata dura poco ma basta a rimettere in moto qualcosa dentro di me.

Rifletto un attimo, prendo un respiro profondo e mi volto verso Ali.

«Carlo ha trovato una soluzione. A Kasserine c’è ancora una delle sedi del vostro gruppo. Una vecchia base usata per le missioni umanitarie. C’è un uomo lì, un ex tecnico aeronautico. Si chiama Jonas Meijer. È olandese. Carlo mi ha detto che è preciso, silenzioso… ma se qualcosa si può fare, lui lo fa.»

Ali annuisce prima ancora che finisca.

«Conosco bene quel posto. Ci passo spesso e conosco Jonas. È uno che non parla ma agisce. Se Carlo ha detto di andare da lui, allora si può fare.»

Lo guardo, serio. «Voglio partire subito. Appena possibile.»

Ali non ci pensa due volte. «Allora vengo con te. Ma prendiamo il mio Xcub. Non ti lascio andare da solo e non puoi volare in sicurezza con il Cessna.»

Mi volto verso Veronika. Lei mi fissa, immobile.

Meriem, intuendo i nostri pensieri, ci dice con un mezzo sorriso:

«Tranquillo… loro resteranno con me. Faremo una vera serata tra donne.»

Il sole, fuori, sta già calando. Ma dentro… il fuoco non si è mai spento.

Ci sono momenti in cui non puoi aspettare il domani. Perché è adesso che si decide tutto.

in viaggio verso casa (foto Dall-E)

Preparativi

Il sole inizia la sua discesa quando rientriamo alla casa di Ali. Non perdiamo tempo: ognuno sa cosa fare. Io recupero il mio zaino e qualcosa da bere, mentre Ali apre le porte dell’hangar con un gesto lento, quasi cerimoniale. Lì dentro, sotto una luce calda e bassa, l’XCub sembra una creatura pronta a scattare.

Mi avvicino con rispetto. Non è il nostro Cessna e si vede subito. Questo è più alto da terra, con ruote anteriori molto grandi pronte a mordere la polvere. La fusoliera snella, le ali allungate come braccia tese al vento.

«È come passare da una station wagon… a un fuoristrada nervoso» mormoro tra me.

Ali sorride. «E vola come una gazzella se la sai trattare.»

Controlliamo insieme i flap, l’elica Hartzell, i livelli. Poi lui sale sulla pedana laterale e apre il portellone. L’interno è spartano ma moderno: pannelli digitali, sedili leggeri, tutto pensato per il bush flying. Mi passa le cuffie e mi fa segno di salire nel posto del pilota.

«Tocca a te. Io solo co-pilota oggi.»

Annuisco. Non mi tiro indietro. Non più e poi sarà divertente.

Nel frattempo, alle nostre spalle, le voci delle donne si intrecciano come fili di seta. Veronika e Skippy sono in veranda con Meriem, che si è avvicinata a lei con passo leggero.

«Stasera serata speciale» le dice con un sorriso. «Solo donne. Henné, musica, racconti. Una mia amica viene… ne ha sempre voglia.»

Veronika la guarda sorpresa. «Henné?»

«Sì. È un rito antico. Decoriamo le mani e i piedi. Parliamo. Cantiamo. Niente uomini, solo noi.»

Skippy emette un verso di approvazione, ha già deciso che le va benissimo.

Veronika annuisce, quasi emozionata. «Mi sembra perfetto. Dopo tutto questo… ci vuole proprio una serata tra donne.»

Meriem le stringe le dita tra le sue. «E ti farà bene. Il disegno non è solo decoro. È protezione.»

Ali mi fa cenno: è ora.

Saliamo a bordo. Il portellone si chiude con un clic metallico.

Il mondo fuori si fa silenzioso.

Dentro, il motore ci attende.

Fuori… la notte arriverà con nuove storie da scrivere.

Ci sono partenze che somigliano a un ritorno. Basta il rumore del motore… e tutto ricomincia.

casa di Ali e Meriem (foto Dall-E)

15 – Diario di Viaggio Tunisi

Tunisi

Usciti dall’aeroporto, Tunisi ci viene incontro come un’onda calda di suoni, polvere e contrasti. Dall’alto sembrava una distesa bianca e compatta, adesso invece ci avvolge in un disordine perfetto, fatto di clacson, venditori ambulanti, insegne consumate dal sole e vecchie Peugeot 205 che si incastrano nei vicoli come in un gigantesco puzzle che solo chi ci vive sa risolvere. L’aria ha l’odore del motore esausto, del pane cotto al bordo della strada e di qualcosa che non sappiamo riconoscere.

Il nostro tassista si chiama Nizar. Ha una barba curata, un braccialetto d’ambra al polso e un sorriso disarmante, di quelli che ti fanno pensare che puoi fidarti, anche se non sai bene perché. Conduce il taxi come se fosse un’estensione del suo corpo, evitando buche e carretti con la precisione di un ballerino. Parla un italiano strano ma pieno di vita, imparato in anni di contatti con i turisti. Ci ascolta, ci scruta dallo specchietto, risponde ad alcune nostre domande, poi scuote la testa e sorride.

«La medina non si spiega, si vive. È vecchia quanto il tempo… e a volte ti confonde apposta, per vedere chi sei.»

Sorride ancora, dalla radio una melodia malinconica, ci guarda un attimo e poi indica con la mano le strade attorno a noi.

«Qui tutto parla. Ma non con la bocca. Con gli odori, i colori… e le ombre.»

La città si infittisce. L’asfalto si sbriciola. Un venditore di fichi d’India urla in dialetto. Due ragazzini si rincorrono tra le file di bancarelle. Poi all’improvviso tutto rallenta. Il taxi si ferma davanti a una grande porta in pietra, con un arco a ferro di cavallo e due torrette smussate dal tempo.

«Bab el Bhar» dice Nizar, accennando un inchino con la testa. «La porta del mare. Da qui… si entra in un altro mondo.»

Scendiamo e lo ringraziamo per tutte le preziose informazioni che ci ha fornito. Il caldo sa di spezie, gas di scarico e pietra arroventata. Davanti a noi la medina si apre come un labirinto vivo.

La medina ci ha inghiottiti in un caos che sa di storia, odori e passi dimenticati

il nostro tassista tunisino (foto Dall-E)

Il respiro della medina

Superata Bab el Bhar la medina ci inghiotte come un respiro profondo. Le strade si stringono, i rumori si moltiplicano, l’aria cambia odore ogni due passi. Incenso, menta, cuoio, fritto. L’asfalto lascia il posto alle pietre lisce e irregolari, levigate da secoli di passi e storie. Camminiamo con Skippy stretta tra noi due per paura di perderla di vista, mentre cerchiamo di seguire il percorso tracciato sulla mappa, che dopo pochi minuti inizia già a sembrare inutile. Anche Google Maps, qui dentro, sembra essersi arreso.

Veronika guarda a sinistra, io a destra, entrambi alla ricerca dell’insegna che ci ha descritto Nizar: un’insegna scolorita, con lettere arabe e francesi, sopra una porta di legno azzurro. Ma ogni bottega qui ha un suo colore, una sua voce, una sua confusione. Lungo le pareti si rincorrono tappeti stesi, stoffe appese come bandiere e lanterne dai vetri colorati che riflettono frammenti di sole sulle pietre.

Un ragazzo passa correndo con un vassoio di tè alla menta in equilibrio su tre dita. Una donna anziana ci sorpassa con passo deciso, avvolta in un velo candido e con una busta piena di pane ancora caldo. Più avanti un artigiano batte il metallo con un ritmo ipnotico, mentre poco più in là un vecchio gira uno spiedo lentissimo con delle polpette fumanti. La medina vive, pulsa, respira. E noi ci lasciamo trascinare.

All’improvviso, un profumo irresistibile ci costringe a rallentare. Poco più avanti, sotto un tendone rattoppato, un uomo infarina velocemente delle ciambelle rotonde e le tuffa in un grande padellone sfrigolante. L’olio danza. Le ciambelle, dorate e gonfie, vengono scolate con maestria e ricoperte da una spolverata di zucchero e un tocco di miele. L’odore mi rapisce.

«Che dite, merenda?» chiedo guardando Veronika. Lei sorride. Skippy annuisce con foga, allungando il naso verso l’odore dolce e croccante. «Trois s’il vous plaît» dico al venditore con il mio pessimo francese, indicando con un cenno le ciambelle fumanti. Lui ci sorride sotto i baffi e ci passa un piattino di metallo con le tre ciambelle appena fatte.

«Bambalouni» dice intuendo che siamo italiani. «Tipico qui. Farina, acqua, sugar… Buono. Molto buono dolce Tunisia!» La lingua si arrampica tra le parole ma l’orgoglio è chiarissimo.

Ci scambiamo uno sguardo. Il primo morso è un’esplosione: croccante fuori, morbido e profumato dentro. Miele, zucchero, forse un accenno di limone. Camminiamo lentamente, assaporando ogni boccone, mentre le voci della medina ci guidano sempre più a fondo.

A volte, un morso dolce è l’unico modo per non perdersi

bancarella dei Bambalouni (foto Dall-E)

La bottega

La medina ci mette alla prova. Tra nomi di strade che cambiano ogni trenta metri, indicazioni confuse e vicoli che sembrano girare in tondo, passiamo più di un’ora e mezzo a cercare quell’insegna azzurra, descritta con tanta convinzione da Nizar. Chiediamo a due venditori, poi a un ragazzo che trasporta una cesta piena di datteri, ma nessuno sembra sapere di cosa stiamo parlando. O non ci capiscono. O non vogliono capire.

Quando stiamo per rinunciare è Veronika a notarlo. Un’insegna consumata dal sole, scritta in arabo e in francese, sopra una porta di legno semiaperta. Accanto, una teiera appesa e una pila di vecchi tappeti arrotolati.

Entriamo. L’interno è buio e polveroso ma accogliente in un modo difficile da spiegare. Ci sono vecchie lampade, piatti in ceramica, cornici antiche, specchi opachi, libri dalle copertine scolorite e un bastone da passeggio con l’impugnatura in avorio. Una donna anziana è seduta dietro un bancone di legno basso, forse una vecchia cassa. Sta sgranando dei semi e canticchia una melodia sottovoce. L’odore è forte, tostato, qualcosa tra il cumino e il coriandolo bruciato.

Ci guardiamo intorno, poi mi avvicino. «Salam aleikum… stiamo cercando…» esito un attimo «…Adnen. Sa dove possiamo trovarlo?» Lei solleva lo sguardo, un po’ confusa e non risponde. Si porta una mano all’orecchio, come a dire che non sente bene. Ripeto il nome, aggiungendo qualche dettaglio. Veronika prova con qualche parola in francese. Skippy si arrampica sul bordo del bancone e la osserva con occhi curiosi.

Alla fine la donna annuisce lentamente. Fa un gesto con la mano come a dire che è passato del tempo. Poi, con un misto di parole e gesti, ci fa capire che l’uomo è morto. Non ne siamo molto sorpresi, era quello che immaginavamo. «Allah yrahmou,» mormora, portandosi la mano al petto.

Ma è in quel momento, mentre il nome “Adnen” sembra fluttuare ancora nell’aria della bottega, che una figura si muove oltre le tende. Dai tappeti appesi emerge un uomo. Forse poco più giovane di me. Camicia sbottonata sul collo, sguardo stanco, capelli neri e corti. Ci osserva in silenzio.

Ma non con sospetto. Con qualcosa di più tagliente. Come se stesse valutando se siamo un pericolo… o solo una perdita di tempo.

A volte bisogna perdersi davvero per trovare ciò che non sapevi di cercare

il negozio che stavamo cercando (foto Dall-E)

Incontro

Ci avviciniamo con calma. «Lei conosce Adnen?» chiede Veronika. L’uomo rimane immobile, le braccia lungo i fianchi, lo sguardo sempre fisso su di noi, come se cercasse il motivo per cui dovremmo andarcene.

«Ci manda il professor Lissia, dalla Sardegna» dico, tenendo la voce bassa ma ferma. «Pensavamo di trovare Adnen. Siamo… siamo spiacenti per la sua scomparsa.»

Lui non reagisce. Né un cenno, né un grazie. Come se quelle parole si fossero fermate a mezz’aria, troppo leggere per smuoverlo. A quel punto Veronika prende il filo del discorso e prova a spiegare meglio. Parla in francese, con calma, cercando di mostrarsi gentile ma anche determinata. Lui abbassa lo sguardo un attimo, poi torna a fissarla.

Ci dice qualcosa in arabo, in un tono che è più secco che neutro. E poi aggiunge una frase che suona come un “andate via”.

Veronika insiste. Gli mostra un taccuino con alcuni appunti scritti a mano, le parole “Ordine”, “memoria”, “simbolo”. Niente. Lo sguardo del ragazzo si fa più duro.

Ripete quella frase in arabo, ancora e ancora, facendo un gesto chiaro con la mano verso l’uscita. Nessuna esitazione.

Veronika prova ancora. «Ti prego, è importante. Non siamo qui per fare danni, vogliamo solo capire…»

Ma non riesce nemmeno a finire la frase. Il ragazzo alza una mano, deciso. Un altro gesto. Più brusco. Non vuole ascoltare.

È in quel momento che Skippy si muove. Si slaccia lo zaino con un gesto sicuro e, senza dire nulla, ne tira fuori l’anello. Quello del professor Lissia. Lo tiene alto, dritto davanti a lui, come un piccolo trofeo silenzioso.

Il ragazzo si blocca. Abbassa lentamente lo sguardo verso la zampa tesa di Skippy. Fa un passo avanti. Poi un altro. Si china leggermente, socchiude gli occhi. Riconosce l’anello. Lo guarda come si guarda un oggetto che non ci si aspettava più di rivedere. Si osserva la mano dove porta un anello identico.

Si raddrizza e, per la prima volta da quando è uscito dai tappeti, il suo sguardo cambia. Non è più freddo. È teso. Allarmato. Ma non ostile.

Porta un dito alle labbra, come a chiederci silenzio. Poi si gira e scosta i tappeti appesi. Ci fa cenno di entrare nel retrobottega.

Senza dire una parola, lo seguiamo.

A volte non servono parole. Basta un gesto giusto nel momento giusto per aprire una porta chiusa

l’anziana signora (foto Dall-E)

Il peso delle storie

Il retrobottega è piccolo e in penombra ma ordinato. Un tappeto steso a terra, scaffali colmi di oggetti avvolti nella stoffa, una teiera in metallo brunito poggiata su un fornellino a gas. Il ragazzo chiude il passaggio dietro di noi, controlla che nessuno ci abbia seguiti, poi si volta.

«Scusate… per prima» dice, con un italiano fluido che non ci aspettavamo. «Non mi aspettavo che qualcuno si presentasse… così. Con quell’anello.»

Ci guarda entrambi. Poi si rivolge a Skippy, accennando un mezzo sorriso. «Il professor Lissia… era un uomo generoso. L’ho conosciuto grazie a mio padre. Collaboravano. Condividevano storie. O meglio… pezzi di storie che nessuno aveva mai osato mettere insieme.»

Si muove verso la teiera, accende il fuoco, aggiunge foglie di menta fresche e zucchero con gesti rapidi e precisi. Il profumo del tè alla menta riempie lentamente la stanza. Ce lo porge in piccoli bicchieri decorati. Accettiamo senza dire nulla.

«Allora…» sospira, sedendosi su uno sgabello di legno. «Cosa volete sapere esattamente?»

Gli spieghiamo tutto. La Sardegna. I simboli. Il frammento. Le parole incise. Lui ascolta, teso, senza interrompere. Quando finiamo, resta un attimo in silenzio. Poi si irrigidisce. Le dita tamburellano sul vetro del bicchiere.

«Non dovreste essere qui» dice alla fine, con lo sguardo basso. «Ci sono persone che non vogliono che queste storie vengano a galla.»

Sembra sul punto di chiudersi di nuovo. Poi butta fuori l’aria come se stesse scrollandosi di dosso qualcosa di pesante. Si passa una mano sulla nuca e parla.

«Mio padre era ossessionato da questa storia. Parlava spesso di un gruppo… di uomini arrivati dalla Sardegna molto tempo fa. Diceva che custodivano un segreto, qualcosa di troppo importante per essere raccontato a chiunque. Ma qualcosa è andato storto.»

Beve un sorso di tè. Poi continua.

«All’inizio erano voci. Poi iniziarono le pressioni. Visite. Persone che venivano a cercarlo senza presentarsi. Poi sparizioni. Libri scomparsi dalla biblioteca. Contatti che smettevano di rispondere. I suoi colleghi cominciarono ad avere paura. Anche il professor Lissia fu minacciato. Lui però non si è mai fermato. Ha fatto credere di aver smesso di cercare questa verità ma la notte, a casa, studiava reperti, lettere, testi antichi cercando di capire.»

Ci guarda. Stavolta con occhi diversi. Come se cercasse di capire se siamo pronti a sentire il resto.

A volte i segreti più antichi sopravvivono solo grazie a chi ha il coraggio di continuare a cercarli

il retrobottega (foto Dall-E)

Il Cerchio

«Mio padre… non parlava mai a voce alta dell’Ordine. Lo chiamava il cerchio. Diceva che non era fatto di simboli o gerarchie. Era fatto di silenzi. Di legami invisibili. Di doveri tramandati da generazioni senza bisogno di firme.»

Si alza, prende da uno scaffale una scatola di metallo, la posa sul tappeto tra noi. Ma non la apre.

«Aveva capito che questo Ordine non era nato qui ma era venuto dalla Sardegna. Da molto lontano, molto indietro. Gente che si era spinta fino a Cartagine, in fuga da qualcosa, poi ancora più a sud, nascondendo il loro segreto o forse cercando di proteggerlo. Nessuno sa cosa fosse esattamente.»

Abbassa la voce. «Mio padre credeva che avessero portato con loro un sapere antico, capace di mettere in discussione tutto. Religioni. Storia. Origini. Era convinto che la chiave fosse in un codice, forse in una lingua dimenticata. Ma ogni volta che si avvicinava a qualcosa di concreto… qualcosa o qualcuno lo respingeva.»

Fa una pausa. Ci guarda. Poi, con voce più bassa: «Lui e il professor Lissia erano convinti che l’Ordine esiste ancora. Che alcuni di loro si nascondono qui in Tunisia tra gli artigiani, gli anziani, nei villaggi dove la memoria orale passa solo di bocca in bocca. Persone senza nome che si riconoscono con gesti e strani simboli.»

Si alza di nuovo. Questa volta apre lentamente la scatola. Dentro, fogli piegati, un rosario in legno, due fotografie sbiadite e una stoffa ingiallita con un simbolo tracciato a mano.

«L’ultima cosa che mi disse prima di morire fu: “Se qualcuno un giorno verrà con l’anello… portalo da lui.”»

«Chi?» chiede Veronika, inclinando appena la testa.

«Un uomo, un ex falegname ormai molto anziano. Vive lontano, quasi al confine con il nulla ma lui… lui faceva parte dell’Ordine.»

Ci sono segreti che non si scrivono mai ma che si tramandano con uno sguardo, una stoffa, un nome sussurrato nel tempo

la piccola scatola (foto Dall-E)

Il Segno

Il ragazzo richiude lentamente la scatola, come se quel gesto servisse a rimettere ordine anche nei pensieri. Poi prende un foglio di carta ingiallito da una pila accanto a sé, si siede e inizia a scrivere con una calligrafia nervosa ma precisa. Nessuna spiegazione. Solo qualche parola in arabo, un nome e una località.

Quando finisce, soffia leggermente sulla carta e ce la porge senza dire nulla. Sul foglio: un nome proprio e una direzione. Kairouan. Un villaggio poco fuori città, isolato. Nessun indirizzo esatto. Solo un riferimento a una bottega di falegnameria un simbolo strano e la frase: «chiedete di lui».

«Mio padre diceva che era l’ultimo di loro ancora disposto a parlare» sussurra. «Non fatelo per curiosità. Fatelo solo se siete pronti a non tornare più indietro.»

Lo guardiamo in silenzio. Veronika annuisce. Io infilo il foglio nel taccuino e chiudo la cerniera. Skippy lo osserva ancora, come se volesse dire qualcosa, ma stavolta resta ferma, seria. C’è qualcosa in quel ragazzo che non dimenticheremo tanto presto.

Poi, prima di uscire, lui si china di nuovo verso la scatola. Fruga per qualche secondo, finché le dita non trovano ciò che cerca. Quando si rialza, ha in mano un oggetto piccolo e scuro. Lo tiene tra pollice e indice, come si fa con le cose fragili. È una fibula in rame, antica, ossidata. La forma è strana: un cerchio spezzato, con una punta ricurva.

Si piega verso Skippy e le porge la fibula senza dire nulla. Lei la prende con entrambe le zampette, con quella solennità naturale che solo lei sa avere.

«Mio padre diceva che questo simbolo serviva per riconoscersi. Se l’anziano falegname è ancora quello di un tempo… vi accoglierà. Ma non fate mai il nome di mio padre. Neanche per sbaglio. Non voglio altri problemi. Noi non ci siamo mai visti e… mai ci rivedremo.»

Skippy lo fissa per un lungo istante, poi infila la fibula nello zaino e lo richiude con un piccolo clic.

Quando usciamo dal retrobottega, la luce del pomeriggio ci acceca per un attimo. La medina è ancora lì, viva, piena di voci, colori e profumi. Ma ora ci sembra diversa. Come se qualcosa, nel frattempo, fosse cambiato.

Ogni viaggio cambia qualcosa fuori, ma certi incontri cambiano ciò che portiamo dentro

la piccola Fibula (spilla) in rame (foto Dall-E)

Sconosciuto

Camminiamo in silenzio. Abbiamo il foglio. Un nome. Una meta. E uno scopo.

Veronika e Skippy camminano leggere. Per un attimo sembrano entrambe parte di un gioco affascinante, complicato ma comunque un gioco.

Io, invece, sento i primi brividi. Come una corrente fredda che mi passa tra le scapole. Non so spiegare perché ma il mio sesto senso mi richiama all’attenzione.

Le voci attorno a noi si confondono in un rumore continuo, ritmato, quasi ipnotico. Il cuore della medina batte ancora forte. Veronika si ferma davanti a una bancarella di ceramiche dipinte a mano, attratta dai colori brillanti e dalle forme imperfette. Skippy, come ipnotizzata, infila il musetto in un cesto di stoffe ricamate, sfiorandole come se cercasse qualcosa.

Io sono leggermente più indietro, le osservo invidiando la loro spensieratezza. Ci sono molte persone in questi vicoli stretti, turisti, gente del posto, mercanti ed è in quell’istante che sento una mano afferrarmi il braccio.

Non forte. Ma precisa. Come se sapesse esattamente dove mettere le dita per farmi restare immobile.

Mi volto di scatto. Davanti a me c’è un uomo. Tunisino. Età indefinita. Un tagelmust chiaro gli avvolge il volto lasciando scoperti solo gli occhi, due fenditure scure incise dal sole e dal tempo. Indossa una tunica che odora di polvere e strada. Ma è lo sguardo che mi blocca. Non ha fretta. Non ha rabbia. Solo una calma spaventosa. Come se sapesse già tutto.

Si avvicina al mio orecchio. E in un italiano spezzato, lento, quasi sussurrato dice: «È meglio… se lasciate stare.»

Poi mi lascia. Si gira e sparisce nella folla come se non fosse mai esistito. Un passo dopo l’altro. Né veloce né lento. Come il vento che cambia direzione senza motivo.

Resto fermo. Immobile. Il respiro corto. Provo a cercarlo con lo sguardo ma tutto si è già confuso. Stoffe appese, bancarelle, odore di spezie e zucchero bruciato. Niente. Come se la medina lo avesse risucchiato.

Skippy mi guarda, inclinando la testa. Ha capito che è successo qualcosa.

In quel momento Veronika si avvicina con una piccola tazza di ceramica in mano, sorridendo. «Guarda che bella, sembra fatta a ma…» Poi si blocca, notando il mio sguardo.

«Tutto bene?»

Annuisco. «Sì… sì. Tutto a posto.»

Anche se non lo è. E non lo sarà per un bel po’.

Ci sono momenti che passano in silenzio, ma restano addosso come una polvere che non se ne va

l’uomo al mercato (foto Dall-E)

Linea Rossa

Il ristorante di cui ci ha parlato Nizar non ha insegne. Solo un vecchio portone in legno intagliato, con i battenti decorati da borchie nere e un piccolo simbolo inciso a mano, qualcosa che sembra più un segno antico che un nome. Nizar ci aveva detto: “Lì mangerete uno dei couscous più veri di tutta Tunisi”. Ma non ci aspettavamo di trovarlo nascosto in un vicolo così stretto da far passare appena due persone.

Appena entriamo, la luce si abbassa e l’aria cambia. Dentro è fresco, silenzioso, con muri bianchi e archi in pietra che sembrano sorreggere il tempo. Le pareti sono coperte da piastrelle blu e turchesi, i tavoli bassi vestiti di lino grezzo. In un angolo, una donna taglia erbe aromatiche, mentre un ragazzo dispone datteri su un vassoio d’argento con movimenti attenti, quasi rituali.

Ci sediamo vicino a una finestra con grate in ferro battuto. Ordiniamo couscous alle verdure, che ci arriva con una piccola ciotola di harissa. Il cameriere ci guarda un attimo, accenna un sorriso e dice solo: «C’est très fort.»

Il profumo è intenso, pieno, avvolgente. Cumino, coriandolo, verdure stufate e olio caldo. Intingiamo il pane nella salsa rossa, e l’odore pizzica già solo a respirarlo. È tutto buonissimo. Ma io non riesco a stare tranquillo.

«Vero…»

Lei alza lo sguardo. Lo conosce. Sa già che sto per dire qualcosa di pesante.

«Ci stiamo infilando in qualcosa che forse non riusciamo a controllare.»

Appoggia la forchetta. Silenziosa. Presente.

«Il tipo al museo di Cabras… lo sguardo che ci ha lanciato. Non guardava i reperti, guardava noi. E poi, a Cagliari… quando stavamo facendo i check pre-volo, c’era qualcuno dietro la recinzione. Stava fermo. Forse ci fotografava. Non te l’ho detto per non allarmarti ma prima… prima un uomo, al mercato…»

Faccio una pausa. Un respiro più lungo. «…mi ha preso per un braccio. E mi ha detto chiaramente che è meglio se lasciamo perdere.»

Un silenzio spesso si poggia tra noi. Il cucchiaino nel bicchiere vibra appena.

«Comincio a pensare che non siamo più al sicuro. Che qualcuno… ci stia seguendo.»

Veronika prende un sorso d’acqua. Poi parla. La voce calma, ma dentro un’onda.

«E quindi? Vuoi tornare indietro? Chiudere tutto?»

«Non lo so. Voglio solo capire se ha senso rischiare.»

«Per scoprire la verità? Sì, ha senso. Se esiste un Ordine, se questa storia è vera… allora c’è qualcosa che qualcuno non vuole farci sapere. E se ci fermiamo ora, daremo loro ragione.»

«Per scoprire cosa, però? Una verità sepolta da millenni? A che serve, se può metterci in pericolo? E se succede qualcosa a te? A Skippy? Nessuno ci paga per questo. Nessuno ci protegge.»

Skippy smette di masticare. Ci guarda. Prima me. Poi Veronika. Le orecchie piegate, ma lo sguardo acceso. Combattuta. Ma dentro… propende per andare avanti. Come sempre.

Veronika scuote la testa. «Siamo arrivati fin qui. Non per gioco. E lo sai anche tu.»

Sbuffo, infastidito. Poi abbasso lo sguardo sul piatto. Skippy, intanto, sta tirando fuori l’anello di Lissia dallo zainetto. Lo tiene tra le zampe. In silenzio.

Annuisco. Ma dentro… un turbine. Rabbia, paura, tensione. E qualcosa di più sottile. Un confine.

Va bene, penso. Ma alla prima crepa vera… tiro il freno. Lo farò io. E sarà la fine di questa storia.

Veronika intuisce. Non dice nulla. Ma il modo in cui mi prende la mano sotto il tavolo mi dice che ha capito.

Ogni verità nascosta ha un prezzo. La domanda è: siamo disposti a pagarlo?

dentro il ristorante (foto Dall-E)

Oltre la soglia

Usciti dal ristorante, la sera ci accoglie con un cielo color rame e l’aria più fresca che respira tra i vicoli stretti. Camminiamo lenti, senza fretta, in cerca del nostro hotel, lasciandoci guidare dai suoni ovattati e dalle luci calde che filtrano dalle finestre. La medina si svuota piano piano, ma non smette mai davvero di vivere. Alcuni negozi restano aperti, le lanterne accese ondeggiano lievemente al passaggio del vento.

Passiamo davanti a un portale monumentale. È la Moschea Zitouna, la grande moschea attorno alla quale è cresciuta l’intera medina. La sua cupola svetta oltre i tetti bassi, custodita da colonne antiche e silenzi profondi. Veronika si ferma un attimo a guardarla, mentre Skippy, accoccolata tra noi, si gira indietro come per imprimersi ogni dettaglio.

«Qui tutto è costruito attorno a qualcosa di sacro,» mormora lei. «E noi giriamo in cerchio, come se cercassimo un centro che ci sfugge.»

La osservo in silenzio. Ho mille pensieri che mi bloccano le parole. Le prendo la mano. E insieme riprendiamo a camminare.

Troviamo il nostro albergo, proprio come ci ha indicato Nizar, in una piccola piazzetta immersa nel cuore della medina. Una minuscola struttura riadattata, con un cortile interno, tende leggere alle finestre e il profumo persistente del gelsomino nell’aria.

Mentre mi tolgo le scarpe, Veronika si siede sul letto e si gira verso di me.

«Quindi?» dice, senza giri di parole. «Andiamo a incontrare questo anziano falegname o no?»

Mi sembra quasi una prova. Come se stesse testando la mia fede in questa ricerca.

Sbuffo. «Ovviamente. Che domande.» Ma la voce mi esce più secca del previsto.

Lei scuote la testa con un sorriso appena accennato. «Non ti preoccupare. Non succederà niente. E se succede… lo affrontiamo.»

Skippy salta sul letto, si stende accanto a lei, una zampa sul cuscino e gli occhi già mezzi chiusi. Io rimango affacciato alla piccola finestra della stanza, che dà su un vialetto stretto ma ancora animato, anche a quest’ora.

Veronika si addormenta quasi subito. Skippy la segue poco dopo, rannicchiata tra le lenzuola. Il loro respiro è lento. Calmo.

Io invece resto sveglio.

Gli occhi aperti nel buio.

Il pensiero torna a quell’uomo al mercato. A quello dietro la recinzione di Cagliari. A quello sguardo fisso al museo di Cabras.

Mi chiedo se ci stiano solo osservando.
O se ci stiano aspettando.

Scorro la mappa sul tablet, ingrandendo la zona intorno a Kairouan.
Niente. Nessuna pista visibile, nessun aeroporto. Solo sabbia e strade dritte che si perdono nel vuoto.

Sospetto che atterrare lì non sarà semplice.
E forse… nemmeno sicuro.

C’è solo una persona che può aiutarmi.

A volte non è la meta a spaventare, ma le ombre che ci osservano lungo il cammino

pensieri alla finestra (foto Dall-E)

14 – Diario di Viaggio Cagliari

Cagliari

La sera scivola lenta tra i vicoli di Cagliari, con il cielo che conserva ancora un riflesso dorato mentre l’aria inizia a farsi più fresca. Abbiamo scelto una trattoria fuori dal centro turistico, in una piazza poco illuminata, dove il tempo sembra dilatarsi. Pochi tavoli, luci calde e tovaglie consumate dal tempo: tutto suggerisce che qui la gente viene per mangiare davvero, non per fare fotografie.

L’oste ci accoglie con uno sguardo rapido e profondo, il tipo di sguardo che ti inquadra in un istante. Non dice subito niente, ci lascia sistemare, ci porta l’acqua e un menù scritto a mano, poi torna con un sorriso di quelli veri, senza mestiere. Si ferma accanto al tavolo, osserva Skippy che, curiosa ma composta, si sistema sulla sedia tra me e Veronika.

«Non siete turisti» dice all’improvviso, quasi tra sé e sé.

Ci scambiamo un’occhiata. Veronika sorride. «No, in effetti. Stiamo viaggiando ma non nel senso classico.»

L’oste annuisce, si appoggia allo schienale di una sedia vuota e poi si siede. Il locale è quasi vuoto e il profumo che viene dalla cucina è quello di qualcosa che cuoce piano. «Lo si vede dallo sguardo. I turisti guardano. I viaggiatori cercano. Voi… osservate come chi ha tempo, come chi è in ascolto.»

Skippy inclina la testa, forse lusingata anche lei.

«Cagliari non si mostra subito» continua lui. «È una città che ha vissuto con il vento in faccia e la schiena contro la roccia. I suoi quartieri sono salite e discese, come la sua storia. È stata punica, romana, pisana, spagnola… ma sempre sarda. Non ha mai smesso di esserlo.»

Prende una caraffa e ci versa del vino senza chiedere. Poi aggiunge, abbassando un po’ la voce: «Qui il tempo ha imparato a fare silenzio. Chi resta, spesso ha scelto di farlo. Chi va, se ne porta dietro il sapore. E chi arriva, se è come voi, capisce che le storie vere non si raccontano in piazza… ma tra un boccone e l’altro.»

Veronika si sporge, affascinata. «E quali storie vale la pena ascoltare, qui a Cagliari?»

Lui ci guarda un attimo, poi si volta verso la cucina e grida: «Due piatti di malloreddus alla campidanese. E una terza porzione per la mascotte.» La cuoca, invisibile, risponde con un “sì” cantato.

Poi si rimette comodo, si strofina le mani e abbassa un po’ la voce, come se stesse per raccontare qualcosa di importante. «Qui a Cagliari ci sono strade che poggiano sopra altre strade. Case costruite sopra grotte. Cripte sotto chiese. Non so se l’avete vista ma sotto il quartiere di Castello c’è un tunnel che un tempo usavano i frati cappuccini. Serviva per portare i corpi dei poveri al cimitero, senza che nessuno li vedesse. Lì sotto c’è ancora una cappella scavata nella roccia, con una scritta che dice: Ricordati che anche tu sarai polvere.»

Skippy sgrana gli occhi. Veronika si appoggia allo schienale in silenzio.

«La gente vive qui sopra e non lo sa nemmeno. Ma le storie di questa città non sono tutte nei libri. Alcune… si respirano nei muri. Basta restare in silenzio e ascoltare.»

Ci guardiamo, tutti e tre. Nessuno dice niente per un istante. Poi l’oste ci osserva uno a uno e conclude:

«Voi… state cercando qualcosa, vero? Non so cosa sia ma qualunque cosa sia… la troverete. Basta che non vi dimentichiate da dove siete partiti.»

Poi sorride. «Ora mangiate. E ricordate: qui, chi sa ascoltare, trova più risposte che domande.»

Qui, chi sa ascoltare, trova più risposte che domande.

Malloreddus alla campidanese (foto Dall-E)

Mattino e Parole di Sardegna

La notte è passata irrequieta. Veronika si è girata e rigirata tra le lenzuola più volte, mormorando parole a metà in un sonno agitato e Skippy, accoccolata accanto a lei, si muoveva a scatti come se stesse inseguendo qualcosa in sogno. A un certo punto si è alzata, ha camminato per la stanza sbuffando e poi si è riaccomodata al mio fianco, posandomi la testa sul braccio come se volesse dirmi che era stanca persino di dormire.

Io? Ho chiuso occhio a tratti. Di sicuro non abbastanza. Ho sonno, penso mentre entriamo in una piccola caffetteria appena fuori dal centro, scelta a caso seguendo l’aroma che usciva dalla porta semiaperta. Dentro ci sono solo un paio di clienti abituali e una barista con lo sguardo sveglio di chi ha già vissuto una giornata intera prima delle otto del mattino. Ci avviciniamo al bancone e lei ci scruta con un sorriso complice.

«Due cappuccini?» chiede.

«Per loro» rispondo indicando Veronika e Skippy. «Per me… due caffè americani. L’uno dietro l’altro. Nottata lunga.»

«Uhm…» la barista ci osserva. «Notte lunga o notte pensante?»

Veronika sorride. «Entrambe.»

La donna annuisce senza aggiungere altro. Prepara con calma, in silenzio. Quando ci serve le tazze, appoggia anche un piattino con delle seada tagliata a metà. «Sono avanzata da ieri ma hanno dormito meglio di voi, sicuro.»

Ci accomodiamo a un tavolino vicino alla vetrina. Fuori la città si sta svegliando ma non ha fretta. La luce è limpida, con quel tono gentile che solo certe mattine mediterranee riescono ad avere. Skippy, ancora un po’ frastornata dal sogno notturno, si arrampica sulla sedia accanto a Veronika, si sistema composta e afferra il cucchiaino con aria studiata. Non dice nulla ma osserva il mondo passare come se stesse aspettando che qualcosa si sveli.

Dopo qualche minuto, la barista si avvicina di nuovo, appoggiando una zuccheriera con calma. «Voi non siete di qui. Ma non siete nemmeno turisti. Si vede da come vi muovete.»

«L’ha detto anche l’oste ieri sera» commento, incuriosito.

Lei sorride. «Noi sardi lo capiamo. Abbiamo vissuto per secoli tra chi arrivava e chi partiva. E chi resta, impara a leggere gli occhi.»

Veronika si sporge un po’ in avanti. «E cosa vede nei nostri?»

«Vedo gente in viaggio ma non solo per vedere cose nuove. State cercando qualcosa, anche se magari ancora non sapete cosa.»

Ci fermiamo un attimo. È la seconda volta in meno di dodici ore che qualcuno ci legge dentro così, senza bisogno di sapere nulla.

La barista si siede accanto a noi, poggiando il gomito sul tavolo. «La Sardegna è strana» dice. «È piena di verità che non vengono raccontate e di storie che la gente ha paura di dire. Abbiamo paesi che esistono da tremila anni e nessuno sa cosa c’è sotto le loro fondamenta. Gente che parla lingue antiche e non lo sa. Territori che sembrano deserti ma nascondono più vita di una metropoli.»

Poi si ferma, prende una bustina di zucchero e la fa ruotare tra le dita. «Qui ogni verità è nascosta dentro il silenzio. Ma non è un silenzio vuoto. È un silenzio che parla. Solo che bisogna restare abbastanza fermi da sentirlo.»

Veronika annuisce, colpita. Skippy, come sempre, sembra capire. Io finisco il secondo caffè con un sospiro più lungo del previsto.

«Grazie» dico alla fine, mentre ci alziamo. «Per il caffè. E per tutto il resto.»

«Buona fortuna, viaggiatori» risponde lei. «Ma ricordate: se state cercando qualcosa che non si vede è perché non vuole farsi trovare. E se un giorno lo farà… vi chiederà di cambiare qualcosa dentro di voi.»

Qui ogni verità è nascosta dentro il silenzio. Ma non è un silenzio vuoto. È un silenzio che parla.

Cagliari (foto  viaggi.corriere.it)

Nora

Il viaggio da Cagliari a Nora scorre in silenzio. Sto ancora cercando di far girare a pieno regime il cervello, avvolto nella stanchezza di una notte insonne. La strada segue la costa, il mare si allunga alla nostra sinistra come un nastro d’argento frastagliato di luce. Il vento trasporta l’odore del sale e della macchia mediterranea, un profumo che sa di tempo e di storie sospese.

Arrivati al Centro di documentazione archeologica di Nora, il cortile è deserto. Il piccolo edificio dalle pareti chiare sembra quasi assopito sotto il sole ma, dentro, il suono delle voci e il rimbombo leggero dei passi ci accolgono con il respiro di un luogo vissuto.

Ci avviciniamo alla reception. Una donna anziana, con i capelli corti e ordinati, ci osserva con aria pratica da dietro il bancone. È una di quelle persone che ha visto passare centinaia di visitatori e che sa distinguere con un’occhiata chi è davvero interessato e chi è solo di passaggio.

Veronika si schiarisce la voce. «Buongiorno, cercavamo il professor Lissia.»

Un attimo di esitazione. La donna stringe le labbra, lo sguardo si fa più attento. «Lissia?» ripete, come se il nome le suonasse familiare ma al tempo stesso fuori posto.

«Sì» intervengo. «Ci ha mandato la direttrice del museo di Cabras. Dobbiamo parlargli di una ricerca.»

La donna sospira piano e si sistema gli occhiali. «Ah… il professore. Sì, certo. È in pensione da un po’ ma continua a venire sempre qui. Ora che ci penso… è qualche giorno che non lo vedo.»

Si volta verso un collega poco distante, un uomo robusto, sulla cinquantina, con una camicia a quadri e i baffi folti. «Efisio, hai visto per caso il professore in questi giorni?»

Lui si ferma un attimo, ci guarda e poi scuote lentamente la testa, senza dire una parola.

Veronika inclina la testa. «Sa quando torna? O dove possiamo trovarlo?»

La donna si irrigidisce appena, poi risponde con calma: «Non lo so. Di solito è abbastanza metodico, sì, ma non ci ha mai detto se e quando sarebbe venuto.»

Il cuore mi scivola in gola. Sento Veronika trattenere il fiato accanto a me. Skippy, seduta sulla mia spalla destra, solleva le orecchie e osserva la donna con attenzione.

«Non avete provato a cercarlo?» insiste Veronika, la voce tesa.

La donna si irrigidisce visibilmente. «No» risponde con un tono che questa volta ha una sfumatura secca. «Come le ho detto è in pensione. Non lavora più qui. Non è tenuto a dirci dove va e noi non siamo tenuti a saperlo.» Fa una breve pausa. «Magari ha solo deciso di prendersi qualche giorno. Non sarebbe la prima volta.»

Il silenzio che cala subito dopo non è di quelli pieni di preoccupazione. È un silenzio che pesa per un altro motivo, come quando si nomina una persona che ha lasciato una traccia troppo lunga nel posto sbagliato.

Veronika stringe le mani a pugno. Il pensiero è chiaro: e se fosse successo qualcosa? E se fossimo arrivati troppo tardi?

Non diciamo nulla. Solo un attimo di vuoto. Usciamo nel piazzale, il sole ci investe in pieno ma non scalda. Veronika estrae il telefono con un gesto rapido e seleziona il numero di Gavina.

Mentre aspettiamo che risponda sento la tensione crescere dentro di me. Qualunque fosse la traccia che stiamo seguendo… qualcuno o qualcosa, sembra volerla cancellare.

Qualcuno o qualcosa, sembra volerla cancellare.

Parco Archeologico di Nora (foto lastatalenews.unimi.it)

Attesa a Pula

Veronika cammina avanti e indietro nel piazzale assolato, con il telefono all’orecchio e lo sguardo basso. La voce di Gavina, dall’altra parte, è ferma ma prudente. Le parole arrivano a tratti: “Non ne so molto… lasciami fare un paio di chiamate… vi faccio sapere.” Poi il silenzio.

Quando Veronika chiude la chiamata ha lo sguardo teso. «Ha detto che proverà a informarsi, che ci richiamerà appena ha notizie certe.»

Annuisco, cercando di alleggerire la tensione. «Allora perché non facciamo due passi? Magari scendiamo fino a Pula. Ci sediamo, beviamo qualcosa… io ho ancora bisogno di caffeina. E magari anche di pensieri meno pesanti.»

Veronika annuisce. Skippy fa un piccolo salto giù dalla mia spalla e ci segue camminando al nostro fianco, con la coda che si muove piano, quasi in sintonia col nostro stato d’animo.

Pula ci accoglie con il suo ritmo lento e le strade ordinate, costeggiate da basse costruzioni color pastello. Sembra un paese dove il tempo si è fermato un attimo prima di diventare fretta. Ci fermiamo in una piazza tranquilla, scegliamo un tavolino all’ombra di un ficus e ordiniamo due caffè e un succo di frutta per Skippy, che si siede composta con le zampe incrociate.

Mentre aspetto il mio caffè, lo sguardo mi cade su un piccolo pannello turistico accanto alla fontana della piazza. Mi alzo, incuriosito, e leggo: “Secondo alcuni studi sotto l’attuale centro abitato di Pula si troverebbero ancora i resti sommersi di un’antica necropoli punica non ancora del tutto esplorata.” Alzo lo sguardo verso la cittadina ordinata e silenziosa e mi viene da pensare: quanti segreti possono restare nascosti semplicemente sotto le scarpe di chi non sa che ci sta camminando sopra?

Torno al tavolo. Il caffè è arrivato, lo sorseggio lentamente ma il gusto non ha il tempo di lasciare traccia.

Il telefono di Veronika vibra sul tavolo. Gavina.

Veronika risponde subito con una voce tesa. Dall’altra parte la voce di Gavina si è fatta più calma. Finalmente una risposta. «L’hanno trovato. Il professor Lissia è all’ospedale di Cagliari. È stato male ma ora sta meglio. È vigile, lucido. La direttrice gli ha parlato di voi. Vi sta aspettando.»

Veronika mi guarda, stavolta con un’ombra di sollievo. Skippy fa un piccolo battito di mani silenzioso, poi si rimette seria come se capisse che non è ancora il momento di festeggiare.

Non diciamo nulla per qualche secondo. Qualcosa si è sbloccato. Non abbiamo ancora capito dove stiamo andando… ma almeno non siamo più fermi.

Bevo l’ultimo sorso di caffè. È diventato freddo ma in questo momento va bene anche così.

Quanti segreti possono restare nascosti semplicemente sotto le scarpe di chi non sa che ci sta camminando sopra?

Pula (foto pulasardegna.it)

L’incontro con il professore

L’ospedale di Cagliari ha quell’odore che mescola disinfettante e attesa. Cerchiamo il reparto indicato da Gavina e all’ingresso chiediamo della stanza del professor Lissia. Un’infermiera ci accompagna lungo un corridoio silenzioso, dove la luce entra obliqua dalle finestre, accarezzando i pavimenti come a rallentare ogni passo. Camminiamo in silenzio. Veronika tiene Skippy stretta a sé, come se temesse che qualcosa potesse dissolversi al primo rumore.

«Pochi minuti» ci dice l’infermiera prima di lasciarci davanti alla porta.

La stanza è semplice, con le pareti chiare e un’unica finestra aperta sulla luce del tardo pomeriggio. Il professor Lissia è seduto con la schiena leggermente sollevata. Magro, il volto scavato dal tempo e dalla malattia ma gli occhi… gli occhi sono vigili, profondi, quasi brillanti.

«Allora… siete voi» mormora e nella voce c’è più ironia che debolezza.

«Buongiorno, Professore» risponde Veronika. «E’ un piacere conoscerla di persona. Ci manda… la direttrice del museo di Cabras. Ci hanno detto che poteva aiutarci.»

Lissia chiude per un istante gli occhi, come se stesse cercando un punto da cui iniziare. Poi li riapre e ci guarda, uno a uno. «Ho sperato per anni che qualcuno si facesse avanti. Che qualcuno portasse… un tassello, un frammento. Anche solo una nuova domanda. Ma il silenzio è durato troppo a lungo.»

Si interrompe, il respiro lento ma stabile. «I Giganti… erano veri. Non simboli, non statue rituali. Veri. Erano parte di qualcosa che oggi abbiamo paura perfino di immaginare. L’ho sempre saputo ma dire una cosa simile ha un costo. Un prezzo che si paga con l’emarginazione, con le porte che si chiudono… con le carriere che si spengono. Io non sono mai riuscito, mio malgrado, a dimostrarlo con la prova finale.»

Non lo interrompiamo. Capiamo entrambi che ogni parola ha un peso.

«Ampsicora…» dice poi, lasciando il nome nell’aria come se stesse evocando un fantasma. «Non è morto dove dicono. Non si è tolto la vita. Ne sono convinto da decenni. Aveva una rete… nascosta, ramificata, determinata. Un ordine segreto e non parlo di leggende o folklore: parlo di nomi, lettere, simboli. Nella mia carriera ho trovato più volte frammenti che sembravano fuori contesto. Frasi cifrate, mappe incomplete, nomi antichi celati dietro parole nuove. Segni che raccontavano di una fuga… e di un sapere che non doveva essere perduto.»

Abbassa la voce, ci fa cenno di avvicinarci. «Quando sono stati sconfitti, per non far cadere questo sapere nelle mani romane che lo avrebbero sicuramente distrutto lo hanno portato lontano. In Tunisia. Non so dove esattamente, né chi li abbia protetti dopo ma c’è chi non ha mai voluto che questa storia venisse alla luce. Non si può dire chi… ma erano in molti. E molto potenti. Non solo qui, non solo in Italia. Persone con voce nelle accademie, nei fondi di ricerca, nelle pubblicazioni. Gente che sorveglia e cancella.»

Si ferma un istante, il respiro più affannoso. Poi prosegue, più piano. «Una verità sui Giganti, se davvero confermata… sconvolgerebbe tutto. La storia, la fede, le fondamenta di ciò in cui crediamo. Ci sono forze che da secoli impediscono che emerga. Non posso fare nomi ma… non servono. Voi avete già capito.»

Fa una pausa, poi aggiunge, con un filo di voce: «Una volta ci sono arrivato vicino. Forse troppo. Avevo in mano qualcosa che avrebbe potuto cambiare tutto. Ma non ero pronto o, forse, ero troppo legato a tutto ciò che avevo: la cattedra, i miei studenti, mia moglie…»

Guarda il soffitto per un istante, poi torna su di noi. «Non lo dico con vergogna. Scelsi la vita. Scelsi di restare, di proteggere quello che amavo. Ma a volte mi chiedo cosa sarebbe successo se avessi avuto più coraggio.»

«Io ho solo trovato tracce. Il mio lavoro… è stato un inseguimento. Sempre a metà. Sempre ai margini di qualcosa che si nascondeva appena oltre la carta. E ogni volta che mi avvicinavo… bastoni tra le ruote. Tagli ai fondi. Minacce velate. Colleghi che si allontanavano. Ma voi… voi siete liberi. Non siete legati a istituzioni, né appesi ai contratti. Voi potete arrivare dove io non sono mai riuscito.»

Poi ci fissa con intensità. «Ora… io non ho più niente da perdere ma non ho nemmeno più le forze per investigare. Voi sì. Voi avete ancora una strada davanti e questa strada, se la percorrete fino in fondo… non sarà facile, sappiatelo.»

Veronika si stringe a me. Skippy si avvicina al letto e appoggia una zampa sul lenzuolo, in silenzio.

Il professore accenna un sorriso stanco. «In Tunisia… cercate un uomo che si chiamava Adnen. Era un archeologo, un uomo onesto. Aveva un piccolo negozio di antiquariato nel souk della Medina di Tunisi, il cuore antico della città. Ci scrivevamo spesso. Non so se sia ancora vivo. Ma aveva un figlio… più giovane, attento. Mi disse che avrebbe continuato il lavoro del padre. Forse lui… potrebbe aiutarvi.»

Un colpo di tosse gli interrompe la voce. L’infermiera si affaccia alla porta e ci fa cenno che il tempo è finito. Lissia solleva una mano, solo un attimo. «Aspetti…» dice.

Ci guarda ancora. Stavolta con un’ombra più fragile ma anche più intensa. Poi fa cenno a Skippy di avvicinarsi. Lei si avvicina piano, in silenzio.

Il professore le prende la zampa tra le dita, con un gesto lento. Poi si sfila dal dito un anello antico, in bronzo, decorato da un piccolo motivo geometrico incassato, simile a quelli visti nei nuraghi. Lo porge con delicatezza. «Se servirà per farvi riconoscere… mostrate questo. Adnen ne aveva uno identico. Era un riconoscimento per un lavoro che facemmo insieme, anni fa. Una piccola grande soddisfazione. So che lui lo indossava sempre. Se lo vedrà, capirà che vi mando realmente io.»

Skippy prende l’anello con entrambe le zampette, senza dire nulla, ma i suoi occhi si fanno lucidi.

«Io non ne ho più bisogno ormai» aggiunge Lissia, con voce più bassa. «Ma forse… voi sì.»

Veronika si avvicina e gli stringe la mano con delicatezza. «Grazie, Professore. Faremo il possibile. E se scopriremo qualcosa… glielo faremo sapere.»

Lui annuisce, con un filo di sorriso. «Portatemi almeno la fine di questa storia. Perché possa scriverla… anche solo nella mente.»

Usciamo in silenzio mentre la porta si chiude alle nostre spalle. E per la prima volta da giorni non sappiamo più se siamo noi a seguire le tracce… o se sono le tracce a seguire noi.

Scelsi la vita ma a volte mi chiedo cosa sarebbe successo se avessi avuto più coraggio.

Professor Lissia (foto leonardo.ai)

Ritorno in Albergo

Usciamo dall’ospedale ancora scossi. Veronika accende il telefono, seleziona l’ultimo numero: quello di Gavina.

Risponde subito.

«Gavina… abbiamo parlato con Lissia. Ci ha confermato che l’Ordine segreto esiste, che Ampsicora non è morto dove dicono. E’ convinto che siano fuggiti in Tunisia portando con loro qualcosa di importante… sapere, forse reperti. Ci ha dato un contatto: un uomo che lavorava nel souk della medina di Tunisi. Un archeologo. Siamo pronti a partire. Anche domani.»

Dall’altra parte il silenzio si fa lungo. Poi Gavina sospira.

«Veronika… io vi voglio bene, lo sai. Ma vi state muovendo in un terreno pericoloso. E non parlo solo di archeologia. La Tunisia non è la Sardegna. Lì ci sono altri codici, altre regole. E questa storia… non è finita. È viva. A volte mi chiedo se sia davvero il caso di andare avanti.»

Solo adesso la sua voce tradisce una cautela, quasi un timore. Come se solo nel sentirci parlare così apertamente, così vicini al cuore del mistero, avesse compreso la portata reale di ciò che stiamo affrontando.

«Ma se ci fermiamo adesso che senso avrebbe tutto quello che abbiamo fatto finora?» risponde Veronika, con la voce ferma. «Ci siamo spinti fin qui. Siamo arrivati a lui. Ora abbiamo una direzione.»

Ancora silenzio. Poi Gavina, con voce bassa: «Solo… fate attenzione.»

La chiamata si interrompe.

Veronika resta qualche secondo a fissare lo schermo, poi si gira verso di me. «Io ci voglio andare, Cami. Anche da sola se serve.»

«E se stessimo facendo un errore?» dico piano, quasi senza volerlo. «E se questa storia non fosse solo archeologia ma qualcosa che ancora oggi qualcuno vuole tenere nascosto?»

Veronika non risponde subito. Si siede sul bordo del letto, con lo sguardo basso. «Forse è così. Ma se è ancora viva… allora vuol dire che conta.»

Mi guarda. Gli occhi non hanno esitazione. «Io non voglio avere rimpianti, Cami. Se anche ci fermassimo adesso… non potrei mai più dormire tranquilla.»

La sua voce non è accesa, non è rabbiosa. È solo vera.

«E tu?» mi chiede. «Tu davvero vuoi tornare indietro adesso?»

La guardo. È stanca, lo siamo entrambi. Ma i suoi occhi brillano di una determinazione che non vacilla.

Rientriamo in albergo senza dire una parola. La strada è la stessa dell’andata ma ora ha perso i contorni. Le luci dei lampioni scorrono come scie stanche sui vetri e tutto sembra sospeso, rallentato. In camera, appoggiamo le nostre cose senza pensarci troppo. Skippy si rannicchia in un angolo della poltroncina, in silenzio. Sembra stanca, triste. Forse per lei è stato difficile vedere il professore in quelle condizioni… sapere che la sua vita gli sta scivolando via.

Mi stendo sul letto, le mani intrecciate dietro la testa, guardo il soffitto. Veronika si avvicina piano. Si infila sotto le coperte e mi abbraccia, poggia la testa sul mio petto. Skippy si trascina sul letto e si accoccola accanto a me, dall’altro lato, con un sospiro felino. Cercano conforto. Protezione.

Provo a darne. Anche se dentro di me non ne ho più di loro.

«La Tunisia fa parte del mondo, no? E noi stiamo facendo il giro del mondo.»

Veronika mi stringe. Un grazie silenzioso.

Le luci si spengono. Il silenzio torna.

Io resto sveglio. Con gli occhi aperti nel buio e la mente piena di domande.

E se questa traccia non fosse solo una traccia? Se ci stesse portando in qualcosa che non possiamo controllare? Che non posso controllare? Qualcosa che le possa mettere in pericolo?

Non lo so.

So solo che domani voleremo verso sud.

E che, per la prima volta da quando siamo partiti, non sono sicuro di voler conoscere la verità.

Non sono sicuro di voler conoscere la verità.

Anello del Professor Lissia (foto Dall-E)

13 – Diario di Viaggio Oristano

Colazione Sarda

La pancia di Skippy continua a brontolare, un ritmo nuovo dopo il russare regolare del volo. Ora trotterella nervosa con il musetto all’insù, visibilmente affamata e decisa a farcelo notare: ha bisogno di energie per affrontare una giornata del genere.

Mentre siamo in viaggio verso il museo di Cabras, Gavina indica una piccola panetteria lungo la strada e ci propone di fermarci. Il profumo di grano e dolci fritti riempie l’aria come una promessa difficile da ignorare.

Gavina ci consiglia di provare le pàrdulas, piccole tortine di ricotta e scorza d’arancia dal profumo intenso, e Veronika, incuriosita, la segue senza esitazioni. Io mi lascio tentare da un pezzo di pan’e saba, un dolce scuro, umido e speziato a base di mosto cotto, perfetto per queste giornate di vento salmastro. Skippy, invece, si appropria con solennità di una mezza seada, una frittella ripiena di formaggio e ricoperta di miele caldo, che le cola giù dalla zampetta con una lentezza quasi cerimoniale. La annusa con rispetto, la tocca delicatamente con le zampette, poi dà un primo morso e si ferma, immobile, come se il sapore meritasse qualche secondo di silenzio. E non ha tutti i torti.

Riprendiamo il tragitto verso Cabras. La strada taglia i campi e le nuvole grigie corrono basse sopra di noi. Gavina abbassa la voce, con gli occhi fissi sull’orizzonte. «Non sono certa che vorrà mostrarvi quei reperti» dice, quasi parlando a sé stessa.

L’ho sospettato sin da quando ho incrociato il suo sguardo all’aeroporto. Ora quel dubbio prende forma ma lo tengo per me. Se c’è qualcosa che ho imparato da quando siamo arrivati in Sardegna è che certi silenzi sono più utili delle rassicurazioni.

Veronika, seduta accanto a Gavina sul sedile posteriore, si sporge appena in avanti. «E se dovesse rifiutare? Se fosse un altro vicolo cieco?»

Gavina non risponde subito. Poi volta leggermente il capo, con un sorriso sottile e fermo. «Penso di sapere come parlarle. In fondo anche lei ha sempre avuto una fame latente di risposte. Più di quanto lasci credere.»

Arriviamo al museo di Cabras mentre il vento comincia ad alzarsi, sollevando piccole spirali di polvere e odore di salsedine. Skippy salta giù dal sedile e si stiracchia. Sembra tornata alla sua solita energia: ora è pronta a seguire quel filo invisibile che ci ha portati fin qui.

Alcuni oggetti non chiedono di essere spiegati. Vogliono solo essere visti da chi è pronto.

Pan’e Saba (foto e ricetta Dall-E)

Museo di Cabras

Appena scendiamo dall’auto inizia a piovigginare. Gocce leggere, quasi timide, che si posano sui vetri del museo come dita curiose. Skippy ci segue a passo svelto fino all’ingresso, annusando l’aria come se il profumo della pioggia le raccontasse qualcosa.

Il Museo ci accoglie con un silenzio composto. Ha aperto le porte da poco e sembra svegliarsi insieme a noi. Le voci basse dello staff si mescolano al rumore lieve della carta sfogliata nei cataloghi, l’odore della pietra e del legno cerato si confonde con quello dell’umidità appena entrata dall’esterno.

Alla reception una ragazza sui trent’anni ci saluta con gentilezza ma senza particolare entusiasmo. Gavina le chiede della direttrice con tono tranquillo. «Arriverà tra poco, accomodatevi pure nella sala principale» risponde la ragazza, indicando una porta alla nostra sinistra.

Così ci addentriamo tra le prime teche, ancora soli, mentre fuori le nuvole si addensano un po’ di più.

«Quando il museo fu aperto» inizia a dire Gavina con voce bassa ma piena «questa urna qui fece discutere non poco.»

Ci fermiamo davanti a una vetrina: al centro, un’urna funeraria in pietra con incisioni geometriche e un volto appena accennato. Antica, scolpita male, si direbbe… ma c’è qualcosa di inquieto in quelle linee.

«Alcuni dicevano che era una falsificazione. Troppo diversa da tutto il resto. Troppo “moderna”. Ma io mi sono sempre chiesta se fosse il contrario… se non fosse antichissima, al punto da non avere più niente in comune nemmeno con ciò che pensiamo di sapere del passato.»

Ci scambiamo uno sguardo breve. Veronika sembra incuriosita. Skippy si accoccola davanti alla teca e fissa il volto dell’urna come se volesse capirne l’umore.

Sto per fare una domanda quando sentiamo la voce della ragazza che ci aveva accolti. «Signora… ci sono delle persone che chiedono di lei.»

Gavina si gira. I suoi occhi brillano di un riflesso che non le vedevamo da tempo. Tra sguardi antichi e silenzi da decifrare.

La direttrice arriva qualche minuto dopo, avvolta in un impermeabile grigio scuro, i capelli raccolti in una coda morbida ancora umida di pioggia. Avrà poco meno di cinquant’anni, forse una ventina in meno di Gavina ma nei suoi occhi c’è lo stesso sguardo deciso di chi è cresciuto su questa terra, tra vento e pietra. Non è bella, almeno non nel senso canonico del termine, ma ha un volto sincero, un portamento gentile e un modo di guardare che non sfugge mai.

Appena la vede Gavina le va incontro con un passo incerto ma sorridente. Si ferma a pochi centimetri da lei e, per un attimo, le due donne si osservano, come a misurare il tempo che è passato. Poi, senza dire nulla, si abbracciano. Un abbraccio lungo, vero, che affonda nel passato. La direttrice chiude gli occhi per un istante, stringendola con forza.

«Quanti anni, Gavina…» sussurra, lasciando uscire le parole come un soffio.

«Troppi» risponde lei, mentre si staccano lentamente. Poi si volta verso di noi con naturalezza. «Ti presento due amici: Camillo e Veronika. Viaggiano per terra e per cielo… e oggi hanno bisogno di un po’ della tua luce.»

La direttrice annuisce cortese ma non sorride più. I suoi occhi passano su di noi con attenzione e il suo sguardo si fa più misurato, quasi protettivo. Intuisce qualcosa. Gavina lo capisce e cerca di essere delicata.

«In realtà… volevo chiederti se possiamo vedere alcuni dei manufatti che mi avevi menzionato anni fa. Quelli che…»

La donna la interrompe subito alzando appena la mano. Lo fa senza durezza ma con decisione. «Vieni. Meglio parlarne in privato.»

Si allontanano verso una saletta con pareti vetrate, lasciandoci soli tra le teche e i riflessi opachi del mattino. Da dove siamo non sentiamo nulla ma vediamo abbastanza. La direttrice gesticola, sembra agitata, a tratti infastidita. Gavina invece resta calma, in piedi, come se ogni parola fosse già stata pesata prima ancora di essere pronunciata.

«Non ci farà vedere nulla» borbotta Veronika, le braccia incrociate e lo sguardo fisso. «Ti avrò fatto perdere ancora tempo.»

«O forse sta solo cercando di capire se può fidarsi» rispondo io, lasciando il dubbio in sospeso.

Skippy emette un piccolo verso, poi si sistema contro la mia gamba e mi guarda con quell’espressione da piccola sentinella che conosce il mondo meglio di quanto sembri.

E poi succede.

Le vediamo avvicinarsi. Prima un ultimo scambio a bassa voce, poi un abbraccio stretto, più forte, più carico. Quando si staccano Gavina si volta verso di noi e sorride. È un sorriso calmo, sollevato, quasi complice. Ci fa cenno con la mano: possiamo andare.

La direttrice ci passa accanto senza dire nulla. Il suo volto è serio ma non freddo. Conduce il passo senza voltarsi lungo un corridoio laterale e ci invita a seguirla con un gesto discreto. Mentre entriamo in quella parte del museo dove i visitatori non arrivano mai, l’aria cambia.
Come se stessimo attraversando una soglia invisibile.

Ci sono incontri che non servono a ricordare il passato ma a riaccenderlo.

Urna misteriosa (foto Dall-E)

L’attesa dentro la pietra

La luce si fa più discreta e l’aria odora di umidità trattenuta da anni. Entriamo in una stanza d’archivio, ordinata ma vissuta, con scaffali metallici e casse impilate contro il muro. Una di queste, rivestita di legno chiaro, giace quasi nascosta su uno scaffale defilato.
La donna ci si avvicina e resta un attimo ferma, come se dovesse prendere fiato. La solleva, la posa su un tavolo al centro alla stanza, la osserva… Gavina si fa avanti con una lentezza quasi sacra, gli occhi lucidi e pieni di attesa. La direttrice la guarda. Le due si guardano e io noto la stessa luce nei loro occhi. La voglia di scoprire, dopo anni, se sono in grado di comprendere quello che anni fa le era sfuggito.

Poi la direttrice inserisce una chiave, ruota con calma e solleva il coperchio.
Gavina sembra sul punto di scartare un regalo che ha desiderato da tutta una vita.
All’interno, avvolta in un telo di lino spesso, c’è una lastra di pietra calcarea, lunga forse mezzo metro, scolpita in bassorilievo. La direttrice la poggia con delicatezza su un supporto imbottito.
«Questa è stata trovata vicino a Mont’e Prama, in un’area ancora poco scavata» mormora. «Non rientra nelle tipologie ufficiali. Alcuni pensano che sia un falso, altri che sia troppo frammentaria per raccontare qualcosa.»

Ci avviciniamo anche noi. La lastra raffigura quattro figure umane stilizzate, disposte in linea. Tre di loro hanno proporzioni simili, rudimentali, con teste rotonde e corpi appena abbozzati. Ma la quarta, quella in fondo, è diversa. Molto più grande. Almeno il doppio. Ha braccia più lunghe, un torso più spesso, e qualcosa che assomiglia a un elmo o una cresta sopra la testa.

«Potrebbe essere un capo tribale, un antenato divinizzato o solo un errore di scala» dice la direttrice con voce neutra. «Nessuno ha voluto rischiare un’interpretazione.»

Veronika la osserva senza parlare. Skippy, seduta sulla sua spalla, inclina la testa e, mantenendosi al collo di Veronika con una zampetta, si avvicina come se volesse capire meglio cosa stia guardando.
Io osservo la figura più grande, quella anomala. C’è qualcosa di potente, quasi disturbante, in quell’eccesso di proporzioni.

Ma non parla.

Non ci guida.

Ed è questo che mi preoccupa. Perché se anche il secondo reperto non ci dice nulla… allora forse, stavolta, non avrò nulla da offrire né a Veronika né a Skippy.

A volte il silenzio della pietra pesa più di qualunque risposta.

la cassa con i due manufatti (foto Dall-E)

Il Codice Interrotto

Veronika mi guarda con un velo di delusione negli occhi. Non dice nulla ma mi basta uno sguardo per capire.
Io, pur con il pensiero ancora annidato in fondo al petto, le sorrido lo stesso. Non è finita. Non ancora. E poi, comunque, qualche possibile riferimento ai Giganti lo abbiamo trovato.
La direttrice apre il secondo involto con un gesto lento, quasi rituale. Il lino si srotola con delicatezza, lasciando emergere una tavoletta in pietra grigia, leggermente più piccola della precedente ma densa, viva, quasi vibrante.

Scolpita su entrambi i lati con una cura minuziosa, la superficie è attraversata da simboli geometrici, archi concentrici, linee spezzate che sembrano rincorrersi, segni simili a lettere, ma che non appartengono ad alcun alfabeto conosciuto.

Non è decorazione.
È scrittura. Un codice, come lo aveva definito Gavina. Ma non uno lineare.
Questo si curva, si ripete, si mimetizza. Come se volesse essere compreso solo da chi ne conosceva la chiave.

«È molto più antico di tutto quello che abbiamo mai trovato a Mont’e Prama» mormora la direttrice, senza staccare gli occhi dalla tavoletta. «Ma nessuno è mai riuscito a leggerlo. È troppo distante da ogni logica nota. E troppo… coerente per essere un caso.»

Gavina si avvicina. Le dita tremano appena. Poi, con un gesto preciso, estrae dal suo zaino una fotografia plastificata e la appoggia accanto al reperto. È l’immagine sbiadita di un frammento inciso, più rozzo, più recente.

«Questo l’ho fotografato anni fa, in un deposito. Non sapevano cosa fosse. Ma guarda qui…» Indica un tratto in alto, dove due archi si incrociano. «È una copia. Non moderna ma realizzata in epoca punica o romana. Il tratto è meno profondo, meno fluido. Come se qualcuno avesse tentato di salvare un linguaggio perduto, imitandone la forma per impedirne l’estinzione.»

La direttrice si irrigidisce. Si china, osserva entrambi i reperti e per un lungo momento non dice nulla. Poi alza lentamente la testa e le sue labbra si muovono in un sussurro appena udibile.

«Ampsicora».
È un nome che cade nella stanza come una pietra nell’acqua ferma.
Il suo effetto è immediato.

«Da tempo» continua la direttrice, con voce più tesa «ho il sospetto che non fosse solo un ribelle. Ci sono tracce, minime, nascoste che lo collegano a un clan, a un gruppo chiuso, quasi invisibile, che agiva parallelamente ai poteri noti. Forse un ordine. Forse una confraternita. Nessuno ha mai voluto approfondire. Nessuno ha osato. E anche quando ci ho provato io ho avuto più volte la sensazione che mi fosse impedito di proposito.»

Gavina annuisce. «E se questo gruppo avesse cercato di proteggere un sapere che affondava le radici prima della conquista romana? Prima ancora dei Giganti?»

«O di tramandarlo in silenzio» aggiungo. «Anche a costo di frammentarlo.»

La direttrice si allontana un passo, come se stesse mettendo insieme un puzzle di cui aveva solo i bordi. Poi si volta lentamente verso di noi.

«Uno dei frammenti più simili a questo… fu trovato a Nora, vicino a Pula. Ma non era tra i materiali esposti. Era accanto a una struttura muraria fenicio-punica, rinvenuta sotto uno strato di sabbia compatta, dove si dice che si svolgassero riti riservati. Nessuno lo ha mai collegato a nulla. Fino ad ora.»

Skippy si stringe a Veronika. Io fisso quella tavoletta come se potesse ancora aggiungere qualcosa.

Non siamo più davanti a semplici reperti.
Siamo davanti a una catena interrotta, spezzata e poi ricostruita in segreto. E adesso una parte di quella catena sembra chiamarci da Nora.

Forse è davvero da lì che dobbiamo passare.
Forse il tempo non ha dimenticato tutto.
E forse… c’è ancora qualcuno che ricorda.

Alcuni segreti non si perdono. Si nascondono aspettando occhi pronti a leggerli.

la tavoletta con il presunto codice (foto Dall-E)

Ombre tra le Sale

La direttrice ripone con cura la tavoletta e richiude il contenitore con un gesto lento, quasi protettivo. Un vero e proprio rituale.

Nessuno parla mentre usciamo dalla stanza d’archivio. C’è una strana solennità nel nostro passo, come se stessimo portando fuori un segreto ancora caldo. Camminiamo nel museo con lentezza, seguendo il percorso che ci conduce verso la sala dove si ergono le statue dei Giganti di Mont’e Prama.

Le luci sono più intense qui, il silenzio più carico. Il rumore dei nostri passi sembra amplificarsi. «Ampsicora era un magistrato di Cornus» racconta la direttrice, la voce calma ma piena. «Un uomo colto, potente. Non un guerriero qualsiasi. La rivolta contro Roma fu studiata, non improvvisata.»

«Eppure è finita male» dice Gavina. «La battaglia persa, il figlio morto, lui che si toglie la vita. Almeno, così raccontano.»

«Ma se non fosse andata così?» chiede Veronika. «E se non fosse morto? E se lui… o chi era con lui… fosse riuscito a scappare?»

«Portando via quel sapere» aggiungo. «Un frammento. Una tavoletta. Magari delle copie, come quella che ci hai mostrato, Gavina. Qualcosa che doveva essere protetto a ogni costo.»

«Forse cercavano qualcuno in grado di custodirlo» riflette Gavina. «O un luogo. Un passaggio.»

«Ma dove?» sussurra la direttrice, più a se stessa che a noi. «Dopo una sconfitta così grande… chi li avrebbe accolti?» Camminiamo lentamente tra le vetrine, le teche laterali. Il museo sembra stringersi attorno a noi, come se stesse ascoltando.

Poi lo vedo.

Un uomo, a una decina di metri da noi. È fermo davanti a una delle vetrine ma non guarda i reperti. Guarda noi. È vestito in modo anonimo, forse un addetto alla sicurezza o qualcuno dello staff, ma qualcosa in lui stona. Forse lo sguardo, forse la postura. E… sì.

Sta ascoltando. Attento. Troppo.

Mi volto verso Veronika. «Ehi, guarda quel…» Indico la direzione con lo sguardo. Ma quando ci giriamo, non c’è più. Nessuna traccia.

Resto un istante in silenzio, cercando di capire se me lo sono solo immaginato. Poi scuoto appena la testa e torno al gruppo.

Il dialogo è ancora in corso, le ipotesi si rincorrono tra sussurri e domande. Ma qualcosa, dentro di me, ha cambiato ritmo. E quella figura sfuggita al mio sguardo ora cammina, silenziosa, nei miei pensieri.

Ci sono sguardi che non cercano oggetti. Cercano chi li guarda.

La Direttrice (foto Dall-E)

Sotto lo sguardo dei Giganti

«Aspettate…» dice Veronika, interrompendo il flusso di ipotesi. «Guardate queste statue. Non è incredibile che siano arrivate fino a noi?»
Ci giriamo. Le statue dei Giganti di Mont’e Prama si stagliano davanti a noi con la loro imponenza muta. Alcune sono intere, altre parzialmente ricostruite, ma tutte emanano la stessa, antica autorevolezza. Hanno occhi grandi, scolpiti a cerchi concentrici, e volti scolpiti con forme geometriche essenziali ma ipnotiche.

La direttrice sorride. È la prima volta che la vediamo davvero rilassata.
«Sono qui da anni e ogni volta che passo davanti a loro mi sembrano cambiate» dice. «Non solo per la luce o per l’ombra. Ma per come le guardiamo. O forse… per come ci guardano loro.»

Camminiamo lungo la fila e lei ci accompagna senza fretta. Ogni statua sembra avere un proprio linguaggio.
«Lui è un pugilatore» indica una figura con un grande scudo tondo piegato sul braccio sinistro. «Si riconosce dal guantone che indossa sull’altro braccio. E dalla posa: il busto un po’ inclinato, come se fosse pronto a colpire.»

Poi passa a un’altra. «Questo è un arciere. Lo vedete il copricapo? Probabilmente era in cuoio o in lino rinforzato. Ha ancora parte dell’arco nella mano sinistra. Ed è uno dei pochi con i piedi ben piantati al suolo. Come se stesse proteggendo qualcosa.»

Ci fermiamo davanti a una statua diversa dalle altre, più slanciata, con uno scudo squadrato e una veste accennata.
«E questo è un guerriero. Alcuni pensano che rappresentassero degli eroi. Altri che fossero divinità. Ma la teoria più affascinante, secondo me, è che fossero… antenati. Figure reali, idealizzate, rese immortali nella pietra per vegliare sulle tombe.»

Mi avvicino, osservando la scala.
«Ma… se erano raffigurati così… è vero che le statue erano a grandezza naturale? Parliamo di… tre metri?»
La direttrice annuisce. «Alcune erano alte anche più di due metri e mezzo, forse tre. Considerando la testa, la base, e le armi che tenevano, sì… potrebbero aver raggiunto quella misura. E questo ha alimentato l’idea che non fossero solo ritratti ma rappresentazioni di veri e propri… Giganti. Soprattutto per l’epoca.»

«Il mistero è che non esiste nulla di simile in Europa, in quel periodo» continua la direttrice. «Erano scolpite a tutto tondo, in un’epoca in cui si lavorava la pietra solo in rilievo. È come se qualcuno sapesse già cosa sarebbe venuto dopo. Ma in anticipo di secoli.»

«E allora chi le ha fatte?» chiedo. «E perché proprio lì, a Mont’e Prama
«Forse un centro spirituale. Forse una necropoli. O forse… il punto d’incontro tra la memoria e la paura. Metterle lì significava custodire qualcosa. O avvisare qualcuno.»

Le statue ci osservano in silenzio.
E in quello sguardo di pietra, scolpito tremila anni fa, sento qualcosa che non riesco a spiegare.
Una promessa.
O un avvertimento.

Alcune statue non celebrano. Vegliano.

Giganti di Mont’e Prama (foto monteprama.it)

Voci che restano

Quando ci allontaniamo dalle statue la conversazione rallenta fino a fermarsi del tutto. Restiamo in silenzio qualche istante, come se avessimo bisogno di uscire lentamente da quel tempo antico.
Poi la direttrice si ferma. Si gira verso Gavina e le prende le mani con entrambe le sue.

«Tu non vai da nessuna parte» le dice con un tono che non ammette repliche ma che trasuda affetto. «Non ci devi nemmeno pensare. Ora che ti ho ritrovata, ho intenzione di tenerti qui almeno qualche giorno. Voglio parlarti di tutto. Voglio ascoltarti. E… be’, il museo è grande. E casa mia ha ancora una stanza libera.»

Gavina accenna un sorriso, poi ci guarda. «Per voi… va bene?»

«Certo che va bene» rispondo subito. «Ti terremo aggiornata. Promesso. Ti diremo tutto quello che troveremo a Nora».

Skippy si avvicina a Gavina e la abbraccia, stringendole le braccia con delicatezza. Lei si intenerisce, le accarezza il capo e si guarda intorno. Raggiunge il bancone dei souvenir e prende una piccola riproduzione in pietra del volto di un Gigante, con una lieve scheggiatura su un lato. Guarda la direttrice che annuisce senza dire nulla.

«È un po’ storto» dice Gavina sorridendo, porgendoglielo. «Ma ha qualcosa che somiglia al tuo sguardo.»

Skippy lo prende con una cura commovente, lo osserva in silenzio e poi la abbraccia di nuovo, più forte. C’è dolcezza e una gratitudine che non ha bisogno di parole.

La direttrice si volta verso di noi. «Quando sarete là, andate al Centro di documentazione archeologica di Nora. È piccolo ma conserva reperti che non sono visibili sul sito. Chiedete del professor Lissia. È in pensione da anni ma vive praticamente tra quelle sale. Non so se sarà facile trovarlo ma se c’è qualcuno di cui mi fido… è lui.»

«È esperto di questo codice?»

«Ha visto più reperti di quanti ne possiate immaginare. E soprattutto… conosce Ampsicora. Lo ha studiato, inseguito, ricostruito a modo suo. Se c’è una mente capace di mettere ordine tra le tracce è la sua.»

Ci salutiamo davanti all’uscita del museo. La luce è cambiata, la pioggia ha lasciato un’aria pulita e frizzante. Gavina ci abbraccia, un abbraccio lungo e silenzioso. La direttrice ci stringe la mano con calore e un rispetto nuovo negli occhi.
Poi usciamo.
E dietro di noi, le statue tornano al loro silenzio.
Ma ora so che ci stanno seguendo. Anche loro.

Il viaggio verso Oristano scorre in silenzio. Ognuno di noi è immerso nei propri pensieri, come se tutto quello che abbiamo visto, sentito e toccato oggi avesse bisogno di tempo per sedimentare. Il cielo si è rasserenato ma nell’abitacolo resta una tensione lieve, fatta di domande non dette e intuizioni che cominciano appena a prendere forma.

Ci sono incontri che vanno custoditi. Come i reperti più fragili.

Souvenir di Skippy (foto Dall-E)

Verso sud

Arriviamo in città poco prima di pranzo, quando le prime ombre iniziano ad accorciarsi e il centro si riempie dell’odore di pane caldo e carne arrosto. Troviamo una piccola trattoria nascosta tra le vie del centro storico, una di quelle con i tavoli in legno grezzo e il profumo di cucina vera che ti accoglie ancor prima di sederti.

Ordiniamo piatti della zona: un piatto abbondante di porceddu arrosto, il maialetto da latte sardo cotto lentamente allo spiedo su legna di mirto e lentisco, dalla carne tenera e profumata e la crosta croccante che scricchiola sotto i denti. Lo servono su un letto di rami aromatici, ancora caldo, con accanto patate dorate e pane carasau. Poi una bottiglia di rosso sardo, corposo, che sa di terra e vento.

Durante il pranzo, le parole tornano a fluire. Parliamo a bassa voce di ciò che abbiamo scoperto, di Nora, del professor Lissia, di quella tavoletta e del codice spezzato.

Ogni tanto ci fermiamo. Per mangiare, per pensare. Per osservare Skippy che affronta il suo porceddu con un rispetto quasi cerimoniale… salvo poi divorarlo con un entusiasmo che fa voltare un paio di tavoli vicini. Alla fine, si lecca le zampette come se avesse appena firmato un trattato di pace col popolo sardo.

«Ok, finito di mangiare partiamo» dice Veronika con gli occhi già rivolti al sud. «E niente deviazioni stavolta. Dritti a Nora.»

«Un attimo…» rispondo sorridendo. «Che ne dici se partiamo nel tardo pomeriggio? E poi c’è un tratto di costa che voglio sorvolare. Merita.»

Lei mi guarda, un po’ contrariata, un po’ divertita. «Un compromesso?»

«Un compromesso» confermo. «Come sempre. Tu insegui la storia, io inseguo la bellezza. E a volte, si incontrano.»

Skippy approva sollevando il cucchiaio verso di me, come a dire “ha ragione lui”. Anche lei ama volare. E lo sa bene.

Usciamo che il sole è ancora alto. L’aria profuma di terra bagnata e legna accesa, anche in pieno giorno.
Camminiamo tra le strade di Oristano, le parole che si diradano, sostituite dal rumore dei nostri passi.

Tra poco saremo nuovamente in volo.
Ma la vera avventura sarà quello che ci aspetta a terra.
E se davvero c’è ancora qualcosa da trovare…
questo Professore sarà disposto a farcelo scoprire?

Ci sono storie che aspettano in cielo. Ma il cuore le trova camminando.

Porceddu Arrosto (foto Dall-E=

12 – Diario di Viaggio Alghero

Alghero

La pioggia ci accoglie appena entriamo in città. Non è un acquazzone violento ma di quelli sottili, insistenti, che si infilano ovunque e ti obbligano ad abbassare lo sguardo, quasi a invitarti a camminare in silenzio.

Alghero ci appare sfocata, con i vicoli lucidi e le pietre che riflettono i lampioni come specchi opachi. I tetti rossi sembrano più scuri del solito, quasi bagnati anche nei ricordi e il cielo plumbeo, pesante, schiaccia ogni pensiero verso il basso.

Veronika cammina al mio fianco in silenzio. Skippy ci segue senza fiatare, lo sguardo fisso in avanti, le orecchie appena abbassate. Nessuno dei due ha fame, lo capisco dal modo in cui guardano o meglio, evitano le vetrine delle panetterie e i profumi che provano comunque a farsi strada tra le gocce.
«Prendiamoci almeno qualcosa di caldo» propongo, cercando di mantenere un tono più leggero, anche se lo sento forzato persino a me stesso.

Ci infiliamo sotto una piccola tettoia accanto a un forno che profuma di focaccia e cipolla, dove il calore si appiccica ai vetri appannati. Ordino qualcosa in fretta, senza nemmeno leggere tutto il menù, mentre loro si limitano a stringersi nel cappuccio.

Mangio io per tutti o almeno ci provo. Il boccone ha il sapore di una tregua ma solo a metà. L’aria resta sospesa, gonfia di aspettative e timori. È la stessa tensione che ci accompagna da ieri. Quella paura sottile che tutto possa ridursi a una suggestione, a un altro indizio che non porta da nessuna parte.

«Stai bene?» le chiedo a bassa voce, mentre appoggio il bicchiere ancora mezzo pieno su un barile usato come tavolino.

Lei annuisce ma non mi guarda. Poi si aggiusta la sciarpa e rompe il silenzio.
«È che… non so. Più ci avviciniamo a questa storia, più ho paura che si dissolva come nebbia. Ho bisogno che ci sia qualcosa, Camillo. Qualcosa di vero.»

Annuisco, anche se dentro di me il dubbio è lo stesso. È difficile ammetterlo ma la linea tra intuizione e illusione diventa ogni giorno più sottile.

«Anche se ci fosse solo una traccia, una persona che ha visto qualcosa, sarebbe già un passo avanti» dico. «Non abbiamo bisogno di risposte oggi. Solo di un segno.»

Veronika inspira profondamente e finalmente mi guarda. Nei suoi occhi vedo lo stesso miscuglio di paura e speranza che sento dentro di me.

Sotto i nostri piedi l’acciottolato bagnato ci riflette come ombre spezzate. Un bambino corre tra i vicoli ridendo sotto la pioggia, come se il mondo fuori fosse solo un dettaglio. E per un attimo penso a quanto sia diverso il nostro sguardo da quello dei bambini. Quanto il desiderio di capire possa diventare un peso.
Poi alzo gli occhi verso il cuore del centro storico, dove le case antiche si stringono l’una all’altra come a proteggersi dal vento. I balconi in ferro battuto, le persiane socchiuse, le tende leggere che danzano appena.

Alghero ci osserva. E oggi sembra volerci mettere alla prova.

A volte non cerchiamo risposte ma solo un segno che ci dica che non stiamo sbagliando strada.

Alghero Centro dall’alto (foto di torredelporticciolo.it)

Nel salotto del passato

La pioggia ci accompagna fino al portone di legno segnato dal tempo ma curato con attenzione. Ai lati, due piante in vaso. Il campanello antico risuona con un “drinn” secco, come quelli di un altro secolo. Poco dopo la porta si apre lentamente.

Gavina è lì, in piedi davanti a noi. Indossa un maglione in lana grezza e ha una sciarpa chiara poggiata sulle spalle. L’aspetto è semplice ma dignitoso. Gli occhi, più di ogni altra cosa, raccontano una vita passata a osservare e a studiare. Ci accoglie con un mezzo sorriso, quasi sorpresa dalla nostra puntualità.

«Entrate, per favore. Ho messo su qualcosa di caldo. Anche se oggi… ci vorrebbe il sole più del tè.»

L’appartamento è al primo piano, in una via tranquilla del centro storico. Odora di carta antica, di cera e di lavanda. Le pareti sono tappezzate di libri, fotografie in bianco e nero, e scaffali colmi di oggetti, molti dei quali probabilmente raccolti in anni di ricerche. Non è una casa… è un archivio che respira.

Skippy si ferma incantata davanti a una mensola ricolma di statuette e piccoli frammenti catalogati. Muove la testa a scatti, poi si siede composta accanto alla poltrona, con l’aria di chi ha capito che qui dentro c’è qualcosa di importante. Qualcosa di importante anche per lei, ora.

Dopo pochi convenevoli è Veronika a prendere la parola. Le mani intrecciate, lo sguardo fisso su Gavina.

«Abbiamo trovato un frammento di stoffa a Bonifacio, per caso» racconta. «Era nascosto in un vecchio manufatto con un doppio fondo, in un antiquario del borgo vecchio. A prima vista sembrava solo un tessuto antico ma aveva inciso sopra un simbolo… molto particolare.»

Fa una breve pausa, poi aggiunge:

«E se lo si guarda in controluce… compare una scritta. È in una lingua mista, forse antica. Dice: “…su tempus… nos eramus… su tempus… torneremos…”.»

Le sue parole restano sospese nell’aria per un istante, dense di significato.

«Non sappiamo cosa voglia dire con esattezza» continua. «Ma sembra qualcosa come: nel tempo eravamo, nel tempo torneremo. L’ho vista per caso. Solo alla luce giusta si riesce a leggere.»

Gavina solleva appena le sopracciglia ma non dice nulla. Segno di chi sa ascoltare prima di parlare. Veronika prosegue.

«Ho fatto delle ricerche online e ho trovato qualcosa di simile a Lu Brandali. Ci ha fatto pensare ai Giganti di Mont’e Prama o a qualcosa legato a loro. Ma poi, quando siamo arrivati lì… nulla combaciava. È stato un po’ scoraggiante. Ed è lì che un collega del sito ci ha parlato di lei. Ci ha detto che anni fa aveva condotto ricerche simili.»

Gavina resta in silenzio per un attimo, poi si alza. Skippy la segue con lo sguardo mentre cammina fino a una piccola scrivania e apre un cassetto. Torna con una cartellina consumata dal tempo e si siede con lentezza. Quando inizia a parlare, la voce è calma ma porta con sé un peso silenzioso.

«Non siete i primi a seguire una traccia che sembra dissolversi all’improvviso. E non sarete gli ultimi. Ma vi dirò qualcosa… anch’io, tanti anni fa, mi sono trovata nello stesso punto. Stessa tensione, la stessa sensazione di essere a un passo da qualcosa… eppure continuamente spinta via.»

Apre la cartellina e ci mostra una vecchia fotografia: una pietra incisa, i simboli appena visibili, scolpiti con precisione incerta.

«Questa l’ho trovata vicino a Paulilatino, in un deposito mai catalogato ufficialmente. Doveva essere trasportata a Cagliari per essere studiata ma… sparì. Come tante altre cose.»

Abbassa lo sguardo per un momento, come se stesse rivedendo tutto con gli occhi della memoria.

«Ogni volta che facevo una domanda i colleghi mi guardavano storto. I fondi sparivano. Le collaborazioni si interrompevano. Una volta, un progetto che avevamo costruito per anni venne bloccato senza spiegazioni. E sai cosa mi dissero? “Forse è meglio concentrarsi su argomenti meno… speculativi.”»

Accende una lampada da tavolo e la luce calda si posa sulle sue mani.

«Speculativi… come se la storia potesse essere solo quella già scritta.»

Veronika la ascolta in silenzio. Io incrocio le braccia, sentendo in quelle parole qualcosa di familiare. Quel senso di ostacolo sottile, mai dichiarato apertamente, ma sempre presente.

«Non ho mai avuto la certezza che ci fosse una volontà precisa dietro tutto questo. Ma troppe volte, proprio quando stavo per fare un passo avanti, accadeva qualcosa che mi riportava indietro. Come se qualcuno o qualcosa volesse che certi dettagli restassero sepolti.»

Skippy alza un orecchio, incuriosita. Gavina la nota e sorride.

«Tu lo capisci, vero, piccola? Anche gli animali sentono quando il silenzio pesa più del rumore.»

Poi si volta verso di noi.

«Fatemi vedere questa stoffa.»

Veronika apre lo zaino con attenzione e le porge il frammento. Gavina lo prende tra le mani, lo osserva per lunghi istanti, lo inclina verso la finestra per vedere meglio le scritte in controluce. Poi annuisce, come se avesse ritrovato un vecchio amico.

«È bisso marino» dice a voce bassa, quasi con rispetto.

«Cosa?» chiedo, sorpreso.

Lei non risponde subito. Continua a fissare il tessuto, poi inizia a spiegare con calma, quasi parlasse a sé stessa.

«È fatto con i filamenti di un mollusco… la pinna nobilis, una grande conchiglia che viveva nei fondali sabbiosi del Mar Mediterraneo. Pochissimi sapevano farlo.»

«Con… un mollusco?» chiedo, ancora più sorpreso.

Ma lei non mi risponde. Troppo intenta ormai a valutare quella stoffa, come se cercasse qualcosa che non ci aveva ancora detto. Alza lo sguardo e i suoi occhi brillano appena, non per l’emozione ma per la concentrazione. Poi, senza preavviso, cambia tono.

«Venite. C’è qualcosa che voglio mostrarvi.»

Ci sono storie che restano nascoste finché qualcuno non osa chiederle.

Gavina (foto Leonardo.ai)

Tracce nascoste

Ci guida in una stanza più piccola, forse il suo studio. Alle pareti mappe antiche appese con puntine d’ottone e una serie di fotografie in bianco e nero, alcune ingiallite, altre recenti. Un piccolo scrittoio è ricoperto di carte, taccuini, vecchie schede manoscritte.

Apre con cautela un cassetto e ne estrae una scatola piatta, di cartone spesso, consumata ai bordi. Ne tira fuori alcune fotocopie, poi qualche ritaglio di giornale e infine una serie di lucidi trasparenti con tracciati di simboli a confronto.

«Negli anni ho raccolto più di quanto riuscissi a spiegare. Simboli, incisioni, frammenti. Molti erano stati archiviati male, dimenticati o etichettati come “decorazioni rituali di epoca imprecisata”. Ma alcuni… alcuni erano troppo simili tra loro per essere solo decorazioni.»

Sfoglia i lucidi, li sovrappone, li confronta con gesti metodici.

«Guardate questo» dice, mostrandoci un disegno tratto da una stele vicino a Tharros. «E ora questo». lo sovrappone a un altro simbolo inciso su un piccolo oggetto rinvenuto a Ittiri, nella Sardegna nord-occidentale.
«Non identici. Ma… coerenti. Come se parlassero una stessa lingua dimenticata.»

Veronika si avvicina, attratta come da un magnete. Io osservo in silenzio, lasciando che siano loro due a connettere i fili.

«Tra le annotazioni più strane ce n’era una che tornava spesso. Una definizione vaga, sempre scritta in margine: “Il gran maestro” oppure semplicemente “Amsk’r”. Una forma corrotta, incompleta, che nessuno sembrava più in grado di decifrare.»

Gavina apre un quaderno logoro, scritto a mano, fitte annotazioni in corsivo elegante.

«Questo me lo passò un collega di Cagliari. Disse che era una raccolta di appunti su simboli non classificati. Ma guardate qui» indica una pagina con una nota ‘simbolo simile a frammento ligneo trovato a Tharros – possibile collegamento con Amsk’r – vedi nota 1972.’

Veronika si sporge. «E lei è riuscita a collegarlo a un nome vero?»

Gavina annuisce ma con prudenza.

«Ci ho messo anni. Ma un giorno, durante un convegno a Sassari, un ricercatore più anziano mi mostrò un documento trascritto da una fonte punica. Parlava di un “capo della rivolta” chiamato Ampsicora… e a margine, in una nota manoscritta, qualcuno aveva scritto: “Amsk’r?” col punto interrogativo. Per me fu come una scintilla. Quella sigla che avevo letto ovunque… combaciava. Non era una coincidenza.»

Fa una pausa. Lo sguardo si fa più severo.

«Da allora, ogni volta che provavo ad approfondire… qualcosa si metteva di traverso. Reperti spostati. Accessi negati. Progetti che venivano tagliati senza spiegazioni. Come se quel nome, quel vero nome, non dovesse riemergere.»

Alcuni nomi non spariscono: aspettano solo che qualcuno li riconosca.

documenti di Gavina (foto Dall-E)

Una lingua nascosta

Gavina si siede accanto alla scrivania e resta in silenzio per un attimo. Poi prende un foglio stropicciato da un raccoglitore aperto, lo osserva per qualche secondo e parla con voce più bassa, come se stesse per raccontare qualcosa che finora aveva tenuto solo per sé.

«C’è una cosa che non ho mai scritto in nessuna relazione. Né detto apertamente, nemmeno ai colleghi più vicini. Ma dopo quello che mi avete raccontato…»

Ci guarda, uno per uno, in cerca di una conferma silenziosa. Veronika annuisce attendendo una rivelazione. Io resto fermo ma il mio sguardo le dice che può andare avanti.

«Una volta, anni fa, mi permisero di accedere a un piccolo deposito vicino a Tharros. Non c’erano grandi reperti, solo materiale che nessuno aveva ancora avuto tempo o interesse di studiare. Tra quei resti c’era una lastra, poco più grande di un foglio A4, con un’incisione particolare.»

Si interrompe, come se stesse ancora visualizzando quella lastra nella mente.

«Sembrava una decorazione. Ma c’era qualcosa nella ripetizione di certe forme, nella posizione degli elementi. Non era arte casuale. Era ordine.»

Veronika si sporge leggermente. «Come un codice?»

Gavina annuisce, con un’espressione quasi colpevole.

«Sì. Non ne ho mai parlato con nessuno ma ho iniziato a confrontare quei segni con altri trovati in contesti completamente diversi: piccole incisioni sui bordi di ceramiche, schegge di legno intagliate, persino segni lasciati su un’ansa metallica di origine incerta. Non erano identici ma… sembravano seguire una logica, un modulo ricorrente.»

Apre un fascicolo e ci mostra un tracciato a mano: simboli schematizzati, frecce, linee tratteggiate, connessioni come se stessimo guardando una mappa invisibile.

«Alla fine ho iniziato a pensare che non fossero solo simboli religiosi o decorativi. Ho iniziato a credere che fossero una lingua. Una lingua segreta, nata in epoca nuragica o subito dopo… e usata per trasmettere messaggi solo a chi era in grado di leggerli.»

Il peso delle sue parole riempie la stanza. Non ha detto nulla di “clamoroso” in superficie ma il sottotesto è potente: qualcuno ha lasciato volontariamente una traccia, un codice. E nessuno, finora, è riuscito a leggerlo per davvero.

Gavina ci guarda di nuovo. «Forse erano solo suggestioni. O forse ho voluto vedere un disegno dove c’erano solo coincidenze. Ma… c’è una cosa che non riesco a dimenticare.»

Si alza e prende una fotografia sbiadita da una scatola. Ce la porge. Mostra una piccola pietra ovale, trovata, ci dice, nei pressi di un vecchio insediamento punico.
Al centro un simbolo incastonato in un anello di linee concentriche. In basso, quasi impercettibile, una lettera incisa al contrario. La stessa che avevamo notato anche noi sul tessuto ma senza sapere cosa fosse.

«Questo» sussurra «è comparso almeno tre volte. Sempre in luoghi marginali, lontani dai reperti ufficiali. E ogni volta… associato a resti che non avevano mai trovato una collocazione precisa.»

Si volta verso la finestra poi, a bassa voce, quasi parlando a sé stessa, aggiunge:
«Se avessero voluto nascondere un messaggio nei secoli… lo avrebbero fatto così. Non in un unico segno. Ma spargendo pezzi incompleti ovunque. Lasciando a chi viene dopo il compito di rimetterli insieme.»

Chi vuole davvero trasmettere un messaggio non lascia una verità intera. Lascia frammenti da ricomporre.

antico nuraghe in sardegna (foto sardegnaturismo.it)

Una pista ancora aperta

Gavina resta in silenzio per qualche secondo, poi si alza e torna a sfogliare alcune carte accatastate sul mobile accanto. Non sembra cercare qualcosa in particolare. Sembra piuttosto ritrovare un ricordo.

«Sapete… non è del tutto vero che non ho più messo mano a queste ricerche. Alcune cose le ho solo messe… in pausa. Per anni.»

Prende un taccuino, lo apre a metà, poi lo richiude.

«C’è una persona. Una mia ex collaboratrice. All’epoca era giovane, piena di entusiasmo. Lavorava con me quando iniziai a mettere insieme i primi confronti tra quei simboli. Era brillante, curiosa. Poi, per motivi personali, decise di lasciare la ricerca accademica

Fa una pausa e ci guarda, come per misurare le nostre reazioni.

«Ora dirige un museo nella zona di Cabras. Un luogo apparentemente fuori dal tempo. E so per certo che tra le collezioni che conserva… ci sono almeno due reperti che non sono mai stati esposti al pubblico.»

Veronika si raddrizza. «Reperti come quelli che ha studiato lei?»

Gavina annuisce. «Sì. Uno in particolare… me lo mostrò anni fa, in privato. Era uno di quei frammenti anonimi che nessuno voleva più studiare ma io vidi subito che portava un’incisione familiare. Le dissi di conservarlo, di non lasciarlo finire in magazzino. E lei lo fece.»

Si volta verso la finestra, dove la pioggia continua a scorrere lenta lungo il vetro.
Poi torna a guardarci.

«Non le ho mai chiesto nulla in cambio. Ma… mi deve un favore. Uno importante. E se ci presentassimo lì all’improvviso, con me al vostro fianco… non potrà dirci di no.»

Veronika sorride. Io incrocio le braccia. Gavina ha già deciso e, a questo punto, anche noi.

Skippy, come se avesse capito tutto, salta leggera giù dal tappeto e si dirige verso la porta, pronta a ripartire.

A volte le risposte non stanno nei documenti ma nelle persone che li hanno custoditi in silenzio.

documenti di Gavina (foto Dall-E)

Sapori che Raccontano

Quando usciamo dallo studio, il cielo è diventato più scuro. La pioggia ha rallentato ma l’aria è ancora satura di umidità. Ci accorgiamo che il pomeriggio è volato via, le parole, le immagini, le connessioni ci hanno rapiti più di quanto pensassimo.

Veronika si volta verso Gavina con un sorriso che ha il sapore della gratitudine.

«Le va di venire a cena con noi? È il minimo dopo tutto quello che ha condiviso. E poi… finalmente ho fame.»

Skippy, come se fosse stata nominata, si scuote e inizia a saltellare intorno a noi. L’appetito è tornato anche per lei e il suo sguardo è quello di chi ha già deciso cosa vuole ordinare, anche se non ha ancora letto il menù.

Gavina ci guarda per un istante, sorpresa. Poi annuisce, quasi commossa da un gesto semplice che non si aspettava.

«Sì… sì, volentieri. Allora vi porto in un posto che conosco io. Niente menù turistici, promesso.»

Poco dopo siamo seduti in una piccola trattoria nascosta tra i vicoli del centro. L’ambiente è caldo, il legno scuro alle pareti contrasta con le luci basse e il profumo nell’aria è una miscela perfetta di spezie, mare e terra.

«Qui fanno uno dei miei piatti preferiti» dice Gavina, sfogliando appena il menù per abitudine, più che per necessità. «Si chiama fregula cun cocciula. È una pasta di semola tipica, piccola, tostata al forno, servita con vongole freschissime e prezzemolo. Semplice… ma se è fatta bene, non la dimentichi più.»

Veronika sorride e si affida ciecamente al consiglio. Io annuisco, curioso.
Skippy, già seduta composta tra me e Veronika, si stropiccia le mani con entusiasmo. Mangia come noi in proporzioni più ridotte e, a giudicare dal modo in cui osserva la cucina, ha già eletto il profumo della fregula come il più buono della giornata.

Quando i piatti arrivano i profumi sono così intensi che per un attimo parliamo poco. Il silenzio si riempie di forchette che sfiorano i piatti e sguardi d’intesa.

Poi, mentre assaporo l’ultimo boccone, mi ricordo di quella domanda rimasta in sospeso.

«Prima ha detto che il tessuto è bisso marino…» mi volto verso Gavina. «Ma non ha finito di spiegare. È davvero fatto con… un mollusco?»

Gavina solleva gli occhi, poi sorride e poggia la forchetta sul bordo del piatto.

«Sì, scusa se ti ho lasciato a metà. Ero troppo presa dai vostri racconti.»

Poi si sistema la sciarpa, quasi a prendersi un momento per trovare le parole giuste.

«Il bisso marino si ricava dai filamenti della pinna nobilis, un mollusco enorme che viveva nel Mediterraneo. Per secoli alcune donne, pochissime in verità, hanno saputo come estrarne quei filamenti, lavarli, filarli a mano, uno per uno. Il risultato è un tessuto leggerissimo, dorato alla luce, che non si deteriora con il tempo. Era usato solo per i paramenti sacri o i vestiti dei re. Cose che non dovevano morire.»

Si ferma un istante.

«In Sardegna c’erano pochissime donne in grado di lavorarlo e ancora meno sono rimaste. Oggi è quasi scomparso. Ecco perché, quando ho visto il vostro frammento… mi si è fermato il respiro. Non si trattava solo di un pezzo raro ma di qualcosa che qualcuno ha voluto proteggere in un modo speciale. Come se il contenuto non dovesse mai essere dimenticato.»

La sua voce si fa più bassa.

«E anche solo per questo… vale la pena continuare a cercare.»

Veronika la guarda in silenzio. Io mi appoggio allo schienale della sedia.
Skippy, con la pancia piena e l’espressione soddisfatta, si avvolge il tovagliolo tra le mani come se fosse una sciarpa e si lascia andare contro la spalliera, occhi chiusi, come a dire: possiamo anche non muoverci più da qui.

È tardi. Eppure nessuno sembra avere fretta.

Ci sono sapori che nutrono il corpo e storie che nutrono il perché.

Fregula cun Cocciula (foto e ricetta Dall-E)

Un regalo prima di dormire

Quando rientriamo a casa di Gavina l’aria sa di terra bagnata e pietra antica. Alghero sembra essersi acquietata, avvolta in un silenzio che non è solo serale ma quasi cerimoniale.

Stiamo per salutare quando Gavina alza una mano, decisa: «Nessuna discussione. Dormite qui. Partiamo presto domattina e non vi lascio certo vagare per la città in cerca di un posto dove dormire. Qui c’è spazio e per stanotte… siete di casa.»

Veronika la ringrazia con un sorriso gentile. Io accenno un piccolo inchino di resa. Skippy, dal canto suo, è già crollata su un tappeto accanto al divano, le braccia dietro la testa e lo sguardo fisso al soffitto, come se fosse arrivata alla fine di un film che le è piaciuto tantissimo.

Poco prima di andare a dormire Gavina si allontana per qualche minuto, poi torna con un piccolo cofanetto di legno scolpito. Lo apre con cura davanti a Skippy e le porge un oggetto avvolto in un pezzo di lino.

«È un bottone in osso. L’ho trovato anni fa durante uno scavo nei dintorni di Alghero. Non è mai stato registrato, era in mezzo a frammenti senza catalogo ma porta un’incisione molto antica. Alcuni pensano sia una semplice decorazione… io non ne sono mai stata così sicura.»

Skippy lo prende tra le mani con delicatezza. Sul fronte, un piccolo segno curvo a spirale inciso a mano. Lo osserva, poi lo infila subito nella sua taschina laterale, dove tiene le cose importanti. Poi si gira verso Gavina, le prende una mano e l’accarezza con il naso, in quel suo modo silenzioso e dolce che ha solo lei.

«Custodiscilo» le dice Gavina. «Forse un giorno ci servirà.»

Poco dopo, ci sistemiamo per la notte. Gavina ci ha preparato una stanza con un letto comodo, lenzuola profumate e un plaid piegato con cura ai piedi del materasso.
Skippy, come sempre, si rannicchia a terra accanto a noi, avvolta nella sua coperta, la testa appoggiata sullo zaino come fosse un cuscino di casa.

Io e Veronika ci infiliamo sotto le coperte in silenzio.

Per un po’, nessuno dice niente.

Poi Veronika si gira verso di me, la voce bassa, quasi un sussurro.
«Secondo te… troveremo davvero qualcosa?»

La guardo nel buio. Le ombre delle tapparelle si muovono lente sul soffitto, disegnando figure che sembrano danzare.

«Non lo so» le rispondo a bassa voce. «Ma se anche non trovassimo nulla… la storia, in qualche modo, ci ha già trovato.»

Lei sorride. Chiude gli occhi, senza dire altro.

Io resto ancora un attimo sveglio, mentre il respiro di Skippy si fa regolare e il profumo del legno e dei libri antichi ci avvolge.

Domani si riparte ma stanotte dormiamo sotto lo stesso tetto della storia.

A volte non è importante trovare qualcosa. È sentirsi trovati da ciò che cercavi

il piccolo souvenir di Skippy (foto Dall-E)

11 – Diario di viaggio Lu Brandali

Entusiasmo e Aspettative

Skippy saltella impaziente attorno a noi, il musetto sollevato, le orecchie tese come se già captasse l’energia del luogo che stiamo per visitare. Vorrebbe correre al sito archeologico subito.

«Prima pensiamo al Cessna» le ricordo «Poi puoi lanciarti all’avventura.»

Lei mi restituisce un’occhiata infastidita, poi si rassegna e si mette all’opera per posizionare i cunei sotto le ruote.

L’aria è ancora fresca, il vento scivola tra l’erba della pista e la macchia mediterranea. Le cinghie delle coperture che stiamo posizionando scattano con un rumore secco.

Quando finalmente terminiamo Skippy si piazza davanti a noi, braccia incrociate e zampa che tamburella nervosa. Poi spalanca le braccia e gesticola con enfasi. Il messaggio è chiaro: «Basta, muovetevi!»

Veronika chiude il vano di carico e si gira verso di me, il volto illuminato dall’eccitazione.

«Pronto?»

Metto lo zaino in spalla, lanciando un’ultima occhiata al Cessna.

«Pronto. Andiamo a vedere questi Giganti.»

Il sito archeologico di Lu Brandali è a pochi minuti di distanza ma l’attesa ci rende impazienti. Saliti a bordo del taxi, l’energia nell’abitacolo è tangibile. Veronika scorre veloce le pagine, gli occhi che brillano. Sta ricontrollando tutto: date, simboli, leggende. Cerca connessioni, conferme, qualcosa che renda tutto ancora più chiaro.

«Non riesco a credere che siamo davvero qui» dice, senza sollevare gli occhi dallo schermo. La sua voce vibra di eccitazione. «Ho letto tanto in questi giorni su questo posto, sulle Tombe dei Giganti, i simboli incisi nelle pietre… Se quello che abbiamo trovato ha anche solo un piccolo collegamento con tutto questo, potrebbe essere incredibile!»

Il suo entusiasmo è contagioso. «Vediamo se la realtà è all’altezza delle aspettative.»

Quando arriviamo Skippy si piazza in testa al gruppo, trotterellando avanti con il musetto in su, il naso che si muove rapido nell’aria: annusa avventura.

Mentre avanza sul sentiero sterrato, Skippy si ferma di colpo. Con le zampe scava leggermente nella terra asciutta e tira fuori un piccolo sasso levigato dal tempo, di un colore rossastro, con venature bianche che sembrano disegni incisi dalla natura. Lo osserva con attenzione, poi lo stringe tra le zampette e lo infila nella sua piccola tasca laterale dello zainetto. Un trofeo, un pezzo di storia tutto suo.

La strada sterrata che conduce al sito è circondata dalla macchia mediterranea. Il cielo sopra di noi è di un azzurro intenso, privo di nuvole.

Ogni passo ci avvicina alla storia. A un luogo che potrebbe nascondere risposte sepolte nel tempo.

Sembra una giornata perfetta.

Ogni grande avventura comincia con un passo deciso… e un cuore pieno di possibilità

il piccolo sasso preso da Skippy (foto Dall-E)

Lu Brandali

Il vento che arriva dal mare scivola tra le fronde dei sugheri, un sussurro discreto che accompagna il nostro passo lungo il sentiero sterrato. L’aria sa di sale e terra calda, un mix che profuma di antico.

Veronika cammina a passo svelto, gli occhi che saltano da un dettaglio all’altro, come se ogni pietra potesse già rivelarle qualcosa. L’entusiasmo le vibra nella voce.

«Ci siamo quasi.» Fa un respiro profondo, cercando di trattenere l’emozione. «Se il simbolo è qui, lo troveremo.»

Davanti a noi il cancello d’ingresso del sito è semplice, in legno, quasi a voler sottolineare che la vera barriera non è fisica ma temporale.

Ci accoglie una guida locale, un uomo sulla cinquantina, con uno sguardo che racconta anni di esplorazioni tra queste rovine. Il suo sorriso è aperto, genuino, nel tono della sua voce c’è l’orgoglio di chi non sta solo spiegando la storia ma la sta raccontando con passione.

«Benvenuti a Lu Brandali.» Allarga un braccio, indicando il sito che si estende oltre il cancello. «Questa è una delle testimonianze più affascinanti della civiltà nuragica qui nel nord della Sardegna.»

Veronika si avvicina, incapace di contenere la sua curiosità.

«Non ho mai visto un sito del genere dal vivo» dice, con un lampo negli occhi. «Sono molto interessata soprattutto a capire di più sulle Tombe dei Giganti

La guida annuisce con un sorriso compiaciuto, lo sguardo che si accende di entusiasmo.

«Ah, i Giganti. Una storia che affascina tutti. Seguitemi.»

Ogni pietra ha una storia da raccontare, basta saperla ascoltare.

Lu Brandali (foto tripadvisor.it)

Tra storia e mito

Seguiamo la guida su un sentiero che si insinua tra antiche capanne nuragiche, alcune ancora ben visibili nella loro forma circolare. Il tempo ha smussato i contorni delle pietre ma il villaggio di Lu Brandali conserva ancora la sua imponenza.

La guida si ferma, allarga le braccia come per abbracciare il panorama antico.

«Quello che vedete attorno a voi è un villaggio nuragico, abitato tra il XIV e il IX secolo a.C.» indica le strutture con entusiasmo. «Un’epoca lontana, in cui la Sardegna era abitata da un popolo che ha lasciato segni profondissimi della sua esistenza: i Nuragici appunto.»

Si volta verso di noi, il viso illuminato da un sorriso.

«Sapete da cosa deriva il nome ‘nuragico’? Dai nuraghi, ovviamente.»

Sorride indicando un punto lontano tra la vegetazione.

«Quella torre laggiù, ad esempio, è un nuraghe. Uno dei migliaia disseminati su tutta l’isola.»

Ci fermiamo ad osservare la struttura appena visibile tra gli alberi.

«I nuraghi erano fortezze ma anche centri abitativi, templi, forse osservatori astronomici. Alcuni hanno una struttura complessa con torri concentriche, cunicoli, pozzi sacri. Pensate: ne esistono più di settemila e, ancora oggi, non conosciamo del tutto la loro funzione.»

Veronika annuisce, affascinata. «Settemila? Quindi era una civiltà molto più avanzata di quanto si pensasse.»

La guida si illumina.

«Esattamente. Per secoli si è pensato che i nuragici fossero una popolazione isolata e primitiva. Oggi però sappiamo che commerciavano con il mondo mediterraneo, influenzando e venendo influenzati da altre culture.»

Si ferma accanto a un’imponente lastra di pietra verticale levigata dal tempo. La superficie è segnata da segni quasi impercettibili, consumati dal vento e dalla pioggia.

«Questa è una delle strutture più importanti del sito.»

Si volta verso di noi e abbassa la voce, quasi con rispetto.

«La Tomba dei Giganti

Settemila torri di pietra e un mistero ancora da svelare.

Tomba dei Giganti (foto nurnet.net)

La leggenda dei Giganti

Ci voltiamo di scatto, come rispondendo a una chiamata silenziosa del passato.

Davanti a noi si erge una lunga sepoltura collettiva, il suo corridoio funerario ormai scoperto, incorniciato da grandi pietre disposte a semicerchio. Il tempo sembra rallentare.

«Le chiamano Tombe dei Giganti» continua la guida «perché le loro dimensioni imponenti hanno alimentato la leggenda che qui fossero sepolti esseri giganteschi.»

Skippy inclina la testa, affascinata.

La guida si avvicina alla pietra più grande e posa una mano sulla superficie ruvida.

«La realtà è diversa» spiega con tono appassionato «ma non meno affascinante. Queste tombe erano destinate ai membri più importanti della comunità nuragica.»

Indica il corridoio centrale scoperto.

«Guardate qui. Era un luogo di sepoltura, sì, ma anche di culto. Gli antichi nuragici credevano nella continuità tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Qui si riunivano per rendere omaggio agli antenati, lasciavano offerte, celebravano riti per chiedere protezione o conoscenza.»

Veronika si avvicina, le dita sfiorano la pietra più grande, come se potesse risalire indietro nel tempo solo toccandola.

«E i Giganti di Mont’e Prama?» chiede, con un filo di eccitazione nella voce. «Potrebbero essere collegati a queste tombe?»

La guida incrocia le braccia e sorride, quasi aspettandosi la domanda.

«Ah, la grande domanda.»

Si ferma un istante, assaporando il momento.

«I Giganti di Mont’e Prama sono un mistero. Statue nuragiche alte fino a tre metri trovate vicino a Cabras.»

Si avvicina a noi e abbassa la voce.

«Nessuno sa con certezza chi rappresentassero: guerrieri? Divinità? Campioni di giochi sacri? Sono unici nel loro genere, non abbiamo trovato nulla di simile in altre civiltà antiche.»

Veronika si sporge leggermente in avanti. «Quindi… potrebbero essere la prova che la civiltà nuragica aveva una cultura più complessa di quanto si pensasse?»

La guida annuisce con un sorriso enigmatico.

«La prova o almeno un indizio.»

Fa una pausa, poi aggiunge con tono più basso, quasi a voler accentuare il peso di quelle parole.

«Alcuni studiosi credono che siano la prima rappresentazione a grandezza naturale di esseri umani mai realizzata nel Mediterraneo. Se così fosse, sarebbero più antichi dei kouroi greci, scolpiti secoli dopo.»

Mi scappa un’esclamazione sorpresa.

«A grandezza naturale? Tre metri, per l’epoca, erano davvero misure da giganti!»

La guida si gira verso di me, con uno sguardo che mescola entusiasmo e mistero.

«Esattamente. Pensateci: fino a quel momento, nessuna civiltà conosciuta aveva scolpito esseri umani a dimensioni così monumentali. Gli Egizi avevano statue colossali ma raffiguravano divinità e faraoni. I Greci, invece, ancora non avevano sviluppato la loro scultura classica.»

Si ferma un istante, lasciando che il concetto si depositi.

«Se queste statue fossero davvero le prime rappresentazioni a grandezza naturale di uomini, cambierebbe tutto ciò che sappiamo sulla storia dell’arte e della scultura nel Mediterraneo.»

Veronika mi lancia un’occhiata rapida. Skippy è immobile, gli occhi spalancati.

L’entusiasmo è alle stelle.

Giganti o antenati? La leggenda scolpita nella pietra continua a sfidare il tempo.

Giganti di Mont’e Prama (foto artemagazine.it)

Il Momento della Verità

Il sentiero si stringe man mano che lasciamo la Tomba dei Giganti alle nostre spalle. La guida ci fa segno di seguirlo senza dire una parola. Le rocce scolpite dal tempo emergono dalla terra come reliquie dimenticate, testimoni di un passato che non ha ancora svelato tutti i suoi segreti. L’aria si fa più densa, il vento ha smesso di soffiare, come se anche la natura trattenesse il respiro.

Veronika cammina avanti, il passo deciso, gli occhi incollati all’orizzonte. Non parla ma il suo corpo tradisce l’agitazione. Sta aspettando. Sta cercando qualcosa.

Poi, all’improvviso, si blocca. Davanti a noi una grande roccia spunta dal terreno.

È quella della foto.

Accelera il passo, il tablet saldo tra le mani. Osserva la superficie, scansiona ogni linea, ogni imperfezione.

Per un attimo, tutto sembra perfetto. Poi, qualcosa cambia.

Veronika si blocca.

Il silenzio si fa denso, quasi tangibile.

«Che succede?» chiedo, avvicinandomi.

Le sue mani tremano leggermente mentre stringe il tablet. Lo sguardo salta dalla foto alla pietra. La sua espressione cambia: prima sorpresa, poi confusione, infine… incredulità.

Il simbolo è simile ma le linee non combaciano.

Skippy abbassa lentamente le orecchie, come se potesse percepire il peso della delusione. La guida ci osserva, incuriosita.

«C’è qualcosa che non va?»

Veronika deglutisce. La sua voce è rotta, come se le parole le pesassero sulle labbra.

«Pensavamo di aver trovato qualcosa di importante.»

La guida inclina la testa, il tono più cauto.

«Sul web abbiamo trovato una foto di questa roccia. Si vedeva questo simbolo inciso sopra. L’immagine era di pessima qualità e sgranata ma credevamo fosse identico a un simbolo scoperto in un antiquario a Bonifacio…»

Fa un respiro profondo.

«Ma ora, vedendola dal vivo, mi rendo conto che è solo simile.»

La guida si avvicina, posa una mano sulla pietra. Le sue dita scorrono lentamente sulla superficie, tracciando le linee del tempo.

Annuisce. «Capisco… sì, capisco bene.» Si volta verso Veronika, con un sorriso che non è di derisione ma di comprensione. «Sapete, l’archeologia è così. A volte trovi quello che cerchi. Altre volte trovi solo nuove domande.»

Veronika non si arrende. Con un gesto deciso, tira fuori la stoffa trovata a Bonifacio e la porge alla guida.

«Guardi. Su questo tessuto, oltre al simbolo, c’è una scritta. Pensavamo potesse essere un collegamento.»

La guida la osserva con attenzione. Passa le dita sulle lettere sbiadite, indugia su ogni segno.

Il silenzio si allunga.

«Effettivamente…» mormora infine grattandosi il mento. «Ci sono delle similitudini.» Il suo tono si fa più incerto. «Avrebbe tratto in inganno anche me.»

Uno spiraglio di speranza. Veronika trattiene il fiato.

«Quindi… potrebbe significare qualcosa?»

La guida sospira. Ci pensa un attimo, poi le restituisce la stoffa.

«Vorrei dirvi di sì ma non posso. Se ci fosse un collegamento… sarebbe una scoperta straordinaria. Tuttavia non ho elementi per confermarlo.»

Veronika stringe la stoffa tra le dita, come se potesse ancora rivelarle qualcosa.

La guida abbassa lo sguardo. «Mi dispiace.»

Silenzio.

Poi il vento torna a soffiare. Portandosi via, forse, anche un pezzo del nostro entusiasmo.

A volte la verità è sfuggente quanto il tempo che l’ha sepolta.

il simbolo sulla stoffa (foto Dall-E)

Una sentinella solitaria

Lasciamo il sito archeologico con passi più lenti.

Skippy cammina accanto a Veronika, le orecchie basse, la coda immobile. Non saltella, non lancia sguardi curiosi ai cespugli o agli uccelli che passano sopra di noi. Di solito evita ogni sforzo inutile ma ora procede come per inerzia.

Veronika scorre le immagini sul tablet ma so che non sta davvero guardando. È come se cercasse una risposta che ormai sa di non trovare.

Mi avvicino e le sfioro la spalla.

«Forse non era la pista giusta… ma magari stiamo solo guardando nel posto sbagliato.»

Lei non dice nulla, si limita ad annuire, lo sguardo ancora perso nel vuoto.

Ci allontaniamo senza parlare. Il sentiero si snoda lungo la costa, tra scogliere a picco sul mare. Il suono delle onde riempie il silenzio tra noi. Veronika ha lo sguardo perso all’orizzonte ma so che sta guardando ben oltre. Sta cercando qualcosa. Sta cercando un senso.

Io non so cosa dirle.

Il faro di Capo Testa si staglia davanti a noi, bianco, immobile, affacciato sull’orizzonte aperto. Un tempo la sua luce guidava i marinai tra queste acque insidiose. Oggi sembra solo vegliare sui pensieri di chi lo osserva.

Veronika si appoggia alla ringhiera, fissando il mare. «E se avessimo sbagliato tutto?»

La sua voce è bassa. Non cerca una risposta. Cerca una certezza.

Per un attimo vorrei trovarla anch’io ma non so se esista. Respiro a fondo. L’odore del mare riempie i polmoni. Un’onda si infrange contro le rocce, schizzando in alto, come se volesse raggiungerci.

Rimaniamo lì, fermi, in silenzio. La luce del giorno comincia ad abbassarsi. Le ombre si allungano sulle scogliere, il cielo assume sfumature dorate.

Guardo il mare con lei. Le onde continuano a infrangersi, indifferenti alla nostra frustrazione.

Poi, senza voltarmi, cerco di alleggerire l’aria.

«Andiamo a mangiare qualcosa di tipico?»

Di solito, queste parole basterebbero a riportarla alla realtà, a farle brillare gli occhi.

Oggi non funziona.

Lei non si muove, non alza lo sguardo. La sua mente è ancora persa tra quelle pietre e simboli incomprensibili.

Come il faro veglia sul mare, anche i dubbi restano immobili, in attesa di una nuova rotta.

Faro di Capo Testa (foto discovergallura.it)

tra storia e mare

Arriviamo a Santa Teresa di Gallura, le case bianche e basse, tipiche dell’architettura mediterranea, si affacciano sulle viuzze strette, immerse tra fioriere e terrazze colorate. Le strade, pavimentate con pietra chiara, riflettono la luce dorata del tramonto.

L’aria profuma di salsedine e cucina casalinga. Dalle finestre aperte escono voci e risate, mescolandosi al suono del vento che porta con sé il respiro del mare.

Santa Teresa ha un fascino discreto, un piccolo borgo affacciato su un passato di marinai, pescatori e commercianti. La sua storia è legata a Bonifacio, la città corsa che si intravede all’orizzonte nelle giornate limpide e nella quale abbiamo passato gli ultimi giorni.

Ora sembra così lontana.

Fu fondata da Vittorio Emanuele I di Savoia per difendere questa costa dalle incursioni piratesche e rafforzare il controllo sardo su queste acque instabili.

Oggi è un luogo dove il turismo si mescola alle tradizioni locali, dove ogni via sembra accoglierti con il calore di un paese che ha imparato a vivere tra mare e vento.

Ma noi non siamo qui per il turismo.

Siamo qui per cercare risposte.

E oggi, quelle risposte non sono arrivate.

A volte le risposte sembrano così vicine da poterle sfiorare ma restano comunque irraggiungibili, come una città sull’orizzonte.

Santa Teresa di Gallura (foto sardegna.info)

il cielo della Sardegna

Propongo un ristorantino che sembra promettente ma Veronika si ferma.

«Preferisco prendere qualcosa da asporto. Poi, scusa ma non ho proprio fame.»

La sua voce è piatta, senza energia. Capisco come si sente. Non ha voglia di stare seduta in un ristorante, così continuiamo a camminare tra i vicoli, senza una meta precisa.

Troviamo un piccolo localino che serve pane carasau caldo con pecorino fuso e miele, una specialità semplice ma perfetta da mangiare passeggiando. Prendiamo anche una porzione di seadas, il tipico dolce fritto ripieno di formaggio, per addolcire l’amarezza della giornata.

Camminando arriviamo fino alla spiaggia di Rena Bianca a pochi passi dal centro. Scendiamo verso la battigia, il rumore delle onde che si infrangono sulla sabbia chiara ci avvolge.

Ci sediamo, il mare davanti a noi immenso e indifferente ai nostri pensieri.

Veronika prende un morso dal pane ma lo mastica distrattamente. Poi abbassa lo sguardo.

«Mi dispiace.»

La sua voce è un soffio.

Mi volto verso di lei, sorpreso. «Per cosa?»

«Per averti portato fin qui… per averti fatto credere che questa fosse una pista sicura.»

Scuoto la testa. Non è così che voglio che la veda.

«Veronika, anche io volevo questa avventura. E comunque…» Fisso l’orizzonte per un istante, poi la guardo e sorrido. «Ti seguirei ovunque.»

Veronika mi osserva, il tramonto riflesso nei suoi occhi chiari. Per un attimo, il peso della giornata sembra alleggerirsi. Skippy si accoccola tra noi, il musetto rivolto verso il mare. Senza pensarci, ci stringiamo tutti e tre, lasciando che il rumore delle onde ci avvolga.

Restiamo così per un po’, ascoltando solo il respiro del mare. Non abbiamo trovato quello che cercavamo ma siamo ancora insieme.

E forse, per ora, è abbastanza.

Le onde portano storie da lontano ma alcune risposte restano sepolte nella sabbia del tempo.

Spiaggia di Rena Bianca (foto sardegnaturismo.it)

Incontro inaspettato

Torniamo verso il centro. Veronika, anche se è ancora presto, vuole rientrare in albergo. Cammina in silenzio, le braccia strette attorno a sé, persa nei suoi pensieri.

Il brusio della cittadina si affievolisce man mano che ci addentriamo nei vicoli. L’aria è più fresca ora, la brezza marina si insinua tra le strade strette, mescolandosi ai profumi delle cucine che cominciano a riempirsi di voci e risate.

Poi, mentre giriamo un angolo, qualcuno ci nota e si blocca.

«Voi…»

La voce ci coglie di sorpresa. Ci giriamo e vediamo una sagoma nel crepuscolo. La poca luce del tramonto non ci permette di distinguere bene il volto ma la postura, il modo in cui si aggiusta la tracolla sulla spalla, ci sono familiari.

Solo quando si avvicina abbastanza lo riconosciamo. È la guida del sito archeologico.

Ci scruta per un istante, poi si passa una mano sulla nuca, come chi sta valutando se parlare o lasciar perdere.

«Non pensavo di incontrarvi di nuovo» dice infine, con un mezzo sorriso incerto. «Ma vi ho pensato tutto il tempo, quando siete andati via mi è venuta in mente una cosa e… forse potrebbe interessarvi.»

Esita un attimo, poi prosegue.

«Una mia collega, ora in pensione… Gavina, se non ricordo male. Anni fa seguiva una pista simile alla vostra o almeno qualcosa di collegato a quei simboli.»

Veronika si illumina all’istante. L’energia che sembrava spenta per tutta la serata riaffiora nei suoi occhi.

«Dove possiamo trovarla?» chiede senza esitazione.

Lui scuote la testa.

«Non lo so con certezza.» Si passa una mano tra i capelli, pensieroso. «Dopo il pensionamento ho perso le sue tracce. So solo che viveva qui a Santa Teresa di Gallura. Forse è ancora in zona.»

Veronika annuisce. Il suo sguardo è già proiettato altrove, la sua mente sta già cercando una soluzione.

«Grazie.»

La guida ci osserva un istante, poi sorride appena.

«Mi sembrava giusto dirvelo. Forse non è nulla… o forse vi porterà più lontano di quanto pensiate.»

Ci stringiamo la mano e lo salutiamo. Lui riprende il cammino, perdendosi tra le ombre della sera, mentre noi proseguiamo verso l’albergo.

Appena entriamo in camera Veronika si lascia cadere sul letto e, senza dire nulla, apre il tablet. Skippy, attenta, si sistema accanto a lei.

Io le osservo per un attimo, sorridendo tra me. Le rivedo finalmente speranzose e questo basta per farmi sentire meglio.

Prendo il necessario e decido di farmi una doccia. L’acqua calda mi scorre sulla pelle, sciogliendo la tensione accumulata durante la giornata. Mi prendo il mio tempo, lasciando che il rumore dell’acqua copra i pensieri.

Quando esco dal bagno, Veronika è ancora lì, lo sguardo incollato al tablet.

«L’ho trovata.»

Mi fermo un attimo, asciugamano ancora tra le mani.

«E le hai scritto?»

«Sì ma ancora nessuna risposta.»

Mi siedo accanto a lei e le passo una mano sulla spalla.

«Diamo tempo al tempo.» Le sorrido, cercando di rassicurarla.

Veronika annuisce ma il suo sguardo non si stacca dallo schermo.

Aspetta. Sperando che qualcosa cambi.

A volte le risposte non vanno cercate, sono loro a trovare te, quando meno te lo aspetti

La Guida di Lu Brandali (foto leonardo.ai)

La risposta che non arriva

La stanza è immersa in una calma irreale. Veronika continua a scorrere il tablet, anche se ormai ha controllato tutto più volte.
Skippy, stanca di aspettare, si è accoccolata accanto a lei ma tiene ancora un occhio aperto, come se anche lei fosse in attesa di qualcosa.

Mi stiracchio, pronto a spegnere la luce.
«Dai, dormiamoci su…»

Veronika esita. Il pollice sospeso a mezz’aria sopra lo schermo. Guarda ancora il tablet, poi sbuffa piano e chiude la chat, le dita lente sul touchscreen.
«Hai ragione…» sussurra.

Si appoggia allo schienale, lasciando che la stanchezza la avvolga.
Skippy si stiracchia con un lungo sbadiglio e le si accoccola accanto, in silenzio.

Le luci si abbassano, la stanza scivola nel buio.
Veronika sospira, chiude gli occhi per un momento. Poi li riapre. Allunga la mano verso il tablet, indecisa se dare un ultimo sguardo.

Si ferma.

Poi, lentamente, spegne lo schermo.

Nessuno lo dice. Ma stiamo tutti aspettando solo una cosa.

Risponderà?

10 + Diario di Viaggio Bonifacio

Bonifacio: tra cielo e terra

Il taxi ci lascia poco fuori dalla città vecchia di Bonifacio. L’aria della sera è piacevolmente fresca e il profumo del mare si mescola a quello della pietra scaldata dal sole. Bonifacio ci accoglie nella sua veste notturna, con le mura illuminate che si stagliano contro il cielo ormai scuro.

«Che atmosfera incredibile» sussurra Veronika mentre attraversiamo la porta d’ingresso della cittadella.

Passeggiamo lentamente lungo le stradine acciottolate, zainetti in spalla. Il silenzio è interrotto solo da qualche passo frettoloso e dalle voci soffuse di chi si gode la serata nei piccoli bistrot incastonati tra le mura. Da quassù il mare è una distesa scura, appena increspata dalla brezza.

«Vederla da terra è completamente diverso» dico, osservando il profilo della città che si allunga fino al bordo della falesia.

Veronika annuisce. «Dal cielo sembrava sospesa tra le onde, quasi un’illusione. Qui invece la senti… solida, antica.»

Attraversiamo la Rue des Deux Empereurs e saliamo verso il Belvédère de la Manichella, il punto panoramico che si affaccia sulle Bocche di Bonifacio. Il mare sotto di noi è un abisso scuro, appena spezzato dai riflessi della luna. Lontano, all’orizzonte, si intravede la sagoma della Sardegna.

«Incredibile. Di giorno sarà tutta un’altra storia. Alcuni posti rivelano il loro vero volto solo con il sole.» sussurra Veronika.

Il vento porta il rumore delle onde che si infrangono contro la base delle falesie, mentre attorno a noi la città si avvolge nei suoi secoli di storie. Poi, all’improvviso, il suono di un messaggio rompe il silenzio. Veronika fruga nello zaino e tira fuori il telefono.

«Irina mi ha scritto» dice, scorrendo il messaggio.

La osservo mentre le dita si muovono veloci sulla tastiera. È da un po’ che non la sentiamo, ma in qualche modo, da quando l’abbiamo conosciuta a Siena, è rimasta con noi.

«Ha ricevuto la cartolina che le ho mandato dal Giglio» continua Veronika, senza staccare gli occhi dallo schermo. «Le ha fatto davvero piacere. Dice che è stata una sorpresa inaspettata, che le ha strappato un sorriso.» Si ferma un attimo, poi aggiunge con un leggero sorriso: «Mi ha chiesto di spedirgliene altre. Dice che è un bel modo di viaggiare con noi, anche solo a distanza.»

Annuisco. «Te l’avevo detto che l’avrebbe apprezzato.»

Veronika rimane in silenzio per qualche secondo, poi scrive ancora qualcosa sul telefono prima di riporlo nello zaino.

«Le ho detto che la richiamerò in questi giorni, quando saremo un po’ più tranquilli qui a Bonifacio

«Giusto. Abbiamo qualche giorno prima di ripartire visto che anche il nostro aereo ha bisogno di attenzioni. È stato un compagno perfetto in questo viaggio e merita cura prima di continuare per le prossime tappe.»

Lei annuisce, poi torna a osservare il mare scuro sotto di noi, come se volesse già immaginare la città che scopriremo con la luce del mattino.

Ogni viaggio lascia segni invisibili, ma quelli più profondi sono nelle persone che incontriamo e nei legami che portiamo con noi, anche a distanza.

Bonifacio vista dall’alto (foto 101-zone.com)

Bonifacio di giorno: tra luce e racconti

Ci svegliamo con la luce dorata del mattino che filtra attraverso le persiane della nostra stanza. L’aria profuma di salsedine che si solleva dalle falesie e si mescola ai primi aromi del caffè che arrivano dalle strade sottostanti. Dopo la lunga passeggiata della sera prima, ci siamo addormentati profondamente, cullati dal silenzio di Bonifacio.

Scendiamo per le strade della cittadella e scopriamo che ora sembra completamente diversa da quella avvolta nell’ombra della notte. I vicoli sono pieni di vita, il suono dei passi sulla pietra si mescola a quello delle voci dei commercianti che sistemano le loro bancarelle.

«Sembra ancora più bella di giorno» dice Veronika mentre raggiungiamo il Belvédère de la Manichella, lo stesso punto panoramico della sera prima. Si ferma un istante, osservando il paesaggio. «Oh wow… è meglio di come immaginavo ieri sera.»

La luce del sole colpisce la falesia bianca, facendola brillare come se fosse scolpita nel marmo. Il mare si apre davanti a noi con sfumature di blu e turchese, la Sardegna sembra quasi a portata di mano.
Dopo qualche minuto in silenzio e contemplazione, decidiamo di fermarci per una colazione prima di continuare l’esplorazione. Ci sediamo in un piccolo caffè all’aperto, con tavolini in ferro battuto che si affacciano su una piazzetta acciottolata. Il profumo dei croissant appena sfornati riempie l’aria.
Veronika mescola lentamente il suo caffè, lo sguardo perso tra le case di pietra chiara. «Bonifacio l’abbiamo vista dall’alto e ora la stiamo vivendo da dentro» dice. Poi solleva lo sguardo e sorride. «Eppure, ho la sensazione che abbia ancora tanto da raccontarci.»

Le sue parole restano sospese mentre ci godiamo la quiete del mattino, il tintinnio delle tazzine, il chiacchiericcio discreto degli abitanti che iniziano la loro giornata.

Dopo la colazione, riprendiamo il cammino verso il Bastione dello Stendardo, una delle fortificazioni più imponenti della città. Le mura spesse e le feritoie raccontano di un passato in cui Bonifacio era una sentinella del Mediterraneo. Dall’alto, la vista sulle Bocche di Bonifacio è spettacolare.

«Da quassù sicuramente riuscivano a controllare ogni nave che passava» dico guardando fuori da una feritoia, sentendomi come una vecchia vedetta.

«E chissà quante storie sono passate da qui.»

A pochi passi da noi, una donna anziana è seduta su una panchina in pietra, avvolta in uno scialle color sabbia che si fonde quasi con il paesaggio. Ha la pelle segnata dal sole e un paio di occhi chiari che sembrano riflettere il mare. Sta intrecciando delle piccole reti di corda, lavorando con gesti precisi e pazienti.

Veronika si ferma a osservarla, incuriosita dal suo lavoro. «Sta riparando una rete?» le chiede con tono gentile.

La donna solleva appena lo sguardo e annuisce. «Le mani devono sempre avere qualcosa da fare, altrimenti invecchiano prima della testa» dice con un sorriso accennato.

Ci osserva per un istante, come se ci valutasse, poi indica un tratto della costa a sud della cittadella. «Vedete laggiù?»

Seguiamo la sua mano e notiamo una rientranza nella falesia, parzialmente nascosta dalle ombre della mattina.

«Quella è la Grotta di Sdragonato» continua la donna. «Da lontano sembra una semplice insenatura ma dentro c’è un’apertura nel soffitto che, vista dal mare, ha la forma perfetta della Corsica.»
Veronika spalanca gli occhi. «Davvero?»

La donna annuisce. «Ogni pescatore qui la conosce. E non è solo per la sua forma. Si dice che il vento, entrando nella grotta, produca un suono profondo, come un respiro che sale dal mare. Alcuni lo usavano per capire quando il tempo stava per cambiare.»

Scambiamo un’occhiata. Questa è una di quelle storie che sembrano fatte per questo viaggio.
«E lei lo ha mai sentito?» chiedo.

La donna sorride, annodando un’altra sezione della sua rete. «Molte volte. Ma bisogna saper ascoltare.»
Rimaniamo per qualche istante in silenzio, lasciando che le sue parole si mescolino al vento che soffia leggero. Poi la ringraziamo e riprendiamo il nostro giro, scendendo lungo il Sentiero Campu Romanilu, un percorso che segue la linea delle falesie. Qui, il vento soffia forte e il mare sotto di noi è di un blu profondo, quasi ipnotico.

Raggiungiamo la Chiesa di Santa Maria Maggiore, la più antica di Bonifacio, con il suo chiostro tranquillo che sembra fermo nel tempo. Qui ci fermiamo per un po’, lasciando che il silenzio e il suono del vento tra le colonne completino i nostri pensieri.

Bonifacio non è solo una fortezza sospesa tra mare e cielo. È una città viva, un luogo che cambia volto con la luce e con il tempo, capace di regalare emozioni diverse a ogni passo.
Veronika si appoggia al muro di pietra, osservando il cielo terso sopra di noi. «Questa città sembra non voler svelare tutto subito. Ti lascia sempre con la sensazione che ci sia ancora qualcosa da scoprire.»
Annuisco, guardando il mare all’orizzonte. Il vento soffia tra le falesie, sollevando un sussurro che sembra davvero un respiro profondo.

«Forse è per questo che riesce a farsi ricordare.»

Ci sono luoghi che non si svelano subito ma ti lasciano sempre con la sensazione che abbiano ancora qualcosa da raccontare. Bonifacio è uno di questi: un respiro sospeso tra mare e cielo che continua a farsi ascoltare.

L’anziana signora (foto Leonardo.ai)

Un momento sospeso

Le strade di Bonifacio si snodano in un intricato labirinto di vicoli stretti, scalinate improvvise e archi che si aprono tra le case di pietra. Il sole è alto nel cielo, scaldando la città con una luce dorata che si riflette sulle pareti chiare degli edifici. Skippy cammina accanto a noi, scodinzolando con il suo solito entusiasmo, esplorando ogni centimetro come se volesse imprimerlo nella memoria.

Poi, tutto accade in un istante.

Un ringhio basso rompe l’armonia del momento. Un grosso cane legato davanti a una porta sbuca improvvisamente dall’ombra e abbaia con forza. Skippy si irrigidisce, le zampe inchiodate a terra, la coda tesa. Per un attimo tutto sembra sospeso, poi il suo istinto prende il sopravvento. Scatta in avanti con un balzo, si infila tra due vicoli stretti e scompare dietro l’angolo.

«Skippy!» La mia voce rimbalza sulle pietre ma è già troppo tardi.

Veronika impallidisce. Il respiro si spezza nel petto mentre parte di corsa, gli occhi spalancati, il panico che si fa largo nel suo sguardo. Io le vado dietro, cercando di mantenere il controllo. Non può essere andata lontano. Non può.

Ci dividiamo senza bisogno di dircelo. Io corro verso il porto, lei si infila in una delle tante scalinate che salgono verso la cittadella. Veronika corre senza fermarsi, ma il respiro è spezzato dall’ansia. La vedo stringersi una mano al petto, come se volesse trattenere il cuore che le martella dentro. Ad ogni svolta, rallenta per un istante, scruta il vicolo successivo con occhi spalancati, sperando di scorgere Skippy. Poi riparte, ancora più veloce.

A un tratto si blocca di colpo. Gira su se stessa, il fiato corto. Un rumore più avanti la fa trasalire. Uno scalpiccio rapido, un’ombra che si muove tra le case.

«Skippy?»

Ma è solo un gatto che scivola veloce dietro un muretto.

La tensione nel suo volto si fa più dura. Per un attimo, il pensiero che stavolta sia davvero diversa, che non la ritroveremo, attraversa anche me. Le nostre voci risuonano tra le vie, il nome di Skippy si disperde tra i muri antichi, tra le risate dei turisti ignari e lo scalpiccio della gente che va e viene. Ogni passo è un macigno nello stomaco.

Fermiamo chiunque incrociamo. Un’anziana scuote la testa con aria gentile, un commerciante indica un vicolo senza convinzione, un bambino ci guarda incuriosito prima di scrollare le spalle. Nessuno l’ha vista. Nessuno ha notato una piccola volpe sfrecciare tra le strade.

Il tempo si allunga in modo insopportabile.

Veronika si ferma di colpo nel mezzo di una piazzetta assolata. Le mani tremano leggermente mentre si stringe ai fianchi. Il petto le si alza e abbassa troppo velocemente, come se il respiro le sfuggisse. Quando si gira verso di me, i suoi occhi sono lucidi. Per un istante sembra che stia per piangere.

«Camillo, se l’abbiamo persa davvero?»

Mi avvicino, le poggio una mano sulla spalla. «Non l’abbiamo persa. È Skippy.» Cerco di suonare sicuro ma il nodo nello stomaco si stringe ancora di più. «E Skippy va dove c’è cibo.»

Veronika scossa la testa. «E se stavolta fosse diverso? Se qualcuno l’avesse presa? O se fosse uscita dalla cittadella? Se…»

«No.» La mia voce è più ferma di quanto mi senta davvero. «Non è successo niente di tutto questo. La troveremo.»

Ma anche dentro di me inizia a insinuarsi un dubbio, un pensiero che fino a pochi minuti fa sembrava impossibile. Se questa volta non fosse solo una delle sue marachelle? Se ci fosse davvero qualcosa di cui preoccuparsi?

Poi, all’improvviso, un suono.

Risate infantili, un brusio gioioso che rimbalza sulle pietre. Un piccolo guaito familiare. Il mio cuore fa un balzo.

«Veronika…» Lei mi guarda, poi corre nella mia stessa direzione.

Sbuchiamo in una stradina laterale e la vediamo.

Skippy è seduta in mezzo a un gruppo di bambini corsi, con le orecchie abbassate e il musetto sporco di briciole. Tra le zampe tiene stretto un pezzo di pane, mentre un bambino le allunga un altro boccone ridendo.

Veronika si blocca di colpo. Si porta una mano alla bocca, chiude gli occhi come se volesse trattenere un’emozione troppo forte da gestire. Io mi passo una mano sul viso, cercando di ritrovare un minimo di compostezza.

«Skippy.» La mia voce è più morbida adesso, quasi un sospiro di sollievo.

Lei alza gli occhi, inclina la testa di lato. Ci guarda come se fossimo noi a esserci persi, non lei.

Veronika si inginocchia lentamente, ancora troppo sconvolta per parlare. Skippy abbassa il musetto, poi le si avvicina, poggiando delicatamente la testa contro la sua spalla.

Non è un gesto qualunque. È una richiesta di scusa.

Veronika la stringe forte, affondando le dita nel suo pelo morbido. «Non farmi più una cosa del genere…» sussurra, la voce ancora tremante.

Skippy non si muove. Resta lì, immobile, come se sapesse esattamente quanto l’ha fatta preoccupare.

Finalmente, dopo un lungo momento, Veronika si stacca leggermente. Io prendo un respiro profondo e scuoto la testa. «Mi hai fatto prendere un infarto, piccola monella.»

Skippy mi lancia uno sguardo innocente, poi si stringe un po’ di più contro Veronika, che ancora la tiene stretta tra le braccia, come se volesse assicurarsi che non svanisca di nuovo.

Poi Veronika nota qualcosa tra le zampe di Skippy.

Un piccolo pezzo di corda marinara logora, consumata dal tempo e dal sale. Lo prende con delicatezza, scorrendo le dita sul nodo al centro, fatto in fretta, come se fosse stato annodato da mani piccole e veloci. Forse uno dei bambini gliel’ha infilato per gioco o forse lo ha trovato per terra, raccolto chissà dove.

Guardo il piccolo intreccio, le sue fibre ancora resistenti nonostante l’usura. Un nodo. Un legame che tiene, anche quando sembra logorato.

«È perfetto» dico. «Un nodo per ricordarci che, qualunque cosa accada, ci ritroveremo sempre.»

Skippy si accoccola meglio tra le braccia di Veronika, lasciandosi stringere ancora un istante. Salutiamo i bambini, li ringraziamo e finalmente riprendiamo la strada.

Bonifacio è la stessa di stamattina, eppure mi sembra diversa. Forse perché adesso sappiamo cosa significa davvero perdere qualcosa di prezioso.

Forse perché non importa quante avventure ci aspettano… finché siamo insieme, sarà sempre un viaggio straordinario.

Ci si può perdere in mille strade, tra dubbi e timori, ma i veri legami restano, come nodi che il tempo logora senza mai sciogliere del tutto.

la cordina (foto Dall-E)

L’orizzonte davanti a noi

Cercando di calmare il cuore che ancora batteva pesantemente nel petto, ci siamo ritrovati a camminare senza una vera direzione, seguendo il suono del vento e delle onde. I passi ci hanno portato fino a quello che scopriamo essere il Cimitero Marino di Bonifacio. È un luogo sospeso tra cielo e mare, in cima alle falesie, con le sue cappelle bianche che sembrano piccole case eterne rivolte verso l’orizzonte. Qui tutto è avvolto da un silenzio solenne, rotto solo dal vento che scivola tra le pietre e dal respiro del Mediterraneo che si infrange sulla roccia sottostante.

Ci sediamo su una panchina, lasciando che l’aria salmastra ci riempia i polmoni. Il sole inizia la sua lenta discesa. È uno di quei momenti in cui il tempo sembra sospendersi, in cui ogni pensiero si allinea con il ritmo della natura, come se fosse stato sempre lì, in attesa di essere ascoltato.

Veronika osserva il cimitero, il suo sguardo si perde tra le cappelle che si affacciano sul Mediterraneo. Il vento le solleva qualche ciocca di capelli ma lei non se ne accorge, assorta in un pensiero che solo dopo un lungo istante si trasforma in parole.

«Qui i morti riposano di fronte al mare. Chissà se lo sentono ancora. Chissà se, in qualche modo, viaggiano ancora anche loro.»

La guardo, poi rivolgo gli occhi all’orizzonte. Il mare è vasto, infinito, eppure così familiare. Un confine che non separa, ma collega.

«Forse sì» rispondo piano. «O forse sono loro a custodire tutte le storie che passano di qui.»

Lei annuisce lentamente. «In un certo senso, non si è mai fermi. Anche nella quiete, il tempo continua a scorrere, le onde continuano a modellare la roccia. Viaggiamo anche quando non ci muoviamo.»

Le sue parole si dissolvono nel vento e rimangono sospese nell’aria, come se Bonifacio stessa le avesse accolte, riconoscendone il senso profondo.

Mi giro verso di lei. «Siamo diversi da quando abbiamo lasciato Bologna

Non lo dico per dire, lo sento nel profondo. Siamo partiti con la voglia di esplorare il mondo, e invece il mondo sta esplorando noi. Ci ha messi alla prova, ci ha sorpresi, ci ha lasciato addosso le sue storie, i suoi volti, le sue cicatrici.

Veronika annuisce, il riflesso del sole nei suoi occhi chiari. «E lo saremo ancora. Ci siamo lasciati modellare da ciò che abbiamo visto e dalle persone che abbiamo incontrato. E continueremo a cambiare.»

Ci fermiamo ancora un attimo, lasciando che il senso di tutto questo viaggio si depositi dentro di noi, come la risacca che leviga la pietra, lenta ma inarrestabile.

Davanti a noi, la Sardegna è un’ombra appena accennata contro il cielo infuocato dal tramonto. Un’altra terra che ci aspetta. Un’altra avventura da vivere.

Ci alziamo senza fretta, con la consapevolezza che questa volta non ripartiremo subito. Bonifacio ci ospiterà ancora per qualche giorno. Il nostro aereo ha bisogno di attenzioni, così come noi abbiamo bisogno di lasciare sedimentare tutto quello che questo viaggio ci ha regalato prima di riprendere il volo.

L’avventura non è finita.

L’avventura, in fondo, non finisce mai.

09 + Diario di Viaggio

Arrivo ad Ajaccio

Non appena scendiamo dall’aereo, una leggera brezza porta con sé il profumo della salsedine, mescolato a quello più secco della macchia mediterranea. Saliamo su un taxi diretto verso il centro. L’auto lascia l’aeroporto Napoléon Bonaparte e si immette sulla strada che costeggia la baia, offrendo scorci improvvisi sul mare.

L’autista, un uomo sulla quarantina con la pelle bruciata dal sole e un accento corso marcato, guida con la calma di chi è abituato al ritmo lento dell’isola. Dopo qualche minuto di silenzio, la mia curiosità ha il sopravvento.

«Ajaccio… è un nome particolare. Da dove viene?» chiedo.

L’uomo sorride appena, come se si aspettasse la domanda. «Eh, bella domanda!» risponde, senza distogliere lo sguardo dalla strada. «Ci sono tante teorie ma nessuno lo sa con certezza. Alcuni dicono che venga dal greco Agation, che significa ‘buon porto’. Sarebbe un nome antico, legato ai primi insediamenti della zona.»

Veronika, seduta accanto a me, si inserisce nella conversazione. «Ho letto anche che potrebbe derivare da Aiace, l’eroe greco.»

L’autista annuisce. «Sì, c’è anche questa ipotesi. Un tempo si diceva che Ajaccio fosse stata fondata dai Greci ma non ci sono prove certe. Poi c’è chi sostiene che il nome venga da una parola corsa molto antica, che oggi è andata perduta.»

Osservo la città ormai vicina. Un traghetto in arrivo, probabilmente dalla Francia, sta lasciando la baia con una scia bianca sulle onde. Il porto, pieno di barche a vela e pescherecci, brilla sotto il sole. Sul lungomare i caffè all’aperto sono animati da turisti e locali che si godono la mattina con un caffè o un bicchiere di vino.

L’autista continua stringendosi nelle spalle con un sorriso. «Ajaccio è… un po’ corsa, un po’ francese, un po’ greca… ma sempre con il sole e il mare a farle da padroni.»

Poco dopo, il taxi si ferma lungo Boulevard du Roi Jérôme, proprio accanto al mercato cittadino. Davanti a noi il vociare allegro dei venditori riempie l’aria, i profumi delle spezie, del formaggio e del pesce fresco si mescolano nell’atmosfera vivace del mattino.

«Ecco, signori» dice l’autista, voltandosi verso di noi. «Benvenuti ad Ajaccio

Ogni città ha il suo cuore e la sua anima ma Ajaccio sembra aver intrecciato il suo destino con il mare, il sole e la storia. Qui tutto scorre lentamente, come se il tempo fosse un’eco delle onde che accarezzano la costa.

Statua di Napoleone in toga romana (foto expedia.it)

La casa di Napoleone

Dopo aver salutato l’autista, ci incamminiamo nelle strade del centro storico di Ajaccio. L’aria profuma di salsedine e caffè, il ritmo lento ci avvolge fin da subito. Decidiamo di visitare la Maison Bonaparte, che non è lontana. Seguiamo una via stretta fino a una piazzetta tranquilla, dove l’edificio si mimetizza tra le altre abitazioni. È sobrio, quasi anonimo, come se volesse nascondere il suo passato.

«Questa casa apparteneva alla famiglia Bonaparte fin dal XVI secolo,» dice Veronika, leggendo il pannello informativo accanto al portone in legno scuro, su cui è incastonato un piccolo stemma di famiglia. «Qui nacque Napoleone il 15 agosto 1769

Mi fermo a osservare la facciata. Nessun palazzo sontuoso, nessun ingresso trionfale. Solo una casa come tante.

«Chissà se qualcuno, vedendolo bambino correre per strada, avrebbe mai immaginato che sarebbe diventato l’imperatore di Francia» commento mentre varchiamo la soglia.

All’interno l’atmosfera è ovattata, quasi sospesa nel tempo. Le mura spesse mantengono un fresco naturale e i nostri passi risuonano leggeri sul pavimento in pietra consumato dagli anni. L’arredamento è semplice: mobili in legno scuro, ritratti di famiglia alle pareti, un grande focolare annerito dal fumo.

Ci fermiamo in una stanza con una finestra aperta sulla via sottostante. Veronika indica un piccolo scrittoio vicino alla parete.

«Si dice che Napoleone passasse ore qui a leggere» mi racconta, sfiorando il bordo del tavolo. «Sua madre, Letizia Ramolino, lo descriveva come un bambino serio che non perdeva tempo in giochi inutili.»

Inarco un sopracciglio. «Sicura? Suona un po’ come il ritratto perfetto che ci si aspetterebbe da una biografia glorificata.»

Veronika sorride. «Già, la storia è scritta dai vincitori. Magari era solo un bambino normale.»

Osservo una teca accanto allo scrittoio. Contiene una lettera scritta dal giovane Napoleone. L’inchiostro sbiadito riporta parole che parlano di ambizione ma anche di nostalgia per la sua isola.

«Pensa a quanti leader della storia sono stati ‘ricostruiti’ fin da piccoli come personaggi fuori dal comune» dico. «Come se fin dalla culla sapessero di essere destinati a qualcosa di straordinario.»

Veronika annuisce. «È la narrazione che crea il mito. Nessuno nasce imperatore.»

«Eppure, guarda dove siamo» dico, indicando la casa intorno a noi. «Per qualcuno la storia inizia davvero in una stanza come questa.»

Proseguiamo il nostro giro, passando per la sala da pranzo, dove la famiglia si riuniva ogni sera. Nell’ultima sala un grande ritratto di Letizia Ramolino domina la parete.

Veronika si ferma a leggere una targa. «Sai cosa trovo curioso?»

«Dimmi.»

«Napoleone ha conquistato mezza Europa, ma negli ultimi anni della sua vita, in esilio a Sant’Elena, parlava sempre della Corsica. Diceva che gli mancavano il sole, il mare, persino l’accento della sua gente.»

Esco dalla porta e mi fermo un attimo sulla soglia.

Forse, in fondo, nessuno si allontana mai davvero dalle proprie radici. O forse, quando tutto finisce, è proprio lì che si vuole tornare.

Ajaccio è un luogo che si racconta nei dettagli. A volte la vera bellezza non è nei monumenti ma nelle piccole storie che ogni città sussurra ai suoi visitatori.

La casa di Napoleone (foto musees-nationaux-malmaison.fr)

Il piccolo Napoleone di Skippy

Appena usciti dalla Maison Bonaparte, ci fermiamo un istante sulla soglia per lasciarci alle spalle l’atmosfera ovattata della casa. L’aria di Ajaccio, calda e vivace, ci riporta subito al presente.

Skippy, invece, sembra avere le idee chiare. Punta il muso verso una bancarella per turisti poco distante e ci si dirige con passo deciso. Ci scambiamo un’occhiata divertita e la seguiamo.

Il venditore, un uomo anziano con un cappello di paglia e un grembiule colorato, ci accoglie con un sorriso. «Ah, vedo che la vostra piccolina ha già scelto» dice indicando una piccola statuina di Napoleone bambino, vestito con l’uniforme da generale che indosserà anni dopo nei celebri ritratti ufficiali.

Il contrasto tra il volto infantile e l’abbigliamento severo mi strappa un sorriso. «È perfetta. Un Napoleone in miniatura che gioca a fare l’imperatore.»

«Dicono che la grandezza si veda fin da piccoli… O forse è la storia che ama raccontarla così.» commenta il venditore con un sorriso malizioso.

Pago mentre Veronika osserva il piccolo Napoleone con curiosità. «Curioso come a volte si crei un’icona prima ancora che esista il personaggio» dice.

«Già, e Skippy ha scelto proprio bene» rispondo, guardandola stringere il suo nuovo tesoro con orgoglio.

il piccolo Napoleone di Skippy (foto Dall’-E)

Il destino di un’eredità

Ci incamminiamo per le strade della città, lasciandoci trasportare dal ritmo lento di Ajaccio. L’aria del primo pomeriggio è tiepida, carica del profumo di spezie che arrivano dal mercato vicino.

Troviamo una panchina in una piazzetta tranquilla, sotto l’ombra leggera di un platano. Decidiamo di fermarci un attimo, lasciando vagare lo sguardo sulla città.

«Sai che qui esiste una strada che si chiama Rue Roi de Rome?» dice Veronika, sfogliando la guida.

«Il Re di Roma… il figlio di Napoleone?» chiedo, cercando di ricordare qualcosa di quel nome che suona più simbolico che reale.

Lei annuisce. «Sì, Napoleone Francesco, suo unico figlio legittimo. Lo fece nascere con un titolo grandioso ma il destino non gli concesse mai il trono.»

Veronika continua a leggere mentre si sistema meglio sulla seduta. «Napoleone voleva creare una dinastia e quando nacque suo figlio nel 1811, lo dichiarò subito Re di Roma, per legarlo alla grandezza dell’antico Impero Romano. Ciò che doveva essere l’inizio di una nuova dinastia si trasformò però presto in un capitolo dimenticato della storia.»

Mi appoggio allo schienale, incuriosito. «Raccontamela, ti prego.»

«Quando Napoleone fu sconfitto e mandato in esilio sull’Elba, il piccolo Napoleone Francesco aveva solo tre anni. Nel 1815, dopo la disfatta di Waterloo, fu portato a Vienna, lontano dalla Francia e crebbe sotto la protezione dell’imperatore austriaco, suo nonno materno. Gli cambiarono il nome, la lingua, perfino l’identità. Doveva essere un Bonaparte, ma divenne un Asburgo. Gli vietarono persino di parlare francese.»

Faccio scorrere lo sguardo sulla strada davanti a noi, immaginando quel bambino che era nato con la promessa di un impero e si ritrovò invece prigioniero della storia.

«Quindi è cresciuto in Austria. Che cosa ne è stato di lui?»

Veronika sfoglia ancora qualche pagina. «Morì giovane, a soli 21 anni, di tubercolosi. Isolato, malato e con la consapevolezza di essere stato una pedina in un gioco molto più grande di lui.»

Resto in silenzio un momento. «Non è paradossale? Suo padre ha riscritto il destino dell’Europa e lui è stato cancellato dalla storia prima ancora di avere una possibilità. Forse è il destino di chi nasce con un nome troppo grande. A volte il peso dell’eredità è più forte della possibilità di scrivere la propria storia.»

Veronika chiude la guida e incrocia le braccia. «Spesso chi eredita una grandezza non è capace di portarla avanti. Forse perché non ha lottato per ottenerla. Napoleone si è costruito da solo, è partito da un’isola piccola come questa e ha conquistato un continente. Suo figlio, invece, è nato con tutto e non ha potuto fare niente.»

«È un classico» commento. «La prima generazione costruisce, la seconda mantiene, la terza distrugge.»

Lei annuisce. «Ed è successo anche con la famiglia Bonaparte. Dopo Napoleone Francesco, ci fu un altro Napoleone, il terzo, che riuscì a diventare imperatore. Un ultimo tentativo di riportare in vita un’epoca che non esisteva più. Tuttavia il suo regno finì con una guerra disastrosa e la dinastia sparì.»

«E oggi? Ci sono ancora discendenti?»

Veronika scorre con il pollice sullo schermo, poi solleva lo sguardo con un sorriso leggermente sorpreso.

«Sembra che il discendente attuale sia Jean-Christophe Napoléon, non è un generale ma un banchiere in Svizzera. Non comanda eserciti ma gestisce investimenti. Il potere cambia volto con i secoli.»

«Forse è meglio così» rifletto. «Forse governare un impero oggi non significa più conquistare terre, ma gestire capitali.»

Lei sorride. «I tempi cambiano. Pensa a quanto può essere pesante avere quel cognome. Essere l’erede di un uomo che ha lasciato un’impronta nella storia.»

Incrocio le mani dietro la testa e guardo il cielo limpido sopra di noi. Forse il peso di un’eredità è proprio questo: non poter mai essere semplicemente sé stessi.

Veronika annuisce, osservando per un istante la strada davanti a noi, poi mi lancia uno sguardo complice.

«Andiamo?»

Sorrido, stirandomi le braccia mentre riprendiamo a camminare.

Mentre ci alziamo, il sole inizia a scendere, allungando le ombre lungo la Rue Roi de Rome. Ajaccio è una città che conserva le sue memorie, ma il tempo, come sempre, continua ad andare avanti. E forse, in fondo, ogni città vive con i suoi fantasmi, alcuni più ingombranti di altri.

Una corsa tra le Bancarelle

Riprendiamo a camminare tra le vie di Ajaccio seguendo il richiamo del vociare che si fa più intenso. Il mercato cittadino si svela poco a poco: un’esplosione di colori e profumi, con bancarelle colme di frutta succosa, spezie aromatiche, formaggi stagionati e dolci tradizionali.

All’improvviso Skippy scatta in avanti, dribblando con agilità tra le gambe dei passanti e sgusciando tra due bancarelle come un’ombra fulminea.

«Ehi, dove credi di andare?!» esclamo, mentre lei scompare in mezzo alla folla.

Ci infiliamo rapidamente tra la gente, cercando con lo sguardo la nostra piccola esploratrice. Per un attimo non la vediamo, poi finalmente la troviamo, seduta composta accanto a un banco che espone una grande cesta di canestrelli.

Il venditore, un uomo sulla cinquantina con un grembiule bianco e una barba curata, ci osserva ridendo. «Mi sa che la vostra amica è una vera intenditrice.»

Skippy sbatte le palpebre con aria innocente, come se niente fosse. Ma il sottile strato di zucchero sul suo musetto la tradisce senza possibilità di appello. Ci guarda senza scomporsi mentre guadagna un altro biscotto che accetta con gioia, mordicchiandolo con espressione soddisfatta.

Mentre ridiamo della scena, il venditore prende un pezzo di brocciu fresco e ce lo porge. «Assaggiate questo.»

Sorrido. «Lo conosciamo bene, è uno dei nostri preferiti.»

«Ah sì? Ma lo avete mai provato in questo modo?»

Prende un cucchiaino, lo immerge in un barattolo di confettura di fichi e noci, poi ne spalma un velo sottile su un pezzo di brocciu prima di porgercelo.

Il sapore cambia completamente. Il dolce intenso del fico si mescola alla croccantezza della noce e alla cremosità del formaggio, creando un equilibrio perfetto.

Veronika chiude gli occhi per un istante, assaporandolo lentamente. «Non l’avevo mai provato in questo modo. È buonissimo.»

Scambiamo uno sguardo d’intesa e senza esitare acquistiamo un pezzo di brocciu e un vasetto di confettura, per la gioia di Skippy che scodinzola soddisfatta.

Il venditore ci osserva con un sorriso mentre incarta il nostro bottino, poi solleva lo sguardo con un’espressione quasi divertita. «Sapete, a volte siamo così sicuri di conoscere qualcosa solo perché l’abbiamo già visto o assaggiato… Ma basta poco, un dettaglio diverso, per scoprire un sapore che non avevamo mai notato. Bisogna sempre lasciare spazio alla sorpresa.»

L’aria è ancora satura di profumi intensi, il vociare dei venditori si mescola al suono delle onde in lontananza. Con il nostro bottino tra le mani e il sapore del brocciu ancora sulle labbra, proseguiamo senza fretta, lasciandoci trasportare dal ritmo di Ajaccio.

Mercato di Ajaccio (foto ajaccio-tourisme.com)

Street Food Corso

Ci rendiamo conto che l’assaggio del brocciu ci ha messo fame. L’idea di un pranzo veloce ma autentico ci attira più di un ristorante formale, così continuiamo a camminare per le vie di Ajaccio alla ricerca di qualcosa di semplice ma tipico.

«Qualcosa di più locale, senza troppi fronzoli» dico, mentre osserviamo i menu scritti a mano fuori dai ristoranti.

Veronika annuisce, scorrendo con lo sguardo le insegne in legno e le lavagnette nere con gessetti colorati. Poi, proprio dietro l’angolo di una strada stretta, notiamo un piccolo chiosco con una fila di persone in attesa. Il profumo che arriva da lì è irresistibile: un misto di farina tostata, formaggio fuso e spezie.

Ci avviciniamo. L’insegna recita “A Casetta Corsa”, un nome semplice ma che promette autenticità. Dietro al bancone, un uomo sulla cinquantina, con un grembiule annodato in vita, mescola con energia una densa polenta color nocciola in un grande paiolo di rame, da cui si sprigiona un aroma caldo e invitante.

«Pulenta di farina di castagne e migliacci fritti» dice l’uomo con un sorriso fiero. «Se volete provare la vera Corsica, siete nel posto giusto.»

Ci scambiamo uno sguardo e annuiamo senza esitazione.

«Uno di tutto» dico e Veronika ride.

Troviamo una panchina con vista sul porto e ci sistemiamo con un vassoio colmo di sapori corsi, il sole che si riflette sull’acqua e la brezza marina che smorza il calore del giorno.

La pulenta, fatta con farina di castagne, ha una consistenza morbida e un sapore leggermente dolce e affumicato, perfetto con le fette di prisuttu e lonzu servite accanto. Le migliacci, fragranti e leggere, nascondono un ripieno cremoso di formaggio e erbe aromatiche.

Addento un pezzo di migliacci, lasciando che il formaggio fuso si sciolga sulla lingua.

«Quefto è buoniffimo» commento a bocca piena.

Veronika sorride assaporando lentamente la polenta. «Dolce e salato insieme… interessante.»

Skippy, seduta ai nostri piedi, sta divorando con entusiasmo le frittelle che le abbiamo preso. Cerca di mantenere una certa dignità ma il modo in cui le sbriciola e le lecca con espressione estasiata la tradisce completamente.

L’aria salmastra, il sole che scalda la pelle e il sapore intenso di questa terra ci fanno assaporare ogni istante. Il porto brilla sotto la luce del giorno, il tempo sembra scorrere più lento. Restiamo così per un po’, immersi nella quiete.

Poi, con un sorriso, rompo il silenzio: «Sai cosa manca ora?»

Veronika mi guarda, sollevando un sopracciglio.

«Un caffè.»

Polenta Corsa (Dall-E)

Un caffè e un incontro che cambia tutto

Passeggiamo lungo il porto finché non troviamo un piccolo bar con tavolini all’aperto. L’atmosfera è tranquilla, perfetta per concludere il pranzo con qualcosa di forte e aromatico.

Ci sediamo e ordino un café noisette, il tipico caffè francese con un goccio di latte. Quando arriva, lo osservo un attimo: la crema dorata sulla superficie si mescola al latte in una spirale perfetta. Ne assaporo un sorso, lasciando che il gusto intenso e leggermente nocciolato risvegli i sensi.

«Buono?» chiede Veronika.

«Molto. Ha quella rotondità che a volte manca al nostro espresso» rispondo, godendomi il momento.

Accanto a noi, a un tavolino vicino, un anziano sta bevendo il suo caffè con calma, osservando la piazza con lo sguardo di chi ha visto il mondo cambiare ma non ha fretta di seguirlo. Mentre assaporo il caffè, noto che l’uomo ci osserva con un mezzo sorriso e scuote la testa con aria pensierosa, come se volesse dirci qualcosa.

Quando Skippy si mette a giocare con la statuina di Napoleone sul tavolo, lui sorride.

«Allora, anche voi siete venuti a trovare l’imperatore?» chiede, con un accento corso marcato.

Ci scambiamo uno sguardo. «In un certo senso» risponde Veronika.

L’uomo annuisce lentamente, sorseggiando il suo caffè. «Sapete… tutti vengono qui con un’idea di Napoleone. Alcuni lo vedono come un eroe, altri come un tiranno. Pochi si chiedono cosa fosse davvero per noi corsi.»

Mi incuriosisco e mi sporgo leggermente in avanti. «E per voi cos’era?»

L’anziano resta in silenzio per qualche secondo, come se riflettesse su come rispondere. Poi posa la tazzina e incrocia le mani sul tavolo.

«Era uno di noi ma non lo era più. Un figlio della Corsica ma un francese per scelta. Un uomo che ha costruito un impero ma che si è dimenticato della sua isola.»

Resto in silenzio, colpito dalla semplicità e dalla profondità di quelle parole.

Lui continua, con lo sguardo rivolto al mare. «Napoleone ha portato la Corsica nel mondo ma non ha mai riportato il mondo in Corsica. Ha lasciato Ajaccio da giovane e non si è mai più voltato indietro. Qui la gente lo rispetta, certo, ma c’è sempre stata un’ombra su di lui. Perché non ha mai fatto nulla per noi? Con tutto il potere che aveva… perché?» fa una pausa, poi continua «Oggi il suo nome è ovunque: piazze, statue, scuole. Per molti di noi, tuttavia, resta un’ombra che ci osserva dall’alto, senza mai davvero appartenere a questa terra.»

«Forse perché sapeva che non l’avrebbero mai accettato come corso» ipotizza Veronika.

L’anziano sorride, come se avesse sentito quella risposta molte volte. «O forse perché non voleva più esserlo.»

Un silenzio cade sul tavolo. Guardo la statuina di Napoleone nelle mani di Skippy. Un bambino corso vestito da imperatore. Un simbolo di qualcosa che forse non è mai esistito davvero.

L’uomo riprende il suo caffè e lo finisce in un solo sorso. Poi si alza, sistemando la sedia con calma.

«Vi auguro buon viaggio» dice. «E ricordate… la storia non è mai come ce la raccontano. È come scegliamo di vederla.»

Anziano di Ajaccio (foto leonardo.ai)

Lo osserviamo allontanarsi tra le strade di Ajaccio, lasciandoci con un pensiero che prima non avevamo.

Napoleone, l’uomo che ha cambiato il mondo, era davvero uno di loro? O era solo qualcuno che aveva imparato a essere altro?

Il sole scende lentamente sul mare. Veronika finisce il suo caffè in silenzio. Io lascio che il sapore dell’ultimo sorso mi rimanga sulla lingua, insieme alle parole di quell’uomo.

La Corsica ci ha dato una nuova prospettiva su Napoleone. E forse anche su di noi. Perché ogni viaggio, in fondo, è fatto di domande che non trovano sempre risposta ma che restano con noi come il sapore dell’ultimo sorso di caffè.

Ogni grande cambiamento ha origine in un incontro. A volte basta una parola, un gesto o un momento per deviare il corso della storia… e della nostra vita.

08 + Diario di Viaggio Calvi

Colazione con vista e sapori corsi

Calvi si risveglia con la lentezza di chi conosce il valore del tempo. Il mare, ancora avvolto nel sonno della notte, si lascia accarezzare dai primi raggi dorati del sole. L’aria fresca profuma di sale mentre il suono ritmico delle onde si mescola ai primi rumori della città che prende vita.
Ci accomodiamo a un piccolo café sul porto, scegliendo un tavolino all’aperto da cui osservare la baia. Le barche oscillano leggere sull’acqua. «Volete provare qualcosa di tipico?» ci chiede la barista, una donna sulla cinquantina dall’aria ospitale.

Annuiamo, incuriositi. Poco dopo, torna con un piattino decorato e lo posa davanti a noi con un sorriso complice. «Ecco, questo è il fiadone, un dolce tradizionale corso a base di brocciu, un formaggio fresco locale. Ogni famiglia ha la sua ricetta ma il segreto è sempre lo stesso: semplicità e amore.»

Davanti a noi, una torta dorata e profumata. Al primo morso, il contrasto tra il formaggio delicato e il leggero aroma agrumato si rivela sorprendente, bilanciato alla perfezione dal nostro café noisette, un espresso con un goccio di latte.

«Davvero particolare» commenta Veronika, assaporandolo lentamente. «Non troppo dolce ma perfetto» aggiunge.

La barista sorride, orgogliosa, e appoggia il vassoio. «Siete già stati a Notre-Dame de la Serra?» chiede, sistemandosi il grembiule, come se stesse per raccontare qualcosa che le sta a cuore. «Da lassù si vede tutta Calvi» continua. «Ma non è solo la vista a renderlo un posto unico. Si dice che chiunque salga lì con la persona amata avrà un legame eterno. Una leggenda, certo… ma anche una di quelle storie che fanno parte dell’anima di un luogo.»

Veronika e io ci scambiamo un’occhiata divertita. Senza pensarci, le sfioro la mano sotto il tavolo. Lei la intreccia alla mia per un istante, lasciando che il sorriso si trasformi in qualcosa di più dolce. Poi scherzo, lanciando uno sguardo a Skippy, che sta ancora mordicchiando un’altra fetta di fiadone, completamente indifferente alla conversazione. «Direi che è perfetto per te, Skippy.»

L’ultima goccia di caffè scivola via, mentre il profumo del forno si mescola alla brezza del mattino. Ci alziamo, con la sensazione che la giornata ci stia già portando verso qualcosa di speciale. Notre-Dame de la Serra ci attende.

Il primo morso di un piatto locale è come una porta che si apre sulla storia di un popolo.

Fiadone Corso (foto di Dall-E)

Salita a Notre-Dame de la Serra

Il sentiero verso Notre-Dame de la Serra si srotola davanti a noi come un’antica via di pellegrinaggio, battuta nel tempo da passi lenti e silenziosi. Il cielo terso sovrasta la macchia mediterranea che profuma di mirto e cisto, mescolandosi alla brezza salmastra che sale dal mare.
Per noi 2,5 km sono poco più di una passeggiata. Per Skippy, invece, è una questione strategica. Ha drizzato le orecchie, sta calcolando la pendenza con aria da esperta e, a giudicare dal suo sguardo, sta solo aspettando il momento giusto per farmi da zavorra.
«No, piccola esploratrice, oggi cammini anche tu» la avverto, ridendo mentre iniziamo il percorso.
Lei mi lancia uno sguardo offeso, sbuffa teatralmente e incrocia le braccia ma poi inizia a camminare con le spalle curve e lo sguardo rassegnato di chi sta affrontando la più grande delle fatiche.

Il sentiero si snoda tra la vegetazione e lungo il tragitto incrociamo famiglie, coppie e gruppi di amici, tutti diretti verso la cappella. L’escursione sembra quasi un rito per chi visita Calvi. Di tanto in tanto, ci fermiamo a leggere i pannelli informativi lungo il percorso.
«Interessante» dice Veronika, scorrendo con gli occhi le informazioni. «Da qui si avvistavano le navi pirata prima che raggiungessero la costa.»

Guardo in alto verso la cappella, ancora lontana sulla sommità della collina. «Strano pensare a un tempo in cui il mare non significava solo viaggio, ma anche pericolo.»
Il sole si fa sentire e qualche goccia di sudore mi scende sulla fronte. Skippy resiste eroicamente per qualche minuto, poi cede. Con un balzo, si lancia sulle mie spalle e si sistema con la sicurezza di chi ha appena risolto il problema della giornata.
«Ed ecco la nostra scroccona all’opera!» esclamo con tono da telecronista, fingendo di barcollare sotto il suo peso. «Sapevo che il mio equipaggiamento sarebbe aumentato in corso d’opera!»
Skippy, fingendo di non sentire, si accomoda meglio e si gode il panorama.

Una coppia anziana di turisti, che procedeva dietro di noi, scoppia a ridere. L’uomo, con un sorriso divertito, esclama qualcosa in spagnolo: «¡Eso sí que es viajar con estilo!»
Veronika ride. «Direi che approvano la tua tecnica, Skippy.»

Dopo circa 40 minuti di cammino, raggiungiamo finalmente la chapelle Notre-Dame de la Serra, che si erge in cima alla collina come una sentinella silenziosa. Il golfo di Calvi si distende sotto di noi come una tela infinita di blu e oro, con la cittadella genovese che si staglia netta contro l’orizzonte. Alle nostre spalle, le montagne dell’entroterra corso si ergono maestose, quasi a ricordare che la Corsica è un’isola sospesa tra il mare e la roccia, tra viaggio e radici.

Skippy, che si è goduta comodamente buona parte del tragitto, si rianima all’improvviso, si stira e inizia ad annusare l’aria fresca come se fosse stata la prima ad arrivare.
Veronika legge ad alta voce un pannello per turisti: «Ogni anno, il patrono di Calvi viene celebrato proprio qui.» Poi mi guarda, con un sorriso appena accennato.

Mi fermo accanto a lei e nel silenzio del luogo le sfioro il viso. Lei non dice nulla ma si sporge e mi bacia con dolcezza.
«Speriamo che la leggenda sia vera» mormora, i suoi occhi persi nei miei.
Sorrido, lasciando che il momento si imprima nella memoria.

Poi, con uno sguardo all’orizzonte, riprendiamo il cammino verso la città, lasciandoci alle spalle la cappella e portando con noi una nuova storia da raccontare.

Alcuni luoghi non si raggiungono solo con i passi ma con lo sguardo e con il cuore.

vista da Notre-Dame de la Serra (foto di catherine v su Tripadvisor.it)

Discesa verso Calvi e un pranzo in compagnia

Dopo una rapida rinfrescata in albergo, usciamo di nuovo per immergerci nel cuore della cittadella genovese. I vicoli acciottolati si aprono tra facciate color miele e terra, piccoli balconi fioriti e insegne in ferro battuto che oscillano leggere nella brezza marina.
L’ora di pranzo si avvicina e il profumo di spezie e arrosti che si diffonde tra le stradine ci guida quasi senza accorgercene.
«Che ne dici di fermarci qui?» chiedo, indicando una trattoria incastonata tra le mura.

L’insegna in legno riporta il nome “Chez Antoine” e il profumo che arriva dalla cucina promette solo cose buone. Appena ci sediamo, un uomo sulla sessantina, con capelli bianchi arruffati e un grembiule legato in vita, si avvicina con un sorriso bonario. L’energia con cui si muove tra i tavoli suggerisce che non stia fermo un attimo, come se la cucina fosse il suo regno.
«Benvenuti! Avete scelto bene, da me si mangia come a casa.» La sua voce ha il tipico accento corso, caldo e rassicurante.

Mentre ci accomodiamo, Skippy cattura subito l’attenzione dell’oste.
Antoine inclina la testa con aria curiosa e la osserva con un sorriso malizioso. «E tu chi saresti? Sembri una piccola esploratrice.»
Skippy lo fissa per un attimo, poi inclina la testa con aria compiaciuta e solleva una zampetta, tendendola con grazia come se aspettasse un baciamano.
Antoine scoppia a ridere. «Ah, ma sei una signorina di classe!» esclama battendo le mani sulle ginocchia.

E da quel momento, la situazione degenera.
Ogni volta che passa davanti al nostro tavolo, Antoine trova una scusa per lasciarle un pezzetto di qualcosa. Prima un pezzo di pane caldo, poi un tocchetto di lonzu, poi addirittura un pezzetto di tomme de brebis.
Io e Veronika ci scambiamo uno sguardo divertito.
«Incredibile» commento. «Di noi tre è sicuramente quella che ha camminato di meno eppure sta mangiando come se avesse scalato il Monte Cinto
Veronika ride, lanciandomi un’occhiata ironica. «Se continua così, dovremmo portarla in spalla anche al ritorno.»
La osservo con sguardo torvo. «Questa volta la carichi tu però.»

Antoine ride con gusto. «Ah, ma è giusto così! Un ospite speciale merita un trattamento speciale!»
Chiudiamo i menu e ci affidiamo completamente a lui. Antoine si illumina e sparisce in cucina. Dopo pochi minuti riappare con un piatto fumante tra le mani.
«Ecco a voi il Veau aux olives, uno stufato di vitello con olive, erbe aromatiche e vino corso.»

Il profumo è irresistibile. Il sugo avvolge teneri pezzi di carne, mentre le olive nere aggiungono un contrasto perfetto.
«Questo è uno dei piatti più amati della Corsica» spiega Antoine, servendoci. «Lo prepariamo con il vino locale che dà alla carne quel sapore ricco e profondo.»

Prendiamo il primo boccone e ci scambiamo uno sguardo soddisfatto.
«Squisito.» Veronika chiude gli occhi per un istante, assaporando il gusto intenso.
«Davvero incredibile.» aggiungo, lasciando che il sapore del piatto si fissi nella memoria.

Mentre il pranzo continua tra risate e buon cibo, ci rendiamo conto che abbiamo trovato molto più di un posto dove mangiare. Abbiamo trovato un personaggio, una storia, un pezzo autentico di Corsica.

Tra un assaggio e una battuta, il pranzo scorre leggero. Eppure, tra le risate, una domanda rimane sospesa nell’aria. La Corsica ha sempre difeso la sua identità… ma è mai stata davvero indipendente?

Nei piccoli ristoranti di un luogo si trovano i sapori autentici e, a volte, storie più vere di quelle scritte nei libri.

Veau aux olives (foto di Dall-E)

Una storia di orgoglio e identità

Dopo aver gustato fino all’ultimo boccone del nostro Veau aux olives, ci troviamo così bene da decidere di fermarci ancora un po’. Antoine, che ci ha accompagnato per tutto il pranzo con la sua ospitalità, sembra aspettare con piacere il momento di una chiacchierata più rilassata.
«Aspettate qualche minuto» ci dice con un sorriso «finiamo di sistemare la sala e poi mi siedo con voi. Vi porto qualcosa di speciale.»

Annuiamo, osservando l’atmosfera della trattoria cambiare lentamente. Gli ultimi clienti lasciano i tavoli, il vociare si attenua e il locale si svuota, lasciando solo il suono dei bicchieri riordinati e dei piatti che vengono portati in cucina.
Poco dopo, Antoine ritorna, stavolta senza il grembiule, con una bottiglia e tre bicchierini in mano.
«Ecco qua» dice con fierezza «un bicchiere di myrte, il nostro amaro al mirto. Perfetto per accompagnare qualsiasi discorso.»

Si siede di fronte a noi, con l’aria di chi si appresta a dialogare piacevolmente.
«Dunque» inizio io «abbiamo una curiosità che ci portiamo dietro da quando siamo arrivati in Corsica. Perché l’isola ha combattuto per l’indipendenza dai Genovesi ma poi è finita sotto la Francia senza mai ottenere la sua vera autonomia?»

A questa domanda, gli occhi di Antoine si accendono di passione. Si sistema meglio sulla sedia, prende un sorso del suo amaro e inizia a parlare con il tono di chi questa storia l’ha sentita raccontare da generazioni.
«Ah, questa è una domanda che ogni corso si è fatto almeno una volta nella vita» dice, lasciando scorrere le dita sul bordo del bicchiere. «Per capire la nostra storia bisogna partire da molto lontano.»

Skippy, che fino a poco prima era rimasta tranquilla ad ascoltare, si accoccola sulle gambe di Antoine senza fare rumore. Con un sospiro soddisfatto, chiude gli occhi e si lascia andare al sonno.
Antoine guarda in basso, sorride con dolcezza e le accarezza la testa con un gesto spontaneo.
«Ah, questa piccola signorina ha capito tutto della Corsica» commenta. «Qui si vive di passioni, di racconti e di legami.»

Poi torna a noi e, con lo sguardo acceso, riprende il filo del discorso.

Antoine prende un sorso di mirto, poi sospira. «Nel 1755 Pasquale Paoli guidò la Corsica verso l’indipendenza, trasformandola in una repubblica con leggi proprie e un governo autonomo.»
Fa una breve pausa, come se volesse lasciarci il tempo di immaginare quel momento.
«Ma la libertà durò poco.»

Si passa una mano sulla fronte, poi continua. «Genova, ormai incapace di controllare l’isola, la cedette alla Francia nel 1768 con il Trattato di Versailles. Senza chiedere nulla ai corsi.»

Io e Veronika ci scambiamo uno sguardo. Pensare che un’intera isola sia stata venduta come fosse una merce è sconcertante.
Antoine ci osserva, poi abbassa lo sguardo sul bicchiere. «Paoli tentò di resistere ma l’anno dopo…» Il tono si abbassa. «La battaglia di Ponte Novu segnò la fine della nostra indipendenza.»

Resta in silenzio per un momento, poi ci guarda.
«Sapete perché abbiamo perso?» Lascia la domanda sospesa nell’aria prima di rispondere. «I francesi erano meglio armati, più numerosi, con esperienza di guerra. Ma non bastava. Ciò che ci condannò fu un tradimento.»

Veronika inclina la testa. «Un tradimento?»
Antoine annuisce lentamente. «Paoli aveva ottenuto aiuto dagli inglesi e si aspettava rinforzi. Ma all’ultimo momento, i genovesi, che ancora avevano influenza sull’isola, convinsero alcuni capi corsi a ritirarsi. Alcune unità si disgregarono, altre si arresero senza combattere. Il grosso dell’esercito corso venne accerchiato vicino al fiume Golo e massacrato.» Abbassa il tono della voce. «I francesi usarono l’artiglieria con una violenza devastante. I corsi combattevano con armi rudimentali. Non fu una battaglia, fu una carneficina.»

Rimaniamo in silenzio per qualche istante.
«Paoli riuscì a fuggire in esilio grazie agli inglesi» continua Antoine, quasi sussurrando. «La Corsica non si riprese mai da quella sconfitta. Poco dopo, l’isola divenne ufficialmente francese. Da allora, la nostra cultura è stata schiacciata… ma mai cancellata.»

«E da allora?» chiedo.
Antoine sospira. «Da allora la Francia ha imposto la sua lingua, la sua cultura, il suo controllo… ma il cuore della Corsica è sempre rimasto fiero e indipendente.»

Si ferma un attimo e ci guarda negli occhi, quasi a volerci trasmettere quella stessa fiamma di orgoglio che arde ancora nel popolo corso.
«Capite ora perché, ancora oggi, molti corsi non si sentono francesi? Perché la nostra indipendenza è durata poco… ma il nostro spirito non è mai stato domato.»

Ci scambiamo un’occhiata, assaporando non solo il mirto ma anche il peso della storia.
Antoine abbassa lo sguardo su Skippy e le accarezza la testa. «Ed è proprio come lei.» Sorride. «Puoi portarla in capo al mondo, cercare di cambiarla… ma nel profondo resterà sempre sé stessa.»

Sorrido, osservando Skippy che inclina la testa, ignara di quanto stia incarnando un’intera isola.

Il sole inizia a calare e con lui si chiude anche il nostro lungo pranzo. Le parole di Antoine rimarranno con noi, così come il profumo del mirto e il sapore intenso della storia corsa.

L’indipendenza non si misura solo con la politica, ma con il sentimento di appartenenza di un popolo alla propria terra.

L’indipendenza non si misura solo con la politica ma con il sentimento di appartenenza di un popolo alla propria terra

Chef Antoine (foto leonardo.ai)

Il Tintinnio della Memoria

Salutiamo Antoine con un ultimo sorriso prima che torni ai suoi fornelli, pronto ad accogliere nuovi avventori e raccontare altre storie. Prima di lasciarci, ci stringe la mano con calore.
«Grazie per il tempo che mi avete dedicato» dice con sincerità.

«No, siamo noi a dover ringraziare te» rispondo. «Ci hai fatto scoprire la Corsica con occhi diversi.»

«E abbiamo anche abusato della tua pazienza» aggiunge Veronika, quasi scusandosi.

Lui scuote la testa, ridendo. «Ma smettetela! È stato un piacere. Se tutti fossero curiosi come voi, il mondo sarebbe un posto migliore.»

Skippy lo guarda per un attimo, poi gli si avvicina e gli poggia delicatamente la testa sulla mano. Antoine le accarezza la fronte con un sorriso malinconico, quasi paterno.
«Ah, piccola, mi hai fatto una compagnia speciale oggi» dice piano. «Adesso vai e scopri ancora il mondo ma porta questo con te…»

Dalla tasca estrae un piccolo campanellino in bronzo e lo porge a Skippy. «È una riproduzione delle vecchie campane di Calvi. Per secoli hanno scandito la vita della città. Un piccolo suono per ricordarti di noi.»

Skippy spalanca gli occhi, afferra il campanellino tra le zampe e lo scuote leggermente, lasciando che il suo suono delicato riecheggi nell’aria. La sua coda inizia a muoversi, segno inequivocabile della sua felicità.

Antoine ride, soddisfatto. «Sapevo che ti sarebbe piaciuto.»

Skippy, invece di rispondere, si stringe ancora di più a lui per un istante, in un gesto che vale più di qualsiasi parola.
Io e Veronika ci scambiamo uno sguardo divertito. Non importa dove andiamo, Skippy riesce sempre a fare nuove amicizie… e, questa volta, a portare con sé un pezzo di Calvi.

La campanellina donata a Skippy (foto Dall-E)

La cittadella al tramonto

Usciti dalla trattoria, ci incamminiamo tra le mura di Calvi con una nuova consapevolezza. Il sole tramonta, tingendo la pietra di sfumature dorate. La città, ormai silenziosa, respira nel vento salmastro mentre le prime luci si accendono nei vicoli.

Davanti alla Cattedrale di San Giovanni Battista, Veronika legge un pannello informativo. «Qui dentro c’è la Madonna del Rosario. Secondo la leggenda, salvò la città durante l’assedio degli Inglesi nel 1794

«Un altro pezzo di storia corsa» mormoro.

Più avanti, da un punto panoramico, osserviamo la cittadella che si staglia contro l’orizzonte infuocato. Veronika si stringe a me. «Ora capisco perché la Corsica difende così tanto la sua identità. Non è solo un’isola, è un mondo a sé.»

Restiamo qualche minuto in silenzio, lasciandoci avvolgere dalla brezza serale. Poi riprendiamo il cammino, con la sensazione di aver aggiunto un altro tassello al nostro viaggio.

Ogni viaggio ha il suo suono. A Calvi è il vento tra le mura, il tintinnio di una campana e il rumore del mare

la Cittadella di Calvi al tramonto (foto di hotel-solemare-calvi.com)

Nel buio della stanza, il tintinnio della campana di Skippy è l’ultimo suono che ci accompagna. La Corsica non è solo un luogo: è memoria, orgoglio, radici profonde intrecciate tra storia e natura. Ci è entrata dentro, senza che ce ne accorgessimo. Come fanno i luoghi che lasciano il segno.

07 + diario di viaggio Bastia

Accoglienza “canina”

Dopo un viaggio attraverso le sinuose strade montane corse, durante il quale abbiamo scambiato chiacchiere e convenevoli scoprendo il nome della signora, Isabelle, e di suo marito, Laurent, arriviamo finalmente alla loro villetta. La casa, accogliente e immersa nel tranquillo paesino di Corte, ci accoglie con la sua atmosfera calda e familiare. Isabelle ci spiega che la figlia Eliane non è in casa perché la festa sarà una sorpresa. Per ora è ospite di un’amica, intrattenuta dai suoi genitori che stanno facendo del loro meglio per tenerla lontana dal luogo del grande evento.

Appena si ferma l’auto, Skippy, sempre curiosa, balza giù con energia pronta a esplorare. Ma dopo appena due passi si blocca di colpo, le orecchie si drizzano e il suo corpo si irrigidisce: due grossi cani, un labrador beige e un nero, le corrono incontro abbaiando con entusiasmo. Skippy, visibilmente terrorizzata, emette un urlo acuto che sembra un misto tra un lamento e un grido di guerra, poi si gira e cerca una via di fuga. Prima prova a nascondersi sotto l’auto ma i cani la seguono scodinzolando, poi cambia strategia e parte in un fulmineo sprint… solo per balzare direttamente sulle gambe di Amandine, che nel frattempo stava scendendo dall’auto.

L’impatto è così improvviso che Amandine lancia un urletto sorpreso, barcolla per un istante con Skippy che si arrampica disperatamente su di lei e finisce per ruzzolare all’indietro sul sedile posteriore, trascinando con sé anche la piccola fennec.

Per un attimo il silenzio avvolge la scena.

Laurent cerca di richiamare i cani, che nel frattempo si sono fermati, inclinandosi leggermente di lato e osservando la scena con aria perplessa, come se non capissero perché la nuova arrivata non stia giocando con loro. Il labrador nero si siede placidamente e inclina la testa, mentre quello beige, vedendo Skippy aggrappata ad Amandine, decide di imitarla e si alza sulle zampe posteriori appoggiandosi alla portiera dell’auto con un’aria festosa.

Amandine scoppia a ridere, ancora stesa con Skippy avvinghiata a lei. «Okay, okay, ho capito, Skippy! Ti proteggerò io dai mostri pelosi!»

Veronika si tiene il fianco ridendo. «Direi che l’accoglienza è stata calorosa!»

Isabelle scuote la testa con un sorriso mentre Laurent, ancora divertito, si affretta a mettere a bada i due cani, che finalmente sembrano capire che la loro energia è stata un po’ troppo per la piccola ospite.

Skippy, nel frattempo, non sembra ancora del tutto convinta. Dalla sua posizione di sicurezza tra le braccia di Amandine, lancia occhiate sospettose ai due giganti pelosi, mentre il labrador beige si sdraia pigramente come se niente fosse.

Isabelle ride e ci fa cenno di entrare. «Benvenuti a casa!»

Le migliori accoglienze sono quelle impreviste: un abbaio, un salto e una risata condivisa possono trasformare gli estranei in amici.

i due cani della signora Isabelle (foto leonardo.ai)

Una Festa Sotto le Stelle

Il giardino di Isabelle e Laurent si anima con l’arrivo degli amici di Eliane, pronti a festeggiare il suo quindicesimo compleanno. Le luci soffuse creano un’atmosfera calda e accogliente, mentre il profumo di cibo riempie l’aria.

Fin dal nostro arrivo ci siamo dati da fare per aiutare con i preparativi: io e Laurent abbiamo sistemato i tavoli e appeso le lanterne nel giardino, mentre Veronika e Amandine si sono occupate degli addobbi, trovando il giusto equilibrio tra eleganza e semplicità. Isabelle ha diretto con energia l’allestimento del buffet, un tripudio di piatti tradizionali corsi e dolci tipici.

Skippy, attratta irresistibilmente dai profumi provenienti dal tavolo, si avvicina con passo cauto. Il suo nasino si muove rapidamente nell’aria fino a quando si blocca davanti a un vassoio colmo di biscotti dorati e croccanti.

«Quelli sono canistrelli,» spiega Isabelle con un sorriso, vedendo la curiosità di Skippy. «Biscotti tipici corsi, croccanti e profumati di anice e vino bianco.»

Skippy lancia uno sguardo a Veronika, come per chiedere il permesso.

«Va bene ma solo uno, Skippy» concede lei con un sorriso.

La fennec afferra con estrema delicatezza un canistrello tra le zampette e lo mordicchia con aria estatica. Amandine la osserva divertita. «Credo che abbiamo trovato il suo dolce preferito!»

Poco dopo, il silenzio cala improvviso sulla festa. Le luci si abbassano e tutti si raccolgono in attesa, nascosti nel buio del giardino. Eliane, rientrata in casa senza trovare nessuno, appare visibilmente confusa. Procede con passi incerti verso il retro, spingendo la porta del giardino. Si ferma sulla soglia confusa. Guarda intorno, accigliandosi leggermente.

«Maman? Papa?» chiama a bassa voce, senza ricevere risposta.

Fa un passo avanti, incerta, e proprio in quell’istante le luci si accendono e il giardino esplode in un coro festoso…

«Joyeux anniversaire!»

Musica e risate riempiono l’aria mentre la ragazza, sorpresa e commossa, porta le mani alla bocca, cercando di trattenere l’emozione.

La serata prosegue tra giochi, musica e balli. Amandine e Skippy diventano le protagoniste di un’improvvisata esibizione che strappa applausi e risate. I giovani si divertono, io chiacchiero con un gruppetto di amici di Laurent e Isabelle.

Scoppiamo a ridere quando vediamo Veronika che rincorre Skippy tra i tavoli, cercando di strapparle dalle zampe quello che sembra essere il centesimo canistrello della serata.

«Starai male se continui così!» la ammonisce, mentre la fennec, con il musetto impolverato di zucchero, salta agilmente in groppa al labrador nero per sfuggire più velocemente alla sua “cacciatrice”.

Amandine scoppia a ridere e si avvicina a Skippy che intanto riprende fiato dopo l’inseguimento. «Come facevi a correre dopo aver mangiato tutti quei dolci?» commenta accarezzando Skippy, che sembra tutt’altro che pentita mentre le si accoccola contro con un sospiro soddisfatto.

Eliane si avvicina con un sorriso. «Perché non dormiamo insieme questa notte? Sarebbe bello finire la serata insieme.»

Amandine illumina gli occhi e guarda la zia in cerca di conferma. Isabelle annuisce con complicità. «Mi sembra un’ottima idea. Un pigiama party tra donne. Ti va piccola esploratrice?»

Skippy drizza le orecchie sentendo la proposta e si aggrappa ancora di più ad Amandine, lasciandosi coccolare soddisfatta come a dire: “Questa sì che è una buona idea!”

La casa si svuota poco a poco, il giardino è ancora illuminato dalle ultime luci tremolanti e dal profumo dolce dei canistrelli sparsi qua e là. Isabelle sospira soddisfatta, guardando la tavolata vuota con un sorriso. «Le feste migliori sono quelle che ti fanno sentire più uniti,» dice sottovoce.

Skippy, ormai accoccolata tra Amandine ed Eliane, sbadiglia e si rannicchia. La notte corsa avvolge tutti in un abbraccio silenzioso.

Ci sono feste fatte di musica e luci, altre feste fatte di affetti e sorprese. Quelle che restano nel cuore sono sempre le seconde

Canistrelli dolci tipici della Corsica (foto di Dall-E)

Una colazione con racconti

Il profumo di caffè e pane fresco si diffonde per la casa mentre scendiamo in cucina, accolti dal sorriso caloroso di Isabelle. Sul tavolo, accanto a una caffettiera fumante, troneggia una torta dorata dal profumo intenso.

«Buongiorno!» ci saluta Isabelle, versando il caffè nelle tazze. «Spero abbiate dormito bene. Questo è un piccolo assaggio della nostra terra.»

«Ma questa torta ha un profumo incredibile…» commenta Veronika, prendendo una fetta.

Isabelle sorride con orgoglio. «È una torta di castagne, qui in Corsica la farina di castagne è stata per secoli un alimento fondamentale. Durante i periodi difficili, quando il grano scarseggiava, le castagne hanno nutrito intere generazioni. Ancora oggi sono simbolo della nostra tradizione e della nostra resilienza.»

Laurent arriva poco dopo, allungando una mano per rubare un pezzo di torta. «Ah, vedo che vi state ambientando bene! Attenti, potreste non voler più andar via…»

Ridiamo tutti ma Isabelle scuote la testa con aria decisa. «Prima di lasciarci, non potete andarvene senza aver visto Corte come si deve. Voglio mostrarvi il museo dove lavoro. Venite, vi racconterò qualcosa di speciale su questo angolo di Corsica.»

Dopo la colazione, usciamo per una passeggiata nel cuore del paese. Corte ha un’aria fiera e austera, arroccata tra le montagne come se fosse ancora pronta a difendersi. Le stradine acciottolate salgono ripide, conducendoci fino alla cittadella che domina l’abitato dall’alto.

«La chiamano il Nido dell’Aquila» spiega Laurent, indicando le mura massicce. «Costruita per resistere agli assalti è sempre stata un punto strategico fondamentale.»

Isabelle ci guida fino a un piccolo edificio con una targa all’ingresso: il Museo della Corsica, dove lavora come curatrice. Appena entriamo, l’odore di legno e carta antica ci avvolge, mentre le sale espositive raccontano la storia dell’isola attraverso reperti, documenti e costumi tradizionali.

«Corte è stata la capitale della Repubblica Corsa nel XVIII secolo» racconta Isabelle mentre ci mostra una mappa dell’epoca. «Pasquale Paoli sognava una Corsica indipendente e Corte doveva esserne il cuore. Qui ha fondato la prima università dell’isola, convinto che solo attraverso la cultura si potesse conquistare la libertà.»

Indica un manoscritto antico, ingiallito dal tempo. «Questa è una copia della Costituzione corsa del 1755, una delle più avanzate dell’epoca. Immaginate: già allora garantiva il diritto di voto alle donne, molto prima di altri stati europei.»

Veronika ascolta con interesse. «È incredibile. E oggi? La gente di Corte sente ancora questo legame con la sua storia?»

Laurent annuisce. «Assolutamente sì. La nostra cultura è ancora viva. Qui a Corte il corso si parla ancora con orgoglio e le tradizioni si tramandano. Certo, i giovani spesso partono per studiare o lavorare altrove ma molti ritornano per il legame profondo che hanno con questa terra.»

Isabelle si ferma un attimo vicino alla finestra e indica il paese ai nostri piedi. «Oggi Corte è ancora un centro culturale importante per la Corsica. Qui c’è una delle sedi universitarie più attive dell’isola e molti giovani scelgono di studiare qui invece di trasferirsi sul continente.»

Laurent annuisce. «Ma il turismo sta crescendo e porta nuove opportunità. Alcuni giovani aprono attività legate all’artigianato e ai prodotti locali, cercando di mantenere viva la tradizione.»

Veronika osserva le vie acciottolate. «Quindi è una città che cerca di rimanere fedele alle proprie radici, ma guardando al futuro.»

Isabelle sorride. «Esattamente. È il nostro spirito corso.»

Dopo aver visitato il museo facciamo un’ultima passeggiata lungo i vicoli stretti di Corte, ammirando il panorama sulle montagne circostanti. Isabelle e Laurent ci raccontano aneddoti sui festival locali e sulle leggende legate alla cittadella, fino a quando il rintocco delle campane ci ricorda che è ora di proseguire.

«Che ne dite di fare un giro a Bastia prima del vostro volo?» propone Isabelle. «Possiamo accompagnarvi e mostrarvi i nostri angoli preferiti della città.»

Veronika si illumina. «Sarebbe fantastico! Non vedo l’ora di scoprire di più.»

Torniamo a casa per svegliare Skippy e prepararci alla partenza. La piccola fennec si stiracchia assonnata tra le braccia di Amandine, mentre il sole inizia a illuminare le cime delle montagne. La giornata è appena iniziata, ma già promette nuove scoperte.

Ogni terra racconta la sua storia nel pane che sforna e nel caffè che offre. La Corsica lo fa anche con il calore della sua gente.

la cittadella di Corte chiamata “nido d’aquila” (foto di voyagetips.com)

Saluti a Malincuore

Il mattino porta con sé la dolce quiete della casa, rotta solo dal fruscio leggero delle tende che si muovono alla brezza corsa. Con un po’ di riluttanza, decidiamo che è il momento di svegliare Skippy e le ragazze per i saluti prima della nostra partenza.

Apriamo con delicatezza la porta della stanza e troviamo Eliane e Amandine ancora profondamente addormentate, accoccolate sotto le coperte, con Skippy comodamente sdraiata tra di loro. La piccola fennec si stiracchia pigramente, poi, notando che siamo pronti a partire, emette un suono sommesso, un misto tra un lamento e un saluto affettuoso.

Amandine si sfrega gli occhi assonnata, poi, realizzando che è il momento di dirsi addio, stringe Skippy in un abbraccio improvviso. «Mi mancherai, piccola esploratrice» sussurra, cercando di trattenere l’emozione.

Quando ci avviamo verso la porta d’ingresso, Amandine si ferma un istante, poi si sfila un braccialetto intrecciato dal polso e lo porge a Skippy con un sorriso malinconico. «Questo è per te» dice, posandolo delicatamente nelle sue zampette. «Così ti ricorderai di me.»

Skippy inclina la testa, osservando il braccialetto con attenzione, poi lo stringe con le zampette e lo porta al petto, come fosse un tesoro inestimabile. Un legame semplice, nato tra giochi e avventure ma che ora si cristallizza in un piccolo ricordo.

Prima di salire in auto, Isabelle indica la casa con un sorriso caloroso. «Ricordatevi, qui avrete sempre una casa.»

Ci allontaniamo lungo la strada che porta a Bastia, mentre Skippy stringe ancora tra le zampette il suo nuovo tesoro, come a voler conservare per sempre il ricordo di questa giornata.

Ogni viaggio ha una partenza ma i veri incontri non hanno mai una fine.

il braccialetto di Amandine (foto leonardo.ai)

Bastia

Dopo il viaggio tra le montagne, arriviamo a Bastia, Isabelle e Laurent ci guidano con entusiasmo attraverso le sue strade, conducendoci nel cuore storico della cittadella.

«Questa è la città originale?» chiede Veronika, osservando le antiche mura che ci circondano.

Isabelle annuisce. «Sì, la cittadella è rimasta quasi intatta. Fu fondata nel 1380 dal governatore genovese Leonello Lomellini e domina ancora il Vecchio Porto. È un luogo ricco di storia e offre una vista spettacolare sul mare.»

Ci fermiamo un attimo per osservare la città dall’alto, con il mare che si estende fino all’orizzonte. Le facciate color pastello e le chiese barocche si alternano alle torri di difesa, testimoni delle epoche turbolente vissute da Bastia.

Le città di mare hanno il cuore diviso tra la terra e l’orizzonte. Bastia è una di quelle che raccontano il mare con ogni sua pietra.

Cittadella di Bastia (foto corsevacances.fr)

Isabelle ci guida fino alla Piazza Saint-Nicolas, una delle più grandi d’Europa, affacciata sul mare. «Questa piazza è il cuore pulsante della città. Qui si tengono mercati, eventi e concerti. È il luogo dove i bastiacci si incontrano per bere un caffè, discutere di politica o semplicemente godersi la vita.»

Laurent ci indica la statua al centro della piazza. «Quello è Napoleone Bonaparte, raffigurato in abiti da console romano. La Corsica non dimentica i suoi figli più illustri, anche se il suo rapporto con l’isola è sempre stato… complicato.»

Veronika lo osserva con interesse. «È curioso come la Corsica celebri Napoleone nonostante il suo legame con la Francia.»

Isabelle sorride. «Napoleone non dimenticò mai di essere nato qui.»

Piazza Saint-Nicolas (foto voyagetips.com)

Proseguendo la passeggiata, Isabelle ci indica un angolo della piazza. «Vedete quel caffè laggiù? È uno dei più antichi della Corsica. Si dice che molti artisti e scrittori abbiano trovato ispirazione seduti a quei tavoli.»

Ci fermiamo un momento per assaporare l’atmosfera, osservando la gente che si muove con la tipica calma isolana. Il tempo sembra scorrere più lentamente qui, come se ogni cosa fosse impregnata della storia che l’ha preceduta.

Scendiamo verso il Porto Vecchio, un angolo pittoresco della città, con le sue barche ormeggiate e le facciate color pastello che si specchiano nell’acqua. Laurent si ferma un attimo, osservando il porto con nostalgia.

«Un tempo questo era il cuore commerciale della città» racconta. «Qui attraccavano le navi cariche di merci e i magazzini lungo la riva erano sempre pieni di attività.»

Veronika guarda le barche con occhi curiosi. «E oggi?»

Laurent sorride. «Ora è un luogo di passeggio ma al mattino presto puoi ancora trovare i pescatori che portano il pesce fresco al mercato.»

Porto Vecchio di Bastia (foto siviaggia.it)

Isabelle ci porta verso una bottega con un’insegna dipinta a mano. «Qui troverete i veri sapori della Corsica. Miele di castagno, salumi corsi, formaggi di capra e pecora, e soprattutto il liquore di mirto. Il mirto è una pianta tipica della Corsica e dalle sue bacche si ricava un liquore dolce e aromatico.»

«Questo è il brocciu, il formaggio più famoso della Corsica,» spiega, prendendo un piccolo pezzo e porgendolo a Veronika. «Si può mangiare fresco o stagionato e noi lo usiamo in tantissime ricette.»

Assaggiamo il brocciu, sorpresi dal suo sapore morbido e leggermente dolce. Skippy, incuriosita, solleva le orecchie e punta il musetto verso il piatto. Isabelle ride e ne spezza un pezzetto più piccolo. «Vuoi provare anche tu, piccola esploratrice?»

Skippy prende con delicatezza il boccone e, dopo un attimo di esitazione, spalanca gli occhi e muove la coda con entusiasmo, leccandosi il musetto soddisfatta. Veronika ride divertita. «Credo che abbiamo trovato un’altra specialità che le piace!»

Laurent aggiunge con un sorriso. «Se potesse, credo che farebbe scorta per tutto il viaggio.»

Ridendo continuiamo la nostra esplorazione, Isabelle ci parla di un dettaglio spesso trascurato dai turisti. «Bastia è piena di passaggi segreti. Sotto la Cittadella di Bastia, ad esempio, esistono ancora alcuni tunnel che venivano usati per fuggire in caso di assedio. Alcuni dicono che ci siano ancora stanze nascoste che nessuno ha mai esplorato del tutto.»

«Davvero?» chiedo incuriosito.

Lei annuisce. «Non sono aperti al pubblico ma alcuni vecchi abitanti di Bastia giurano che esistano ancora dei varchi nascosti, magari sigillati con il tempo. Sono frammenti di storia che resistono.»

Arriviamo alla Cattedrale di San Giovanni Battista, il più grande edificio religioso della Corsica. Le sue torri gemelle si ergono maestose contro il cielo.

«I genovesi la costruirono nel XVII secolo» spiega Laurent. «Era un simbolo della loro potenza e della loro fede.»

Entriamo per un momento nella penombra fresca della cattedrale. Veronika si avvicina alla navata centrale e osserva gli affreschi. «È stupenda e trasmette storia ovunque.»

«Ogni pietra di Bastia racconta una storia. Basta saperla ascoltare.» aggiunge Isabelle.

Mentre il sole comincia a calare, torniamo alla Piazza Saint-Nicolas. Isabelle si ferma un attimo e ci guarda con un sorriso malinconico. «È stato un piacere condividere tutto questo con voi. Spero che portiate un po’ di Bastia nei vostri cuori.»

E mentre ci prepariamo a ripartire, sappiamo che un pezzo di questa città e delle persone che ci hanno accolto resterà con noi.

San Giovanni Battista (foto bastia-tourisme.com)

Preparativi in Pista

Ci accompagnano in aeroporto e riusciamo a farli venire con noi in piazzola. Iniziamo i preparativi pre-volo. Laurent, curioso, si avvicina mentre sto verificando le superfici di controllo del velivolo.

«Camillo ma tu controlli tutto ogni volta che voli?» chiede osservando con attenzione.

«Assolutamente sì» rispondo con un sorriso. «La sicurezza è fondamentale. Ogni parte dell’aereo deve essere in perfette condizioni prima di decollare.»

Gli indico l’elica mentre spiego: «Controllo che non ci siano crepe o segni di usura, proprio come faresti con le ruote di un’auto. Poi passo al carburante verificando il livello nei serbatoi e testando che non ci siano contaminazioni, come acqua.» Gli mostro il contenitore usato per l’analisi.

Laurent annuisce impressionato. «Non avevo idea che ci fosse così tanta preparazione dietro.»

Gli spiego anche il controllo delle superfici di controllo come i flap e gli alettoni. «Devono muoversi liberamente senza attriti. È come assicurarsi che il volante dell’auto funzioni perfettamente.»

Proprio mentre sto per concludere l’ultima verifica, Veronika nota qualcosa di strano sotto l’ala. «Cami, c’è qualcosa di strano qui.»

Mi avvicino e mi accovaccio, osservando meglio. Tra la base dell’ala e il carrello è rimasto incastrato un piccolo rametto, probabilmente raccolto durante il rullaggio di ieri.

«Niente di grave» dico, sfilandolo con attenzione. «Ma non è mai una buona idea lasciare corpi estranei vicino ai comandi.»

Laurent osserva con interesse. «Quindi basta anche una piccola cosa così per creare un problema?»

«Dipende da dove si trova. Una foglia sul parabrezza non è un problema ma qualcosa che blocca i movimenti delle superfici di controllo potrebbe esserlo.» Mi assicuro che tutto sia libero e faccio un’ultima verifica. «Ora è tutto a posto.»

Laurent ride. «Quindi sei pilota, meccanico e ingegnere in uno?»

«Esatto» scherzo. «Ma è una responsabilità che prendo seriamente. Quando siamo in aria non c’è una piazzola per fermarsi in caso di problemi.»

Veronika si avvicina con un sorriso. «Tutto pronto?» chiede.

Annuisco chiudendo il serbatoio e raccogliendo gli strumenti. «Sì, siamo pronti al decollo.»

Laurent ci stringe la mano. «Camillo è stato affascinante vedere tutto questo da vicino. Ora capisco meglio cosa significhi essere pilota. Buon volo e grazie di tutto!»

Ci abbracciamo calorosamente, poi Isabelle e Laurent si allontanano mentre il personale di terra li accompagna verso l’uscita.

Veronika, con la cuffia già indossata, comunica con la torre per l’autorizzazione ad avviare il motore. Li osserva mentre si allontanano, poi, quasi tra sé e sé, mormora: «Sono stati davvero accoglienti.»

Li seguo con lo sguardo un ultimo istante, poi rispondo piano, senza distogliere lo sguardo dall’orizzonte: «L’ospitalità corsa ti avvolge come il vento sulle sue montagne: autentica, intensa, impossibile da dimenticare.»

L’autorizzazione arriva, avvio il motore siamo pronti al rullaggio.

Ogni volo inizia a terra. Ogni partenza è un nuovo inizio