Autore: SkyWander
15 + Diario di Volo Cagliari Tunisi
Risveglio e Preparativi
La notte mi ha tenuto prigioniero. Nonostante la stanchezza accumulata, il sonno è rimasto un miraggio irraggiungibile, come se sapesse che oggi non è un giorno qualunque. Mi rigiro nel letto, ascoltando i pensieri che si rincorrono in testa come aeroplani in holding sopra un aeroporto chiuso. Alla fine mi arrendo, sposto piano le coperte e mi alzo, deciso a non sprecare nemmeno un minuto di questa veglia forzata.
Sul mobiletto nella camera dell’hotel in cui siamo c’è una macchinetta del caffè. Piccola, essenziale. Come me stamattina. Inserisco una cialda con un gesto meccanico e schiaccio il pulsante.
Nel silenzio assoluto della stanza, il suono dell’erogazione mi sembra quasi un’esplosione. Non è forte in sé ma rimbomba nelle pareti come se amplificasse tutto il peso che ho addosso. Guardo verso i letti: Skippy è a pancia in su, con una zampa fuori dalle coperte; Veronika è rannicchiata sotto il lenzuolo, immobile. Nessuna delle due si muove.
Beate loro, penso.
Sorseggio il caffè in piedi, poi mi siedo sulla poltroncina con il tablet sulle ginocchia. È ora di preparare tutto.
Organizzare un volo internazionale non è uno scherzo, specialmente se non si tratta di una compagnia aerea ma di un piccolo Cessna con a bordo tre anime e una storia che ci brucia tra le mani.
Comincio dal piano di volo: punto di partenza, destinazione, quota prevista, tempi stimati. Deve essere chiaro, preciso e inviato in tempo utile alle autorità. Per entrare nello spazio aereo tunisino servono autorizzazioni specifiche: copia dei passaporti, una motivazione valida per il viaggio e tutti i dettagli dell’atterraggio. Per fortuna ho preparato tutto in anticipo per questo lungo viaggio. Apro la cartella protetta nel cloud, scarico i documenti, li inoltro al tablet e poi li invio direttamente all’ATC.
Ora non resta che aspettare la conferma.
Intanto faccio un controllo rapido al nostro equipaggiamento. Le regole doganali tunisine sono chiare: niente alimenti freschi, niente dispositivi non dichiarati. In teoria siamo a posto ma meglio controllare tutto due volte. Apro lo zaino, passo in rassegna ogni tasca, ogni borsa. Nessuna sorpresa. Bene così.
Mi appoggio un momento allo schienale. La luce fuori inizia a cambiare. La città si sveglia. Noi, invece, stiamo per lasciarla.
Ci sono notti in cui il viaggio comincia prima ancora di partire.

Arrivo in aeroporto
Quando Veronika apre gli occhi, sono già vestito da un pezzo. Le porgo la tazza di caffè con un goccio di latte, come piace a lei. Sorride appena, con quella faccia da “dammi ancora cinque minuti” che conosco bene. Mi siedo accanto al letto mentre beve i primi sorsi, poi le scompiglio i capelli con un gesto lento.
Skippy sbuca dalle coperte poco dopo, con una zampa in testa e il muso schiacciato su un lato. Si stiracchia come un gatto e mi guarda come per dire: “Oggi si vola, eh?” Le sorrido. «Già. E si cambia continente.»
All’aeroporto ritroviamo il nostro Cessna parcheggiato al margine dell’area operativa. Ci muoviamo tra attrezzature e zaini con la solita precisione. Siamo rodati ormai. Veronika è poco distante, sta parlando al telefono. Non ho bisogno di ascoltare per sapere con chi. Da Siena in poi, ogni volta che può, chiama Irina. Sono sicuro che le stia raccontando tutte le novità e cosa stiamo per fare.
Io continuo coi controlli. Mi fermo accanto all’ala sinistra per verificare l’estensione del flap quando…
Sento qualcosa. O meglio, avverto qualcuno.
Mi volto verso la recinzione, istintivamente. Siamo abbastanza vicini al bordo dell’aeroporto, e tra le sterpaglie e la vegetazione rada c’è una figura. Ferma. Nascosta a metà tra il verde e il metallo.
Non capisco bene cosa stia facendo. Mi sposto di un passo in quella direzione, per osservare meglio.
In quel momento un pulmino passeggeri mi attraversa la visuale. Lo seguo con lo sguardo, immobile. Quando finalmente libera la visuale… non c’è più nessuno.
Resto lì. Con la sensazione che qualcosa non torni. Ripenso a quello che ho visto o che credo di aver visto. Una sagoma, forse un uomo e tra le mani… qualcosa. Una fotocamera? Sì, probabilmente. Grossa. Sembrava proprio una reflex. E l’atteggiamento… quello di chi cerca di non farsi notare.
Potrebbe essere stato chiunque. Potrei essermi sbagliato o potrei aver visto esattamente ciò che c’era.
Fotografava noi o gli aerei? È durato troppo poco per esserne certo.
Probabilmente è solo la stanchezza. Il peso della giornata, il poco sonno, la tensione. E la testa che a volte inventa più di quanto vede.
Non dico nulla a Veronika. Non voglio agitarla. Le faccio solo un cenno da lontano, mentre lei è ancora al telefono. «Salutami Irina… e Carlo!»
Lei sorride e alza il pollice.
Io torno all’aereo ma quella sensazione… non se ne va.
A volte basta un dettaglio per far traballare la realtà.

Decollo e Sorvolo di Cagliari
Pochi minuti dopo siamo in volo. Stiamo prendendo quota e il mio sguardo scivola verso terra dove, tra i palazzi e le vie di Cagliari, riconosco l’ospedale dove siamo stati il giorno prima.
Il pensiero corre subito al professor Lissia. Non so quanto tempo gli resti ma spero con tutto il cuore di riuscire a raccontargli la verità su questa storia prima che sia troppo tardi. Lui ha speso la vita a cercare una risposta che nessuno ha mai voluto davvero trovare. E se, per una volta, fossimo noi quelli destinati a portargliela?
Sono ancora assorto nei pensieri quando la voce di Veronika nelle cuffie mi coglie di sorpresa, facendomi quasi sbandare.
«Sai che Irina mi ha raccontato una cosa bellissima su questa città?» dice con tono leggero. «Una festa religiosa. La Festa di Sant’Efisio. La celebrano qui ogni anno dal 1656, senza aver mai saltato un’edizione. Neanche durante le guerre.»
«Mai sentita.»
«È una delle processioni più importanti e toccanti di tutta la Sardegna. Parte da Stampace, un quartiere qui in centro e arriva fino a Nora. Quattro giorni di cammino, tra petali di fiori sparsi a terra, campane che suonano e le sirene delle navi nel porto che salutano il santo. Irina diceva che è impossibile non commuoversi quando il cocchio del santo si muove lentamente tra la folla, in un silenzio che pare sacro. Tutta la Sardegna partecipa, con costumi tradizionali e carri decorati… si chiamano traccas, se non ho capito male.»
Il Cessna continua a salire. L’obiettivo sono gli ottomila piedi previsti dal piano di volo. Un raggio di sole filtra tra le nuvole e colpisce il mare in lontananza, facendolo brillare come oro liquido.
«Quattro giorni a piedi, per onorare un voto fatto durante un’epidemia di peste. La città si affidò a Efisio e, da allora, ogni anno mantengono la promessa. Irina dice che nessun sardo mancherebbe mai a quell’appuntamento… è qualcosa che va oltre la religione.»
Resto in silenzio per qualche istante, poi la guardo e le dico: «Mi piacerebbe vederla, un giorno.»
Veronika sorride. «Anche a me.»
Alcuni voti attraversano i secoli come fossero appena stati pronunciati.

Verso il Mare Aperto
La costa scivola lentamente sotto di noi. Stiamo sorvolando la zona di Villasimius, con le sue insenature perfette, le spiagge bianche e quel mare che sembra dipinto.
Le nuvole sparse, morbide e leggere, disegnano ombre sottili sull’acqua. Da quassù tutto appare immobile, come se il mondo stesse trattenendo il respiro.
«Wow…» dice Veronika con un tono a metà tra lo stupore e la preoccupazione. «Siamo molto più in alto del solito!»
Annuisco mentre controllo gli strumenti. «Sì, dobbiamo salire fino a 8.000 piedi, circa 2.400 metri. È una delle condizioni imposte dall’ATC per l’attraversamento di questo tratto di mare. Inizia ufficialmente il volo IFR, quello strumentale. Tra poco imposterò anche il pilota automatico, è la prima volta che lo usiamo.»
«che spettacolo da quassù.»
«gia» rispondo, lanciando uno sguardo fuori dal finestrino «sembra un altro pianeta.»
Sotto di noi le curve della costa iniziano a dissolversi lentamente, come se la Sardegna si stesse ritirando in silenzio. Il Cessna punta deciso verso sud-est, lasciandosi alle spalle la terra ferma e dirigendosi verso il vuoto azzurro del Mediterraneo.
Ci sono partenze che sembrano silenzi. Ma sono promesse.

Rotta verso Sud
Vedo la costa allontanarsi alle nostre spalle e penso all’Italia. Chissà quando la rivedremo. Chissà come saremo cambiati dopo questo viaggio in giro per il mondo. Non si tratta solo di distanza ma di un addio momentaneo a qualcosa che conosciamo bene, per andare incontro a tutto ciò che ancora non sappiamo.
Mi schiarisco la voce. «Ok Skippy… ci siamo. Pronta a inserire l’autopilota?»
Lei si raddrizza di colpo, le orecchie dritte, poi balza in avanti con un saltello elegante e si sistema in braccio a Veronika, con lo sguardo fisso sul pannello. È tutta occhi.
«Guarda qui» dico, indicando lo schermo del Garmin 1000. «Come sai quella linea viola che vedi è la rotta che ho già impostato nel piano di volo. In pratica, ci basta seguirla. Siamo leggermente fuori rotta ora ma niente che il pilota automatico non possa correggere.»
Skippy inclina la testa, incuriosita.
«Per attivarlo non dobbiamo fare molto. Prima premiamo NAV, così il sistema capisce che vogliamo seguire quella linea viola. Poi AP, che sta per Auto Pilot, e da lì inizia a fare tutto da solo: mantiene la quota, corregge la direzione, gestisce il trim. Io sto qui a guardare… e a fidarmi.»
Un bip. Una vibrazione sottile e poi, come se fosse guidato da una volontà propria, il Cessna si inclina leggermente, si corregge, si riallinea con calma e precisione alla rotta.
È strano. Dopo quasi duemila chilometri volati a mano, seguendo il profilo del terreno, leggendo il paesaggio come una mappa viva… sentire l’aereo che si muove da solo è quasi surreale. Come se avesse preso il comando.
«Mi fa effetto» ammetto, tenendo comunque le mani vicine ai comandi. «È come se stesse dicendo: tranquillo, da qui ci penso io.»
Veronika sorride. Skippy si sistema meglio in braccio a lei, soddisfatta.
E il nostro piccolo Cessna, sospeso nel blu, continua dritto verso sud.
A volte bisogna solo fidarsi. E lasciarsi portare.

Gioco tra le Nuvole
Sono passati solo pochi minuti da quando ho attivato l’autopilota ma già mi sento… insofferente.
Il panorama è anche affascinante visto da quassù, con il mare che si stende sotto di noi come un tappeto blu punteggiato da nuvole sparse. Ma non sto pilotando. Non sto facendo nulla. Mi sembra quasi di essere diventato un passeggero del mio stesso aereo.
Allungo una mano verso il Garmin 1000, più per tenermi occupato che per necessità. Passo in rassegna schermate, dati, impostazioni. Poi premo un tasto di troppo, per sbaglio.
Silenzio. Poi, pochi istanti dopo, una voce secca dall’ATC nelle cuffie:
«SWA172, non riceviamo più il segnale dal vostro transponder. Si prega di riattivare immediatamente.»
«Ops…» sussurro, più a me stesso che agli altri. Rimedio subito, riattivandolo in una frazione di secondo e poi mi appoggio allo schienale facendo finta di niente, con l’aria di chi sta semplicemente riflettendo sull’esistenza.
Veronika, che ha sentito la comunicazione in cuffia, mi lancia uno sguardo di quelli che non hanno bisogno di parole, poi risponde alla radio con la sua solita calma composta:
«Copiato, confermiamo disattivazione involontaria. Problema risolto. Grazie per l’assistenza.»
Per fortuna siamo ancora in spazio aereo italiano. Avremmo potuto creare e avere problemi.
Per distrarmi lei inizia a giocherellare con Skippy, indicando le nuvole sparse all’orizzonte.
«Guarda quella! Non ti sembra un delfino con la coda in su?»
Skippy si solleva in piedi sulle gambe posteriori e imita la forma con le zampette tese in aria. Scoppiano entrambe a ridere.
Ne indicano un’altra che, secondo loro, sembra un gelato rovesciato. Provo a indovinare «fungo» e Skippy scoppia a ridere indicandomi come se fossi ridicolo.
Il tempo passa così, tra una nuvola e l’altra ma la traversata mi pesa.
Il blu è sempre uguale, l’orizzonte è lontano e immobile.
Controllo la rotta e la mappa sul tablet. Ormai non dovrebbe mancare poco, spero di avvistare presto la costa. Anche solo una linea sottile all’orizzonte. Un segno che stiamo arrivando.
Quando il cielo si fa eterno, anche le nuvole diventano gioco e rifugio.

Avvistamento
Tra le nuvole sparse finalmente compare una linea chiara all’orizzonte.
Mi raddrizzo all’istante, abbandonando la posizione svogliata in cui ero sprofondato da un po’.
Veronika, che stava ancora giocando con Skippy, se ne accorge subito e mi osserva.
«Ci siamo quasi» dico con un sorriso che sa di sollievo e stupore insieme.
Lei non dice nulla ma si china a prendere lo zaino e con un gesto teatrale lo apre. Affonda una mano dentro, poi la solleva come una prestigiatrice e annuncia:
«Ta-daaa! La guida della Tunisia, comprata questa mattina in aeroporto.»
Scoppio a ridere. «Non ci avevo nemmeno pensato… ero troppo assonnato anche solo per ricordartelo.»
«Infatti» risponde soddisfatta, sfogliando le prime pagine con Skippy che si avvicina, curiosissima, le orecchie tese e lo sguardo fisso sulle immagini.
«Dovremmo arrivare sulla costa all’altezza di Biserta, giusto?»
«Sì, più o meno tra cinque minuti.»
Lei cerca la sezione nella guida, poi legge ad alta voce:
«Eccola. Biserta, conosciuta anche come Bizerte, è una delle città più antiche della Tunisia. Fondata dai Fenici è stata poi occupata dai Romani con il nome di Hippo Diarrhytus. In epoca moderna è stata un importante porto francese, tanto che fu l’ultima città tunisina a essere restituita all’indipendenza, nel 1963. Il suo porto militare è ancora oggi attivo e il centro storico ha mantenuto molte tracce dell’epoca coloniale.»
Mentre parla, inizio a distinguere i contorni più netti della costa: il porto, le case bianche disposte a ventaglio attorno alla baia e poi un edificio in particolare cattura la mia attenzione.
«Quello cos’è?» chiedo, indicando con il dito una struttura allungata, vicina alla linea dell’acqua, con una forma che spicca tra le costruzioni più basse del centro.
Veronika stringe gli occhi, cercando di seguire la direzione che indico. Sfoglia ancora un paio di pagine della guida, poi mi dice:
«Dovrebbe essere il Musée de la Marine. Qui dice che si trova proprio nel porto vecchio. È un museo dedicato alla storia navale della Tunisia, con collezioni che vanno dalle imbarcazioni puniche fino ai sottomarini dell’epoca francese. L’edificio era una caserma, poi è stato riconvertito negli anni Sessanta.»
«Lo vedo benissimo da qui» mormoro. «Ha un’aria austera, militare. Ma affascinante.»
«Come tutto in questo paese» aggiunge lei con un sorriso. «Un miscuglio di epoche, culture, dominazioni. E in mezzo a tutto questo, eccoci qua…»
Skippy sbircia fuori dal finestrino, poi torna a guardare la guida come se volesse capire meglio anche lei dove siamo finiti.
Il nostro piccolo aereo prosegue lento, sospeso tra cielo e mare. Davanti a noi, la Tunisia si apre come un nuovo inizio.
Quando vedi una nuova costa all’orizzonte, capisci che stai per ricominciare da capo.

Bizerte
Durante il sorvolo di Biserta, il mio sguardo viene attirato da un’ampia distesa d’acqua interna.
«È il Lac de Bizerte» dice Veronika, che evidentemente ha notato la stessa cosa. Osserva il suo contorno quasi circolare, separato dal mare solo da una sottile lingua di terra.
Pochi minuti dopo, ne appare un altro sulla sinistra. Più stretto, sinuoso, con acque calme e grigie.
«E quello?» chiedo, indicando la Lagune de Ghar El Melh. «Com’è possibile che ci siano due bacini così grandi a ridosso della costa? A cosa servono?»
Veronika alza la guida e sfoglia con attenzione. «Sono aree lagunari, utilizzate da secoli per la pesca e come zone umide protette. Ghar El Melh, in particolare, è un’antica base navale ottomana, poi diventata un importante centro commerciale. Oggi è anche una riserva naturale, soprattutto per gli uccelli migratori.»
Scorriamo leggeri sopra Sebkha Ariana e anche qui l’acqua si estende silenziosa, mescolandosi a tratti con il sale, creando sfumature tra l’azzurro e il bianco.
«Anche questa piena d’acqua…» mormoro, affascinato. «Sembra che il mare si sia infilato ovunque.»
Poi la voce dell’ATC ci interrompe con un tono chiaro e tranquillo:
«SWA172, potete proseguire in VFR, autorizzati alla discesa.»
«Ricevuto, continuiamo in VFR.»
Imposto la nuova quota e inizio la discesa, felice di riprendere il controllo manuale. Le nubi si fanno più vicine, striate e basse, come se stessero accarezzando la città. E tra di esse, appare Tunisi.
È molto più grande di quanto immaginassi. Un intreccio fitto di edifici, strade, minareti e tetti piatti, incastonato tra altri specchi d’acqua.
Da quassù la terra sembra acqua, e l’acqua… una mappa segreta che solo il cielo può leggere.

Tunisi dall’Alto
Sorvoliamo Tunisi con le nuvole che continuano a coprire gran parte della visuale mentre scendo. Riesco solo a distinguere scorci della città, interrotti da veli bianchi che si muovono lenti sotto di noi. L’aeroporto dovrebbe essere poco lontano ma, per ora, non riesco ancora a vederlo.
Nel frattempo mi colpiscono due nuovi specchi d’acqua, vasti, silenziosi, che si aprono ai lati della città come laghi interni.
Poi finalmente scendiamo sotto il livello delle nuvole e la vista si apre. L’aeroporto appare alla nostra sinistra, grande, moderno, con due piste parallele. Ma prima di allinearmi alla discesa, un groviglio di tetti e strade strette mi attira lo sguardo.
«È la Medina, vero?» chiedo a Veronika, mentre controllo gli strumenti.
Lei annuisce. «Sì, il cuore antico della città. È lì che dobbiamo andare… per cercare Adnen o suo figlio.»
Non serve aggiungere altro. Entrambi ricordiamo bene le parole del professor Lissia e l’anello che Skippy stringe ancora con cura nello zaino.
«Speriamo di trovarlo» mormoro.
Mi allineo con calma, mantenendo la rotta. Subito dopo, allineandoci con la pista, sorvoliamo il Lac de Tunis e, proprio al centro, noto un isolotto collegato alla terraferma da una sottile lingua di strada.
«Cos’è quello?» chiedo, indicando il piccolo promontorio isolato.
Veronika, ancora con la guida in mano, dà un’occhiata rapida prima di chiuderla per il finale di volo.
«È l’Île Chikly,» risponde. «C’è un fortino sopra, si chiama Fort Chikly. Lo costruirono gli spagnoli nel Cinquecento, ma in realtà era un sito molto più antico, usato già dai cartaginesi. Per secoli è stato abbandonato, poi l’hanno restaurato da poco. Adesso è una riserva naturale, non si può visitare liberamente.»
«Interessante,» mormoro, mentre inizio a ridurre la velocità e abbassare i flap per la discesa finale.
Tunisi è apparsa viva, immensa, piena di storie. E noi stiamo per toccare terra.
Non tutti gli atterraggi segnano una fine. Alcuni… sono l’inizio di qualcosa che non possiamo ancora vedere.

Atterraggio a Tunisi
I carrelli toccano terra con un leggero sobbalzo. Freno con delicatezza e lascio che il Cessna rallenti progressivamente sulla lunga pista dell’aeroporto di Tunisi-Cartagine.
Seguiamo le indicazioni del ground control e iniziamo un lungo rullaggio tra taxiway ampie, affiancati da jet di linea e piccoli aerei d’affari. L’aeroporto è più grande e trafficato di quanto immaginassi.
Quando raggiungiamo finalmente la piazzola assegnata, spengo motore e avionica. L’elica rallenta, si ferma. Il silenzio che segue ha un suono strano, sospeso.
Scendiamo con zaini e documenti in mano. Un addetto in uniforme ci accoglie con cortesia e ci accompagna in un edificio secondario, dove iniziano le pratiche di ingresso.
Consegniamo il piano di volo stampato, i passaporti, le autorizzazioni ricevute via email. Poi tocca ai controlli doganali: uno sguardo nei bagagli, domande su dispositivi elettronici e medicinali.
Quando uno degli agenti apre lo zaino di Skippy, il suo sguardo si fa più attento. Tira fuori uno alla volta i piccoli oggetti raccolti durante il viaggio: la monetina di Napoleone, la campanellina di Calvi, la testa dei giganti e tutti gli altri.
«Cosa sono questi?» chiede il doganiere, rivolgendosi a Veronika con un’espressione che si è fatta più sospettosa.
«Souvenir» risponde Veronika, con voce calma. Apre la guida turistica che aveva nello zaino, poi sfila una bustina in plastica dove sono indicati i nomi dei musei visitati. «Vengono tutti da esposizioni pubbliche. Nessun pezzo originale, solo riproduzioni comprate nei bookshop o regalate da persone che abbiamo incontrato.»
L’uomo li osserva uno per uno, perplesso. Poi, mentre li sta riponendo nello zaino, nota l’anello di bronzo e il bottone inciso. Li prende in mano, li gira tra le dita.
Un brivido mi corre lungo la schiena. Sono gli unici due oggetti autentici.
Li osserva ancora per un attimo, poi li rimette nello zaino senza dire nulla dandogli evidentemente poca importanza.
Un altro agente ci consegna i passaporti timbrati.
Possiamo passare.
Ci ritroviamo fuori, nel piazzale assolato dell’aeroporto. L’aria è diversa. Più calda, più secca.
Non c’è quella brezza salmastra che accarezzava le mattine in Sardegna. Qui l’aria resta ferma, avvolgente, come se trattenesse il respiro.
Sento un odore che non riconosco subito. Una miscela di terra asciutta, spezie lontane e qualcosa di ferroso, antico. Come se la città ci stesse annusando a sua volta, prima di lasciarci entrare.
Veronika mi guarda con un sorriso leggero, lo stesso che aveva quando ci siamo alzati stamattina. Ma ora lo sento anche carico di attesa.
Io ho ancora una sola domanda in testa:
Troveremo questo Adnen?
Ogni confine attraversato non è mai solo geografico. È una soglia tra il conosciuto e l’imprevisto.
