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Autore: SkyWander

17 + Diario di Volo Kasserine

Verso Ovest

Sto per mettere in moto quando noto che la mano mi trema. Sono nervoso e agitato. Non è ansia da volo, non stavolta. È qualcosa che mi stringe dentro, un nodo di pensieri che non vogliono andarsene. Mentre giro la chiave di accensione dell’XCub, penso che Ali, seduto dietro di me in questo piccolo biposto, mi abbia lasciato i comandi per distrarmi, per aiutarmi a respirare un po’. Gli sono grato ma non gli ho detto grazie. Non ancora.

Prima del decollo mi mostra con calma le differenze rispetto al Cessna: i flap si controllano con una leva grande, montata in alto a sinistra, come nelle vecchie macchine agricole. Anche la posizione a terra è diversa: due ruote grandi davanti e una piccola dietro, sembra in punta di piedi. Eppure, appena prendiamo velocità sulla pista sterrata e sconnessa, sento le ruote affondare e ammortizzare dolcemente ogni buca. Poi, quasi senza accorgercene, l’XCub si stacca da terra.

È un attimo. Decolliamo in meno della metà dello spazio che servirebbe al mio Cessna.

Subito dopo la virata verso ovest ho il sole basso sull’orizzonte che colora di rame la campagna, rendendo questo paesaggio diverso da quando sono arrivato.

«Se tutto va bene arriveremo a Kasserine prima che faccia buio» mi avvisa la voce di Ali nelle cuffie.

L’XCub è scattante, agile, leggero. Sto pensando che mi piace pilotarlo quando Ali indica un fiume che brilla in lontananza illuminato dal sole che scivola tra le colline.

«È l’Oued Zeroud» mi dice «È un fiume stagionale che scorre verso ovest. Tienilo alla sinistra. Lo seguiremo per un po’.»

Guardo fuori e annuisco. Il fiume sembra una lama di luce incastonata nella terra.

Prima di decollare davvero bisogna lasciare a terra ciò che pesa dentro.

prima del decollo con l’Xcub (foto flight simulator 2024)

Grazie

Sorvoliamo una serie di rilievi nei pressi di Ouled Khalfallah. Queste colline, parte della dorsale tunisina, offrono un paesaggio suggestivo. Ali mi racconta che la zona è nota per la sua bellezza naturale e per le tradizioni locali legate alla pastorizia e all’agricoltura.

Subito dopo c’è il Barrage El Haouareb, un piccolo lago artificiale creato da una diga chiaramente visibile. La luce del tramonto, i rilievi attorno, i riflessi sull’acqua calma: tutto contribuisce a creare un’atmosfera incredibilmente rilassante.

Mi rendo conto che, come la moto, anche volare mi aiuta a calmarmi e sentirmi bene.

Prendo un respiro e, un po’ in imbarazzo, rompo il silenzio: «Grazie… Grazie di tutto, Ali. Grazie per avermi permesso di pilotare e di distrarmi… non ci conosciamo da molto ma ti sono grato per tutto quello che hai già fatto e stai facendo per me.»

«Baraka Allāhu fīk» sento in cuffia. Poi mi spiega che è un’espressione tipica: significa “Che Dio ti benedica”. È un modo tradizionale per esprimere gratitudine e benedizione nella cultura tunisina.

Poi mi stringe la spalla con la mano, una sorta di abbraccio silenzioso.

A volte basta volare bassi per sentirsi più leggeri dentro.

parte della dorsale tunisina (foto flight simulator 2024)

Le alture del Mghilla

Il sole si fa più tenue, ancora nascosto tra le nuvole all’orizzonte. Il paesaggio cambia: le colline più marcate si trasformano in rilievi decisi.

«È il Parc National de Jebel Mghilla» dice Ali mentre mi tocca la spalla sinistra e indica la montagna che si staglia alla nostra sinistra.

Mi colpisce la sua imponenza: si alza come un baluardo nella distesa ondulata che ci accompagna da Kairouan. Ali, che sembra conoscere ogni angolo di questa terra, racconta che queste montagne, un tempo frequentate solo da pastori e cacciatori, sono oggi luogo di protezione per aquile reali, lepri berbere e persino iene striate.

«Ma sai qual è la leggenda?» mi chiede con un tono di mistero. «Si dice che qui si rifugiasse un vecchio contrabbandiere che conosceva ogni sentiero e ogni grotta. Lo chiamavano l’uomo senza orme, perché nessuno riusciva mai a seguirlo.»

Sorrido. Sembra una favola ma detta da lui, con la sua strana cadenza italiana, suona come una verità nascosta.

«Ora sali un po’» dice all’improvviso. «Tagliamo il crinale e andiamo verso Sbeitla

«Sbeitla?» chiedo, cercando di orientarmi.

«Fidati, ti piacerà.»

Eseguo la manovra guadagnando quota. Lo faccio senza pensarci troppo ma dentro sento qualcosa muoversi. Torna quella sensazione di essermi allontanato da ciò che conosco per andare incontro a qualcosa che mi spaventa e mi risveglia istinti primitivi.

Prendo un respiro profondo, cercando di riprendere la calma.

Ogni quota nuova richiede di lasciare a terra una parte di sé.

verso il Parc National de Jebel Mghilla (foto flight simulator 2024)

Tempo immobile

«Ci siamo.» esclama Ali mentre superiamo l’ultimo crinale e il paesaggio si apre come un sipario su una cittadina dalle case basse. Mi fa cenno di abbassarmi leggermente, così riduco la potenza e ci lasciamo scivolare in una lenta planata.

Davanti a noi Sbeitla sembra scolpita nella terra.

Resto in silenzio per qualche secondo osservando il mosaico di pietre antiche che ho d’avanti. Tutto appare immobile, come se trattenesse il respiro.

«È l’antica Sufetula» dice Ali con voce calma «una delle città romane meglio conservate della Tunisia.»

Da quassù si vedono nettamente i resti del foro, tre templi allineati, colonne ancora in piedi, e l’ombra lunga dell’arco di trionfo che si disegna sulla terra.

«Quei tre templi lì» continua «non sono dedicati a una sola divinità ma a tre: Giove, Giunone e Minerva. Di solito i romani li riunivano in un unico edificio. Qui, no. Qui ognuna aveva il suo tempio. È unico nel mondo romano.»

Mi sporgo leggermente, cercando di cogliere i dettagli: il teatro semi-sepolto, la trama delle strade, i resti delle basiliche cristiane che si distinguono appena tra la pietra gialla e la sabbia.

«Qui si è anche combattuto» aggiunge Ali. «Nel 647 dopo Cristo, gli arabi guidati da Abdallah ibn Sa’ad sconfissero i bizantini. Fu uno degli scontri che aprirono la strada alla conquista dell’Africa del Nord. Dopo quella battaglia, Sufetula non tornò più la stessa.»

Resto in silenzio. La luce radente esalta ogni rilievo, ogni colonna spezzata, ogni traccia lasciata da mani che non ci sono più. È come volare sopra una memoria ancora viva.

«Non è solo un sito archeologico» dice Ali, come se leggesse nei miei pensieri. «È un posto che parla. Devi solo saper ascoltare.»

Faccio un cenno, lasciando che lo sguardo si posi sulle rovine una volta ancora, prima di tornare a puntare nuovamente verso ovest.

Alle nostre spalle, Sbeitla rimane lì.
Piccola e fragile.
Ma più grande di quanto avrei mai immaginato.

Ci sono luoghi che non parlano ma sussurrano. Basta saperli ascoltare dall’alto.

i tre Templi di Sbeitla (foto Dall-E)

Lampioni

«Segui la P13» mi dice Ali puntando il dito verso una linea luminosa che si snoda nel paesaggio. «Vedi la luce dei lampioni? Ci porteranno a Kasserine

Guardo giù e noto la sottile colonna di luce che serpeggia nel paesaggio sempre più scuro. Una strada che non divide ma collega. L’XCub prosegue silenzioso nelle prime luci della sera.

All’improvviso sento una leggera pacca sulla spalla. Ali mi indica qualcosa in alto alla mia sinistra: un piccolo tubicino di vetro sopra la testa. All’interno, il livello di carburante si è quasi azzerato.

«È il serbatoio sinistro» dice con tono calmo. «Quello che stiamo usando da inizio volo.»

Mi volto verso destra, intuendo che ci sia un secondo tubicino. Eccolo: il livello è visibilmente più alto. Mi colpisce la semplicità di questo sistema: due tubicini, due finestre trasparenti che raccontano con chiarezza quanto ancora possiamo volare.

Ali mi indica poi una leva rossa accanto al mio ginocchio sinistro. «Quella, ruotala per cambiare serbatoio.»

Obbedisco. Ruoto con cautela. Ali sorride e mi dà due leggere pacche sulla spalla. Non dice nulla ma il messaggio è chiarissimo: bravo.

Pochi istanti dopo compare Kasserine. La città è lì, distesa tra la terra e le montagne, accesa da mille punti luce che tremano nella penombra. Il tramonto la avvolge con gli ultimi bagliori dorati.

Restiamo in silenzio. Nessuno dice nulla. Perché a volte, quando arrivi in volo sopra una città che non conosci ma che sembra aspettarti, non c’è bisogno di parole.

Ci sono silenzi che parlano più di un debriefing.

Djebel Chambi la vetta più alta della Tunisia (foto flight simulator 2024)

Kasserine

Sopra Kasserine l’aria è immobile, il cielo sfuma ora verso il viola e la città sotto di noi sembra sospesa tra la quiete e una memoria che non dorme mai.

«La conosci la storia di questa città?» chiede Ali, mentre indica con un movimento della testa una zona più a sud-ovest.

«So solo che c’è una montagna importante qui vicino.»

«Djebel Chambi. Sì, è la vetta più alta della Tunisia. Lì, alla nostra destra: 1.544 metri»

Mi giro a osservarla. Lui continua: «Ma non è solo la montagna ad aver fatto la storia di Kasserine. Questa terra ha visto la guerra, vera. Quella mondiale.»

Resto in silenzio, incuriosito, lasciandogli spazio per continuare. La sua voce si fa più intensa.

«Febbraio 1943. Le forze dell’Asse, guidate da Rommel, hanno colpito duro gli americani nel Passo di Kasserine. Una disfatta. I soldati alleati non erano preparati alla tattica tedesca. Persero uomini, terreno… e innocenza. Quel giorno si è fatta la storia.»

La città sotto di noi ora ha un peso diverso.

«Dopo quella sconfitta, gli americani cambiarono tutto. Comandi, strategie. E da lì, lentamente, iniziarono a vincere. Ma qui… qui ci hanno lasciato il sangue.»

«Ci sono ancora segni?» chiedo.

«Ci sono. Cimiteri, resti, racconti. La gente non dimentica. Kasserine è una città fiera, dura, ancora oggi. Ha vissuto anche le rivolte degli anni ’80. E durante la Rivoluzione del 2011 è stata una delle prime a scendere in piazza. Sempre in prima linea, anche quando nessuno la guarda.»

Abbasso lo sguardo. Le luci delle case sembrano tutte accese adesso, come occhi che ascoltano.

«Sento un grande ardore dentro di te mentre racconti queste cose, Ali.»

Sorride. «Perché mio nonno c’era. Non alla guerra ma alla rivoluzione del pane. E mio padre, nel 2011, era in strada. Qui la storia non è nei libri. È nelle famiglie. La mia è stata presente.»

Resto in silenzio mentre penso che la sua voce, così enfatica e decisa mentre racconta queste cose, rispecchia il mio stato d’animo. Determinato a lottare per chiudere questa faccenda e proteggere le persone che amo.

Kasserine non è solo un punto d’arrivo. È un nodo, un incrocio di vite, lotte e memoria. E dall’alto sembra voglia darmi forza e coraggio per portare a termine la mia battaglia.

Ci sono luoghi che non si attraversano. Ti attraversano loro.

superata Kasserine (foto flight simulator 2024)

Sipario

Sembra che il cielo abbia deciso di abbassare il sipario su una giornata intensa. La luce del sole ormai è fioca. Ali mi indica una rotta precisa: «Ci siamo quasi. Dirigiti verso Thélepte

Guardo verso l’orizzonte, cercando qualcosa che mi confermi dove andare. Ma vedo solo un piccolo luccichio lontano, come una manciata di luci perse tra le pieghe del paesaggio. Forse un villaggio. Forse una cittadina. Forse solo una suggestione.

Il terreno si fa più ruvido. Arido, segnato da piccole depressioni e colline smussate. Il tipo di paesaggio che non racconta nulla, a meno che tu non sappia ascoltare.

Cerco l’aeroporto ma non lo vedo. Mi guardo continuamente attorno e Ali, notando la mia agitazione, cerca di rassicurarmi.

«Non ti preoccupare» dice con tono tranquillo. «È in basso, in una depressione. Da qui non si vede. Ma c’è.»

Poco dopo la pista compare in una sorta di conca, improvvisa come una certezza che si rivela solo all’ultimo. È stretta, spoglia, quasi invisibile nel paesaggio. Ma c’è.

Sento Ali parlare alla radio, scambiare poche parole in francese con qualcuno a terra. La risposta arriva chiara: abbiamo l’autorizzazione all’atterraggio.

«Fammi fare un giro» gli dico, prendendo leggermente quota. Voglio capire come è orientata la pista rispetto al vento e al terreno.

L’XCub risponde preciso, come se sapesse che questa è la parte in cui si gioca tutto: chiudere il volo bene, con rispetto.

Ali non dice nulla ma so che sta osservando con attenzione ogni mio movimento. Del resto questo è il suo aereo. So che se sbaglio me lo dirà con gentilezza. Ma se atterro bene… forse mi darà una di quelle sue pacche sulla spalla che valgono più di mille parole.

Nel volo, come nella vita, ci sono mani che guidano anche quando restano ferme.

verso Thélepte (foto flight simulator 2024)

Un atterraggio diverso

Abbasso la velocità agendo con attenzione sulle due leve che ho a sinistra: quella blu, che controlla il passo dell’elica, e quella nera, per la potenza del motore.

Poi, quando la velocità è idonea, abbasso la grossa leva dei flap sopra la mia testa e sento l’XCub modificare il suo assetto. Il silenzio è totale, ora che il motore non ruggisce più come prima.

Mi allineo con la pista. È corta ma so che questo aereo non è il Cessna e necessita di molto meno spazio. So anche che ha il baricentro più arretrato, le ruote grandi davanti e una piccola dietro. Se sbaglio l’assetto, potrei rimbalzare malamente o, peggio, farlo impennare.

Resto concentrato, allontanando tutti i pensieri.

Sento le ruote toccare con una delicatezza che non mi aspettavo. Morbide, grandi, come se affondassero appena nel terreno. Un leggero rimbalzo. Poi la seconda toccata, più stabile. Sorrido. Accarezzo i freni, sento l’XCub rallentare senza fretta.

Due pacche leggere sulla spalla. Le riconosco subito. Ali.

Ho fatto un buon lavoro.

Rulliamo verso le piazzole a fondo pista. Noto subito un dettaglio: alcune tende bianche, pulite, ordinate, con sopra un simbolo medico. Un emblema umanitario.

Ali mi indica con un cenno dove parcheggiare. Eseguo senza dire una parola. Spengo motore, strumenti, luci. Un silenzio nuovo ci avvolge. Scendiamo.

L’aria, nonostante l’ora, è ancora calda. Sospesa. Profuma di terra e vento.

Un uomo si avvicina dal buio della pista. Indossa una pettorina rifrangente ma l’abbraccio con cui accoglie Ali rivela qualcosa di più. Si conoscono. Da tempo.

«Dov’è il grande capo?» chiede Ali in inglese, con un tono a metà tra lo scherzoso e il rispettoso.

L’uomo indica una delle tende bianche, sul margine esterno della pista, lontano da tutto e da tutti.

Ali si gira verso di me. Mi guarda. E senza una parola mi fa segno di seguirlo.

Ci sono atterraggi che segnano la fine di un volo. E altri l’inizio di qualcosa.

sulla pista di Kasserine (foto flight simulator 2024)

16 – Diario di Viaggio Qayrawan

Benvenuti a Casa

La polvere rossa si sta ancora posando lentamente sul terreno quando scendiamo dall’aereo. Ali si avvicina con passo sicuro, spalanca le braccia e ci accoglie con un ampio sorriso. Meriem, sua moglie, ci raggiunge subito dopo. Ha uno sguardo calmo, accogliente. Incrocia quello di Veronika e, come se si fossero riconosciute da sempre, le porge la mano con un gesto delicato, poi le sfiora le spalle con un abbraccio laterale e due baci rapidi sulle guance.

«Marhba bikum… benvenuti.»

Ali, con un italiano marcato ma comprensibile, ci invita a seguirli. «Prego, venite.»

Ci incamminiamo lungo un sentiero di terra battuta con il sole che accende i colori della campagna. La casa è bellissima, intonacata a calce bianca, con infissi azzurri e una tettoia di canne intrecciate che regala ombra alla piccola veranda. All’interno l’aria è sorprendentemente fresca grazie ai muri spessi. Il salotto è semplice ma pieno di dettagli: tappeti berberi, cuscini colorati, fotografie incorniciate alle pareti, scatti in bianco e nero, momenti di volo, istantanee familiari. Un modellino di aereo fatto a mano troneggia su una mensola accanto a un vecchio casco da pilota.

Meriem ci porge tre bicchieri bassi di tè alla menta, caldo e profumato.

«Zouj choia sucrée? Poco zucchero?» chiede a Veronika, che annuisce sorridendo. Sul tavolino, una ciotola con datteri, mandorle e un pane tondo ricoperto di semi di sesamo completa l’accoglienza.

Bevo un sorso. Il sapore è forte, dolce e profondo. Poi appoggio il bicchiere e mi rivolgo ad Ali. «Durante il volo… abbiamo avuto un problema. La pressione del carburante è calata all’improvviso. Non si è ripresentato ma non mi convince. Hai per caso strumenti più tecnici per controllare bene il regolatore e il circuito?»

Ali si gratta la barba e annuisce. «Sì, certo. Ho tutto. Facciamo insieme. È importante.»

Ci alziamo e ci dirigiamo verso il piccolo hangar accanto alla casa, lasciando Veronika e Skippy in compagnia di Meriem.

Rimaste sole le due donne si guardano un attimo in silenzio. Poi Meriem si siede accanto a Veronika e le porge un altro dattero. Parlano piano, mescolando italiano e inglese. In pochi minuti, tra loro si crea una confidenza semplice, sincera. Fatto di gesti, sorrisi, e silenzi condivisi.

Ci sono luoghi che ti accolgono con una tazza di tè e uno sguardo sincero. E in quel gesto… sei già a casa.

Ali e Meriem (foto Dall-E)

Scoperte

Ali si avvicina al Cessna e si infila sotto l’ala con naturalezza, come se lo facesse ogni giorno. Lo seguo in silenzio con in mano la torcia e la chiave inglese lunga che mi ha passato.

Iniziamo controllando il vano motore, poi seguiamo la linea del carburante. Passiamo molto tempo in assoluta concentrazione, scambiandoci poche parole, finché Ali, inginocchiato sul lato destro della fusoliera, si blocca e mi chiama con un cenno.

«Qui. Vicino all’attacco della pompa meccanica… vedi questo tubo?»

Mi chino per osservare meglio. È uno dei condotti che convoglia il carburante dalla pompa meccanica verso l’unità di controllo aria-carburante. A prima vista sembra tutto in ordine ma, quando Ali spinge leggermente un raccordo, noto una sottile traccia di benzina secca proprio lì dove non dovrebbe esserci nulla.

Ali si alza lentamente, lo sguardo serio. «Questo… non è bene. È stato allentato. Apposta.»

Lo guardo fisso. Le parole si fermano tra i denti. Non era un guasto. Era una manomissione intelligente. Un intervento preciso su un punto chiave del circuito, dove una piccola perdita avrebbe potuto peggiorare col tempo, causare un calo di pressione, indebolire il motore… lontano da testimoni, lontano da chiunque potesse aiutarci.

«Qualcuno voleva farci precipitare ma… non subito. Voleva che ce ne andassimo… per poi sparire nel nulla.» La mia voce è bassa, contratta.

Le immagini si affollano nella mia mente: quell’uomo che ci fotografava a Cagliari, l’uomo incappucciato al mercato di Tunisi, il mio sospetto che cresceva senza prove. Ora le prove sono lì, sotto gli occhi.

Sono furioso.

Ali resta composto. Non parla ma mi guarda con un rispetto silenzioso.

Riprendo fiato. «Dove possiamo trovare questo pezzo per la sostituzione?»

Ali scuote la testa. «No. Non qui. È specifico. Regolatore… raccordo per questa zona del circuito. Qui in Tunisia… mesi per averlo.»

Mi passo una mano sul viso, cercando di controllare la rabbia e trovare una soluzione. Poi prendo il telefono e compongo il numero di Carlo. Risponde al terzo squillo.

«Carlo… il Cessna è stato sabotato. Credo a Tunisi. Hanno allentato un raccordo vicino alla pompa del carburante e manomesso il regolatore. È stato fatto apposta. Hanno giocato con la pressione ma senza fretta.»

Dall’altra parte, il silenzio dura un istante. Poi Carlo, con voce bassa ma ferma: «Camillo te lo avevo detto. State disturbando qualcuno. Qualcuno che ha paura che arriviate troppo vicini a qualcosa che non vuole venga scoperto.»

«Lo so Carlo… ormai è chiaro anche a me. Ali dice che potremmo restare qui settimane perché questo specifico tipo di ricambio non è disponibile probabilmente in questa zona.»

«Dammi un’ora. Faccio un po’ di telefonate. Conosco qualcuno in zona. Tu intanto resta lì e mi raccomando… occhi aperti.»

Annuisco chiudendo la chiamata e resto in silenzio, immerso nei mille pensieri mentre osservo il Cessna. Rientriamo in casa con le scarpe impolverate e il cuore gonfio; Ali vuole controllare dei siti web specializzati della zona per capire se hanno una soluzione.

Quello che trovo in cucina è un contrasto totale rispetto al mio stato d’animo. Veronika, Meriem e Skippy sono attorno al tavolo. Le mani delle donne impastano insieme sottili sfoglie di pasta.

«Si chiamano brik» spiega Meriem, indicando le forme triangolari. «Si preparano con pasta sottile e si farciscono con uova, tonno e prezzemolo. Poi si friggono fino a doratura.»

Skippy osserva Veronika sorridere di gusto. L’atmosfera è calda, serena. C’è odore di cumino e farina tostata.

Rimango sulla soglia, con un sorriso che non riesce a essere sincero. Per ora, preferisco non dire nulla.

La verità a volte sta tutta in un dettaglio. Una vite allentata, un odore secco… e un istante in cui capisci di essere nel mirino.

manutenzione al cessna (foto Dall-E)

Un pranzo denso di pensieri

Il pranzo viene servito sotto il portico, all’ombra di una tettoia di canne intrecciate. Il tavolo è basso, coperto da una tovaglia decorata a mano con motivi geometrici. Al centro un grande piatto colmo di kaftaji, un mix fritto di patate, peperoni verdi, uova, pomodori e spezie. Accanto, ciotoline con olive nere, harissa, carote speziate, datteri freschi e pane piatto, caldo e profumato, spezzato con le mani e distribuito senza formalità.

Meriem appoggia un brik triangolare nel piatto di Veronika. «Si mangiano caldi, appena fritti. Sono semplici ma se li fai con calma… sono buonissimi.»

Ali, seduto accanto a me, annuisce. «Il kaftaji è povero… ma potente. Ti resta dentro. Come Qairouan.»

«Qairouan… è così che si pronuncia?» chiede Veronika, appoggiando il cucchiaio per un momento.

«Sì. Qairouan. In arabo si dice Al-Qayrawān. Vuol dire “accampamento” o “luogo di raduno”.»

Ali si piega in avanti, coinvolto dal racconto. «Fu fondata dagli arabi nel settimo secolo, come punto strategico tra mare e deserto ma poi è diventata sacra. La quarta città santa dell’Islam, dopo La Mecca, Medina e Gerusalemme. C’è una leggenda che dice che ogni sette pellegrinaggi a Qairouan valgono come uno alla Mecca.»

Ascolto distrattamente. Muovo il cucchiaio nel piatto con gesto meccanico. Non ho fame. Sono ancora teso, la mente piena di immagini e sospetti. Cerco di tornare in me.

Ali mi osserva con la coda dell’occhio, poi cambia tono cercando di coinvolgermi nella conversazione. «Sai cosa dicono gli anziani da queste parti? Che Qairouan è come il tè alla menta: se la bevi una volta, torni sempre. Ma se la bevi due volte… ci resti per sempre.»

Meriem sorride mentre riempie nuovamente i piatti, offrendo un altro pezzo di pane caldo.

Accenno un sorriso, più per educazione che per fame.

Ali lo capisce. Non insiste. Prende un boccone, poi si pulisce le mani con un tovagliolo e cambia argomento con discrezione.

«Dunque… quell’uomo che cercate. Il posto che mi hai descritto prima… lo conosco. È isolato ma ci si può arrivare. Se volete, vi accompagniamo con piacere. Possiamo andare subito dopo pranzo, prima che il sole si abbassi troppo.»

Veronika si volta verso di me. Alzo lo sguardo dal piatto e annuisco, anche se quell’uomo e la sua storia ora, per me, sono l’ultima cosa a cui riesco a pensare. Ma devo capire come chiudere questa storia. Come farci lasciare in pace.

Bevo un sorso d’acqua.

«Sì. Andiamo.»

Ci sono tavole dove il cibo parla. Ma a volte, anche il piatto più caldo non riesce a scaldare quello che porti dentro.

il pranzo a casa di Ali e Meriem (foto Dall-E)

Verso il cuore del silenzio

Il grande SUV bianco di Ali scivola lungo una pista di terra battuta che si allontana sempre più dalla strada asfaltata. La campagna intorno è piatta ma viva: ulivi nodosi si alternano a palmeti radi e la terra assume sfumature ramate sotto il sole del primo pomeriggio. Il cielo è terso, immobile. Solo il vento tra le foglie rompe il silenzio.

Meriem si gira verso Veronika, indicando col dito un dosso in lontananza. «Lì c’era una sorgente, una volta. Gli anziani dicevano che l’acqua veniva dal sottosuolo benedetto. Ora è asciutta… ma qualcuno viene ancora a pregare.»

Poco dopo, superiamo un vecchio pozzo in pietra, poi un albero solitario che Meriem chiama l’olivo della promessa. «Dicono che le donne ci legavano nastri se volevano un figlio. Se l’olivo fioriva entro l’anno era segno buono.»

Ascolto senza dire una parola. Veronika mi osserva in silenzio; ormai le è chiaro che qualcosa non va.

Dopo quasi un’ora di guida, il SUV rallenta. Davanti a noi, una piccola struttura in pietra, isolata, con il tetto piatto e l’intonaco scolorito. Nessuna recinzione, nessun rumore.

Ali parcheggia sotto una palma, spegne il motore e si gira verso di noi. «Siamo arrivati. Lui è lì dentro. Ma noi restiamo qui. È meglio.»

Meriem annuisce. «Vi aspettiamo. Prendetevi il tempo che serve.»

Apro la portiera. Il silenzio fuori è quasi solido. Un vento caldo mi accarezza il volto.

Veronika e Skippy mi seguono mentre mi avvio verso la porta con passo lento ma deciso.

Nessuno parla.

Tutto in questo momento e in questo luogo sembra sospeso.

Ci sono silenzi che non fanno rumore ma, quando li attraversi, sai che qualcosa sta per cambiare per sempre.

ulivo della promessa (foto Dall-E)

Il Custode del Segreto

L’anziano esce sul piccolo portico. Non ci chiede nulla ma quando i suoi occhi incrociano la fibula in rame donataci da Adnen, si ferma. Lo sguardo cambia.

Ci osserva uno a uno, poi ci fa cenno di entrare. Nessuna parola. Nessuna esitazione.

È un uomo alto, magro, il corpo leggermente incurvato dagli anni ma con una presenza che riempie lo spazio. Le mani sono forti, segnate dal legno e dal tempo. Gli occhi invece… sono vivi. Di un’intensità che mette a nudo.

«Se avete quella…» dice piano «e siete arrivati fin qui… allora sapete già chi sono. E so perché siete qui.»

Ci accomodiamo. La casa è piccola ma ogni oggetto ha un peso. Oggetti intagliati, utensili antichi, frammenti lignei… reliquie. Pezzi di storia.

«Ho servito tutta la mia vita come custode del segreto del nostro Ordine. Quando è iniziata la scissione e ho scelto da che parte stare… mi hanno fatto capire che il mio tempo era finito. Vi dirò quel che posso. Ma oltre questo… c’è solo silenzio.»

La sua voce è limpida. Perfetto italiano ma attraversato da un accento maghrebino che lo rende ancora più grave.

«Ampsicora… non si tolse la vita. Fu fatto fuggire. Dopo la sconfitta guidò i pochi rimasti in un esilio volontario. Un esilio voluto per proteggere un sapere che i vincitori non volevano solo dimenticare… volevano cancellarlo. Non erano solo i Romani. Era la religione del potere. Quella che l’Impero portava ovunque. E che ancora oggi… veste altri nomi.»

Indica una statua in legno: alta, sproporzionata, potente. I contorni sono grezzi ma lo spirito scolpito dentro è antico e fiero.

«Durante la battaglia con Roma non tutti furono uccisi. Alcuni scelsero di sparire. Ampsicora non voleva diventare un martire ma un seme. Qui, in questa terra accogliente, dove la sabbia protegge più che nascondere fondò un nuovo Ordine. I suoi figli… e poi i figli dei figli… hanno continuato a custodire il segreto. Fino a noi.»

Fa una pausa. Abbassa lo sguardo.

«Ma oggi… il tempo dell’Ordine è alla fine. I giovani non vogliono più vivere nell’ombra. Sono distratti, affamati di visibilità, rapiti dal mondo veloce che ci gira intorno. Alcuni nell’ordine credono che il mondo sia pronto per la verità. Altri… sanno che il momento è passato. E forse… hanno ragione.»

Alza gli occhi. Lo sguardo si fa tagliente.

«Loro… quelli di Roma e dei loro alleati… oggi sono ancora più forti. Controllano i media. Le menti. La narrazione. Se dicessimo oggi ciò che sappiamo… se mostrassero ciò che nascondiamo ci descriverebbero come pazzi. Complottisti. E la verità… morirebbe ridicolizzata.»

Estrae una shisha da sotto il tavolo. L’accende con calma e l’aroma caldo del tabacco speziato riempie la stanza.

«E poi… se scoprissero che siamo ancora attivi… non ci darebbero nemmeno il tempo di spiegare. Loro hanno eserciti. Hanno banche. Hanno delegazioni nei posti giusti. Noi… siamo solo ombre. E peggio ancora: divisi.»

Aspira lentamente. Espira.

«Da anni ormai l’Ordine è spaccato in due. Una parte vuole mostrare tutto. L’altra vuole cancellare ogni traccia. E chi si avvicina troppo… viene fermato. In qualunque modo.»

Mi irrigidisco. Sento la rabbia salire come un’onda.

«Lo so. Hanno sabotato il nostro aereo. Ci seguono da giorni. E non si fermeranno. Vogliono metterci a tacere. Per sempre.»

Veronika sgrana gli occhi. Skippy si stringe alla sua gamba, ora consapevole del rischio che abbiamo corso e che stiamo correndo.

L’anziano mi guarda con più attenzione. Annuisce.

«È la fazione del silenzio. Sono fanatici. Per loro… voi siete un rischio che non possono permettersi.»

Mi alzo. Il cuore mi batte forte. Le mani strette a pugno.

«E allora che facciamo? Come si ferma questa follia?»

L’anziano rimane in silenzio. Lo vedo riflettere. Poi si alza anche lui, lentamente.

«C’è solo una persona che può decidere il destino di questa storia. Il Maestro Venerabile. Vive a Gafsa. È l’ultimo discendente diretto di Ampsicora. Entrambe le fazioni gli devono rispetto. È l’unico che può proteggerli… e forse, proteggere anche voi.»

«Un… suo discendente?» sussurra Veronika.

«Sì, a differenza di quel che hanno sempre raccontato. Ampsicora ebbe una nuova progenie in Tunisia. L’ultimo discendente non ha mai lasciato Gafsa. È lui che custodisce ciò che nessun altro ha mai visto. Ma non vi aprirà le porte con leggerezza. Chi ha voluto sapere… ha dovuto rinunciare a molto. Perché sapere, figli miei… significa portare un peso. E non tutti sono pronti a portarlo.»

Stringo i pugni. Lo sguardo fermo.

«Lo troveremo. Qualsiasi cosa ci chieda… lo faremo. Ma questa storia va chiusa. Una volta per tutte.»

L’anziano cammina verso una vecchia cassapanca. La apre. Dentro, tra tessuti consumati, prende un oggetto avvolto in un panno. Lo scarta lentamente.

È un medaglione. Il simbolo è quello: un cerchio spezzato con una punta ricurva. Lo stesso che aveva Adnen. Lo stesso inciso sulla spilla di Skippy.

Ce lo porge. Nessuna parola.

Il nostro viaggio…

…non è ancora finito.

Ci sono verità che non si cercano. Ti scelgono loro ma chiederanno qualcosa in cambio… sempre.

l’anziano custode (foto Dall-E)

Decidere in silenzio

Esco dalla piccola casa con il cuore in tumulto e i pensieri che si accavallano come onde.

Cammino deciso verso l’auto, Veronika e Skippy mi seguono in silenzio. Non c’è bisogno di parole. Hanno capito. Lo vedo nei loro occhi.

Salgo in macchina senza dire nulla. Mi siedo accanto ad Ali, fisso il finestrino e mi lascio inghiottire dal paesaggio. Lui mi osserva senza dirmi nulla, poi mette in moto.

La campagna tunisina sembra più secca, più dura rispetto all’andata. Forse rispecchia il mio stato d’animo.

Ali e Meriem non fanno domande. L’auto si muove lenta, come se volesse darci tempo.

Poi il telefono vibra nella tasca. Lo tiro fuori. Sullo schermo compare il nome di Carlo.

Rispondo subito. La chiamata dura poco ma basta a rimettere in moto qualcosa dentro di me.

Rifletto un attimo, prendo un respiro profondo e mi volto verso Ali.

«Carlo ha trovato una soluzione. A Kasserine c’è ancora una delle sedi del vostro gruppo. Una vecchia base usata per le missioni umanitarie. C’è un uomo lì, un ex tecnico aeronautico. Si chiama Jonas Meijer. È olandese. Carlo mi ha detto che è preciso, silenzioso… ma se qualcosa si può fare, lui lo fa.»

Ali annuisce prima ancora che finisca.

«Conosco bene quel posto. Ci passo spesso e conosco Jonas. È uno che non parla ma agisce. Se Carlo ha detto di andare da lui, allora si può fare.»

Lo guardo, serio. «Voglio partire subito. Appena possibile.»

Ali non ci pensa due volte. «Allora vengo con te. Ma prendiamo il mio Xcub. Non ti lascio andare da solo e non puoi volare in sicurezza con il Cessna.»

Mi volto verso Veronika. Lei mi fissa, immobile.

Meriem, intuendo i nostri pensieri, ci dice con un mezzo sorriso:

«Tranquillo… loro resteranno con me. Faremo una vera serata tra donne.»

Il sole, fuori, sta già calando. Ma dentro… il fuoco non si è mai spento.

Ci sono momenti in cui non puoi aspettare il domani. Perché è adesso che si decide tutto.

in viaggio verso casa (foto Dall-E)

Preparativi

Il sole inizia la sua discesa quando rientriamo alla casa di Ali. Non perdiamo tempo: ognuno sa cosa fare. Io recupero il mio zaino e qualcosa da bere, mentre Ali apre le porte dell’hangar con un gesto lento, quasi cerimoniale. Lì dentro, sotto una luce calda e bassa, l’XCub sembra una creatura pronta a scattare.

Mi avvicino con rispetto. Non è il nostro Cessna e si vede subito. Questo è più alto da terra, con ruote anteriori molto grandi pronte a mordere la polvere. La fusoliera snella, le ali allungate come braccia tese al vento.

«È come passare da una station wagon… a un fuoristrada nervoso» mormoro tra me.

Ali sorride. «E vola come una gazzella se la sai trattare.»

Controlliamo insieme i flap, l’elica Hartzell, i livelli. Poi lui sale sulla pedana laterale e apre il portellone. L’interno è spartano ma moderno: pannelli digitali, sedili leggeri, tutto pensato per il bush flying. Mi passa le cuffie e mi fa segno di salire nel posto del pilota.

«Tocca a te. Io solo co-pilota oggi.»

Annuisco. Non mi tiro indietro. Non più e poi sarà divertente.

Nel frattempo, alle nostre spalle, le voci delle donne si intrecciano come fili di seta. Veronika e Skippy sono in veranda con Meriem, che si è avvicinata a lei con passo leggero.

«Stasera serata speciale» le dice con un sorriso. «Solo donne. Henné, musica, racconti. Una mia amica viene… ne ha sempre voglia.»

Veronika la guarda sorpresa. «Henné?»

«Sì. È un rito antico. Decoriamo le mani e i piedi. Parliamo. Cantiamo. Niente uomini, solo noi.»

Skippy emette un verso di approvazione, ha già deciso che le va benissimo.

Veronika annuisce, quasi emozionata. «Mi sembra perfetto. Dopo tutto questo… ci vuole proprio una serata tra donne.»

Meriem le stringe le dita tra le sue. «E ti farà bene. Il disegno non è solo decoro. È protezione.»

Ali mi fa cenno: è ora.

Saliamo a bordo. Il portellone si chiude con un clic metallico.

Il mondo fuori si fa silenzioso.

Dentro, il motore ci attende.

Fuori… la notte arriverà con nuove storie da scrivere.

Ci sono partenze che somigliano a un ritorno. Basta il rumore del motore… e tutto ricomincia.

casa di Ali e Meriem (foto Dall-E)

16 + diario di volo Kairouan

Risveglio nella medina

Il richiamo del muezzin ci sveglia prima ancora che il sole si affacci sui tetti. Una voce lontana, lenta, trascinata dal vento, si diffonde tra le mura della medina e rimbalza nei vicoli come un’eco senza tempo.

È la nostra prima alba in Tunisia. Eppure lo sento: dovremo abituarci… e non la dimenticheremo.

Dopo il canto, arrivano i suoni della vita: le prime voci basse, i passi leggeri sul selciato, il cigolio dei carretti, il tintinnio dei cucchiaini contro il vetro sottile dei bicchieri. Un ritmo nuovo, familiare e sconosciuto insieme.

Veronika si gira nel letto, si stira con lentezza. Skippy la imita con uno vistoso sbadiglio. Lei mi guarda, si avvicina e mi sfiora la guancia con un bacio. «Buongiorno.»

Apro un occhio appena. Poi lo richiudo. Negli ultimi giorni ho dormito poco e male. Il mio corpo lo sa e loro, ormai, lo sanno meglio di me.

Non insistono.

La porta si chiude piano qualche minuto dopo, lasciando entrare un filo di luce.

Mi addormento di nuovo. Profondamente.

Quando mi risveglio non ho idea di quanto tempo sia passato… ma i profumi… quelli sì che parlano chiaro.

Veronika e Skippy sono rientrate in punta di piedi ma si portano addosso l’odore della strada: spezie calde, pane appena sfornato, gelsomino… e soprattutto, caffè.

«Ti ho portato un caffè» dice Veronika, porgendomi un bicchiere di vetro spesso, senza manico. «Non è espresso… ma si difende.»

È scuro, lungo, profumatissimo.
Il caffè tunisino è diverso dal nostro: più simile a quello turco, viene servito nei makhraj, piccoli bicchieri cilindrici, spesso aromatizzato con cardamomo o acqua di fiori d’arancio.
Questo è allungato, dolce al punto giusto ma con quel fondo denso che lo tiene ancorato alla tradizione.
Una specie di caffè americano… in abiti arabi.

La guardo. Le prendo la mano e le do un bacio leggero sul dorso.
«Ti adoro» sussurro.

Poi mi siedo sul letto, appoggiando la schiena al muro e prendo il telefono dal comodino.
Lo sblocco e, a bassa voce, dico: «Ah… Carlo ha risposto.»

Veronika si volta verso di me, sorpresa.
Si siede ai piedi del letto, in silenzio.

Bevo un altro sorso di caffè. Devo ancora abituarmi a questo sapore denso, speziato, ma in fondo mi piace.
Poi le riassumo:
«Dice che in quella zona, non proprio a Kairouan ma nemmeno troppo lontano, vive un suo ex collega dell’associazione. Si chiama Ali. È anche lui un pilota in pensione e ha una piccola pista sterrata accanto a casa, da cui decolla con il suo XCub

Veronika ascolta senza interrompermi.
«Carlo mi assicura che possiamo atterrare lì con il Cessna, la pista è un pò corta ma non dovremmo avere problemi. Ali è abituato a ospitare amici che arrivano in volo e nessuno farà domande. Lo sta già avvisando del nostro arrivo. Mi ha mandato le coordinate e qualche dettaglio utile.»

Lei sorride.
«Perfetto. Vuol dire che si va?»

Annuisco ma dentro una parte di me continua a cercare un motivo per farle cambiare idea.
Non lo trovo.

Fuori la medina si è ormai svegliata del tutto. Il vocio sale come un’onda leggera, portando con sé il primo sole del giorno.

Ci sono risvegli che sanno già di scelta. Anche quando una parte di te cerca ancora una via per tirarsi indietro.

Muezzin (foto Dall-E)

Briciole e leggende

Ho da poco finito il caffè quando sento il mio stomaco brontolare. Forte.
Abbasso lo sguardo e, solo in quel momento, noto le briciole sulla faccia di Skippy, stesa sul letto accanto a me, intenta a giocherellare con una piccola mano di Fatima in metallo che chissà dove ha preso.
Le briciole sono ovunque tra il naso e le guance, come se avesse infilato la testa in un sacchetto di pane.

«Ma avete fatto colazione?» chiedo, indicando il vuoto che ho davanti. «Niente da mangiare per me?»

Veronika scoppia a ridere.
«In realtà lo avevo preso… ma Skippy ha pensato che fosse per lei. Ha lasciato solo il caffè, giusto per cortesia.»

«Maledetta mangiona!» borbotto.
Allungo le braccia, la afferro e la tiro verso di me. Lei si divincola fingendo una fuga ma è già troppo tardi: le faccio il solletico sotto la pancia, come si fa con i bambini.
Skippy ride e si dimena con le zampette in aria.

«Dai, è la scusa perfetta per farti alzare e muoverci» dice Veronika, alzandosi con energia.
«Ti vesti?»

Annuisco riluttante, infilando la maglietta mentre lei, appoggiata al davanzale, sfoglia la guida.
«Sai che il nome “Tunisi” potrebbe derivare dal verbo berbero ens, che vuol dire “addormentarsi”? Ironico, vero? Visto che non hai dormito quasi per niente.»

«Molto spiritosa.»

«Oppure da Tynes, una dea fenicia. Qui tutto ha radici profonde. Anche Cartagine era la capitale di un vero e proprio impero. Hanno combattuto Roma per secoli.»

«E hanno perso.»

«Sì. Ma prima l’hanno fatta tremare.»

Prendo lo zaino, controllo che ci sia tutto e, con un cenno, le faccio strada.

Uscendo dalla porta veniamo subito inghiottiti dai vicoli della medina. Luce obliqua, odori pungenti, voci che si rincorrono tra le pietre antiche. Tunisi ci accoglie come una città che non ha mai davvero dormito.

Ogni risveglio è una scelta: restare dove sei o iniziare, passo dopo passo, a farti strada nel mondo.

Skippy prima del solletico (foto Dall-E)

Decollo da Tunisi

In attesa dell’autorizzazione della torre, con le cuffie già in testa e le dita leggere sulla cloche, sento ancora in bocca il sapore della colazione fatta poco prima di arrivare in aeroporto.
Un paio di makroud presi al volo tra i vicoli della medina: morbidi, profumati di datteri e miele, con quel retrogusto di semola che sa di casa anche se è lontanissima dalla mia.

La voce della torre arriva mentre sto ancora pensando alla differenza tra il caffè lungo e rotondo che bevo ogni mattina e quello tunisino, denso, speziato, che lascia una scia persistente sul palato.
Più un rituale che una bevanda.

«SWA172 pronto al decollo.»
Entriamo in pista e do subito manetta.

Il Cessna risponde con un ruggito sommesso e in pochi secondi lasciamo la pista dietro di noi.
Tunisi si stende sotto di noi, ampia, bianca, brulicante. I tetti piatti, le cupole, i cortili nascosti.
Scivoliamo verso nord-est in direzione della costa, quando improvvise folate di vento forte mi colgono di sorpresa facendomi pensare che potrebbe essere un volo più movimentato del solito.

«Eccole» dice Veronika, indicando le rovine all’orizzonte.
Cartagine. Fondata dai Fenici nel IX secolo avanti Cristo. È una delle città più leggendarie del Mediterraneo.»

Poi apre la guida sulle ginocchia.
«Sai cosa colpiva di più i Romani? Le terrazze affacciate sul mare. Le chiamavano “le ville delle lacrime”. Perché quando Cartagine fu distrutta, molti dei suoi conquistatori… ci tornarono come turisti.»

«Piuttosto morbosi, come turisti.»

«Be’, qui è nata anche Didone. La regina che, secondo Virgilio, si è innamorata di Enea… e poi si è uccisa per lui.»

«Romanticismo antico.»

«O propaganda latina. I Fenici erano commercianti geniali. Hanno lasciato tracce ovunque: in Spagna, in Sardegna, a Malta… e soprattutto qui.»

La guardo.
«Ti piace questa parte del viaggio, vero?»

«Moltissimo. È come sorvolare una pagina di storia… che non ci hanno mai fatto leggere davvero.»

Le rovine si fanno sempre più nitide sotto di noi.
Le colonne, il promontorio, il mare che riflette il sole come uno specchio antico.

Volare sopra le rovine di Cartagine è come sfogliare una pagina strappata di storia, che ancora oggi chiede di essere riletta.

Ricostruzione di Cartagine (foto Dall-E)

Verso Sousse

«Cartagine è stata rasa al suolo dai Romani, che poi l’hanno ricostruita. Per secoli è rimasta una delle città più importanti dell’Africa romana. Quando passavano di qui le navi, la vedevano brillare sul promontorio… come un faro silenzioso» continua Veronika, mentre io completo la virata verso sud lungo la costa.

Alla nostra sinistra il Mediterraneo luccica. A destra, il paesaggio si apre su strade sottili, palmeti, campi brulli. La Tunisia moderna scorre a tratti: capannoni industriali, piccole città dai tetti piatti, villaggi che sembrano appoggiati sulla sabbia. Una linea sottile tra antico e presente.

«E Tunisi oggi…» riprende lei «è un mix strano. C’è la parte europea con i boulevard, le caffetterie, le vetrine… e poi la medina. Dove si entra e si esce come da un altro tempo. In un solo pomeriggio puoi attraversare tre secoli diversi.»

Annuisco ma non rispondo. Proprio mentre raggiungiamo il litorale del Golfo di Hammamet, una nuova raffica improvvisa ci investe di lato. Il Cessna si sbilancia bruscamente e per un attimo perdo l’assetto. Stringo i comandi, correggo, respiro. Torniamo stabili. Faccio una leggera virata e mi accorgo che il vento ora ci spinge alle spalle. Un alleato inatteso.

«A cosa stai pensando?» chiede Veronika, poggiando la guida sulle ginocchia.

«A quell’uomo… quel custode. A quello che ci aspetta.»

Lei non risponde subito. Skippy sbuca con la testa tra i sedili, incuriosita, come se avesse capito che non stiamo parlando di monumenti.

«Il figlio di Adnen ha detto che è anziano. Che non parla con nessuno da anni. Che si è isolato per scelta… o forse perché gliel’hanno chiesto.»

«È stato un custode dell’Ordine, no?» chiede lei piano.

«Sì. E speriamo che sia ancora tra quelli che vogliono far emergere la verità.»

Veronika mi osserva. «Tu che pensi?»

«Penso che siamo finiti in mezzo a qualcosa che va ben oltre la curiosità storica.»

Sorvoliamo la medina di Sousse: le mura squadrate, la casba, i minareti bassi, il mercato coperto. Il mare lambisce la città, come se volesse trascinarla via e, invece, lei resta lì ancorata al tempo.

Veronika sfoglia un paio di pagine della guida. «Lo sai che Sousse ha una delle medine meglio conservate del Maghreb? È più piccola di quella di Tunisi ma incredibilmente compatta. Qui dentro hanno girato anche delle scene di Indiana Jones. E poi c’è il ribat… un’antica fortezza-monastero dove vivevano i guerrieri religiosi. Dormivano sulle terrazze per avvistare le navi nemiche.»

«Ma quindi» chiedo, stranito «medina non vuol dire solo una cosa di Tunisi?»

Lei sorride. «No. Medina vuol dire “città vecchia”. Ogni città araba ne ha una. È il cuore. Il labirinto. Il luogo che resiste.»

Guardo giù. Sousse si allontana. La costa continua. E qualcosa, dentro di me, stringe appena.

Non tutte le città antiche sono fatte di rovine: alcune respirano ancora, anche sotto il peso del tempo e dei segreti.

Sousse con la sua medina e il porto visti dal Cessna (foto Dall-E)

El Djem e il respiro sospeso

Continuo verso sud, rientrando leggermente nell’entroterra. Veronika mi guarda e poi indica un punto sulla guida. «Ma non dovevamo andare a Kairouan? Secondo questa mappa dovrebbe essere più a ovest.»

«Sì» le rispondo, accennando un sorriso «ma prima vorrei sorvolare l’anfiteatro romano più famoso del Nord Africa. È una deviazione, ok… ma fidati, ne vale la pena.»

«Lo stai facendo per Skippy, vero?» sorride lei.

«Anche per lei. Ma soprattutto per me. Ti sto assecondando in questa tua ricerca ed è giusto. Ma nonostante tutto, io voglio ancora scoprire il mondo dall’alto. Questa avventura non mi cambierà fino a quel punto.»

Skippy batte le zampette contro la plancia in segno di approvazione.

Qualche minuto dopo, la distesa urbana di El Djem appare all’orizzonte. Un groviglio di strade, case, tetti piatti… e proprio al centro, come un gigante intrappolato tra le epoche, l’anfiteatro romano.

«Eccolo» sussurra Veronika. «È l’anfiteatro di El Djem. Terzo per grandezza nel mondo romano, dopo il Colosseo e quello di Capua. Ma il meglio conservato di tutti. Trentacinquemila spettatori, nel cuore della città.»

«È surreale. Sembra il Colosseo… ma circondato da una periferia africana.»

«E pensa che ancora oggi lo usano per concerti. A volte di musica classica, altre per i festival locali. La pietra restituisce il suono in modo perfetto.»

Giriamo in cerchio sopra questa magnifica creazione dell’uomo. Le arcate si rincorrono, uniformi. I livelli sono quasi intatti. Dal cielo sembra un monumento dimenticato in mezzo alla vita quotidiana.

Skippy resta immobile, incantata. Poi si volta verso di me e fa un suono basso, prolungato, come a dire “questo sì che vale il viaggio”.

Sorrido. Ne valeva davvero la pena.

Riprendiamo la rotta verso Kairouan, lasciandoci alle spalle l’anfiteatro. Quando ormai stiamo risalendo verso nord-ovest, succede.

Un rumore netto mi gela. Un colpo secco sotto ai piedi. Un singhiozzo metallico. Il motore comincia a tossire. Il Cessna vibra. La potenza scende di colpo. Un allarme si accende per un secondo, poi scompare.

«Cos’è stato?» Veronika è già tesa. Skippy ha gli occhi spalancati.

«Pressione carburante… momentaneamente in calo» dico tra i denti, mentre controllo in rapida sequenza tutti gli strumenti. «Nessuna perdita. Nessuna temperatura fuori norma.»

Agisco come mi hanno insegnato, effettuando tutte le procedure di emergenza e alla fine il motore ruggisce, tossisce ancora… e finalmente si riprende.

Per qualche secondo restiamo sospesi in una bolla. Il silenzio nelle cuffie pesa più del suono.

Poi, lentamente, tutto torna alla normalità. Il rombo si stabilizza. L’altimetro è stabile. La pressione regolare.

«Tutto ok?» chiede Veronika, cercando i miei occhi.

«Sì… credo di sì. Forse un residuo nel carburatore. O una bolla d’aria. Niente di grave.»

Ma non ci credo nemmeno io.

Ora che torniamo verso nord-ovest, il vento ci viene incontro. Ma il Cessna, fedele e ostinato, avanza con determinazione.

Un singhiozzo nel motore, un battito sospeso nel petto ma il volo continua. Testardo, come noi.

l’anfiteatro di El Djem (fotot Dall-E)

Avvicinamento a Kairouan

Il cielo è limpido. Il motore sembra stabile ma io non riesco a rilassarmi. Controllo gli strumenti ogni trenta secondi. Vibrazioni, giri motore, pressione dell’olio. Tutto sembra in regola… ma non mi fido.

Skippy, con la testa tra i sedili, osserva gli indicatori con la mia stessa attenzione. Veronika sfoglia la guida, ma lo fa con quel gesto rigido che tradisce la tensione. Tiene il segnalibro troppo stretto.

Alla nostra destra, una vasta superficie biancastra si estende fino all’orizzonte. «Quella è la Sebkha Sidi El Hani» dice, cercando di rompere il silenzio fitto che avvolge la cabina. «Un lago salato. In estate si asciuga quasi del tutto ma, d’inverno, può trasformarsi in un pantano. In passato lo consideravano un luogo magico. O maledetto.»

Non rispondo. Guardo fuori ma senza vederlo davvero. Poi noto qualcosa.

Il livello del carburante ha iniziato a scendere più velocemente del previsto. Un valore che non dovrebbe essere così. Spengo l’allarme sul Garmin con un tocco secco e resto in ascolto. Il motore gira regolare ma se la discesa continua così… potremmo restare a secco prima di vedere la pista. Manca poco. Ma quel “poco” ora pesa.

Sotto di noi compare Kairouan o Qayrawān, come la chiamano qui. Una città di tetti piatti, minareti squadrati, strade dritte che si incrociano come trame in un tessuto.

«È la quarta città santa dell’Islam» riprende Veronika. «La Grande Moschea è una delle più antiche del mondo musulmano. Un tempo qui passavano carovane, pellegrini e studiosi. Oggi sembra più quieta… ma il cuore spirituale pulsa ancora.»

Vorrei ascoltarla ma la mia attenzione è altrove. Una vibrazione secca, sotto i piedi, mi riporta al presente.

«Spero di trovare velocemente quella pista» mormoro, stringendo la cloche con più forza del necessario. «E spero anche che Ali abbia attrezzi, qualcosa per controllare il Cessna come si deve. Prima di ripartire voglio essere sicuro.»

Veronika si gira verso di me. «Se, come dice Carlo, ha un aereo anche lui… vedrai che ha tutto quello che ci servirà.»

Non riesco a scrollarmi di dosso questa sensazione. Lì sotto ci aspetta qualcuno. E qui sopra… qualcosa potrebbe ancora rompersi.

Lì sotto ci aspetta qualcuno. E qui sopra… qualcosa potrebbe ancora rompersi.

la grande moschea di Qayrawān (fotoDall-E)

Atterraggio brusco

Siamo sopra la zona indicata da Carlo. Ho inserito nel Garmin le coordinate che mi ha inviato ma da quassù tutto sembra identico: lingue di terra, campi chiari, tratti sterrati, piccole costruzioni isolate.

Giro in tondo, cercando un riferimento preciso. Qualcosa che dica: qui è sicuro. Ma non posso sbagliare. Non posso atterrare nel campo sbagliato o, peggio, nella proprietà di qualcuno che non ci aspetta.

La mano mi trema leggermente sulla cloche. Veronika prova a dire qualcosa, forse per calmarmi ma la zittisco con tono troppo brusco. «Scusa» aggiungo subito dopo, abbassando lo sguardo per un istante. Lei annuisce. Capisce. Non è il momento per le parole.

Skippy, silenziosa, si allaccia le cinture e fissa il parabrezza, lo sguardo teso e vigile come il mio.

Poi, finalmente, lo vedo. Una sagoma familiare: le ali larghe, l’assetto alto da bush flying. Uno XCub, parcheggiato sul bordo di una striscia chiara di terra battuta.

«Eccolo.» Punto il muso in direzione della pista e verifico il vento. Soffiando da nord-est. Mi allineo per l’atterraggio controvento, come previsto.

Il terreno è più sconnesso di quanto immaginassi. L’atterraggio è pieno di sobbalzi secchi e ravvicinati. Anche la pista è più corta del previsto e, per un istante, ho la sensazione che potremmo arrivare lunghi.

Tiro indietro la manetta, freno con decisione. Il Cessna ruggisce, vibra, si siede sulle ruote.

Ci fermiamo. Un sospiro. Un battito lento. Solo ora il mio cuore riprende un ritmo normale. Solo ora noto due figure che si avvicinano dalla casa poco distante: un uomo con passo deciso e una donna dai capelli raccolti sotto un foulard chiaro.

Ali e, probabilmente, sua moglie stanno venendo verso di noi. E non sembrano affatto sorpresi.

In certi momenti, l’unico suono che conta è il battito che torna lento nel petto.

15 – Diario di Viaggio Tunisi

Tunisi

Usciti dall’aeroporto, Tunisi ci viene incontro come un’onda calda di suoni, polvere e contrasti. Dall’alto sembrava una distesa bianca e compatta, adesso invece ci avvolge in un disordine perfetto, fatto di clacson, venditori ambulanti, insegne consumate dal sole e vecchie Peugeot 205 che si incastrano nei vicoli come in un gigantesco puzzle che solo chi ci vive sa risolvere. L’aria ha l’odore del motore esausto, del pane cotto al bordo della strada e di qualcosa che non sappiamo riconoscere.

Il nostro tassista si chiama Nizar. Ha una barba curata, un braccialetto d’ambra al polso e un sorriso disarmante, di quelli che ti fanno pensare che puoi fidarti, anche se non sai bene perché. Conduce il taxi come se fosse un’estensione del suo corpo, evitando buche e carretti con la precisione di un ballerino. Parla un italiano strano ma pieno di vita, imparato in anni di contatti con i turisti. Ci ascolta, ci scruta dallo specchietto, risponde ad alcune nostre domande, poi scuote la testa e sorride.

«La medina non si spiega, si vive. È vecchia quanto il tempo… e a volte ti confonde apposta, per vedere chi sei.»

Sorride ancora, dalla radio una melodia malinconica, ci guarda un attimo e poi indica con la mano le strade attorno a noi.

«Qui tutto parla. Ma non con la bocca. Con gli odori, i colori… e le ombre.»

La città si infittisce. L’asfalto si sbriciola. Un venditore di fichi d’India urla in dialetto. Due ragazzini si rincorrono tra le file di bancarelle. Poi all’improvviso tutto rallenta. Il taxi si ferma davanti a una grande porta in pietra, con un arco a ferro di cavallo e due torrette smussate dal tempo.

«Bab el Bhar» dice Nizar, accennando un inchino con la testa. «La porta del mare. Da qui… si entra in un altro mondo.»

Scendiamo e lo ringraziamo per tutte le preziose informazioni che ci ha fornito. Il caldo sa di spezie, gas di scarico e pietra arroventata. Davanti a noi la medina si apre come un labirinto vivo.

La medina ci ha inghiottiti in un caos che sa di storia, odori e passi dimenticati

il nostro tassista tunisino (foto Dall-E)

Il respiro della medina

Superata Bab el Bhar la medina ci inghiotte come un respiro profondo. Le strade si stringono, i rumori si moltiplicano, l’aria cambia odore ogni due passi. Incenso, menta, cuoio, fritto. L’asfalto lascia il posto alle pietre lisce e irregolari, levigate da secoli di passi e storie. Camminiamo con Skippy stretta tra noi due per paura di perderla di vista, mentre cerchiamo di seguire il percorso tracciato sulla mappa, che dopo pochi minuti inizia già a sembrare inutile. Anche Google Maps, qui dentro, sembra essersi arreso.

Veronika guarda a sinistra, io a destra, entrambi alla ricerca dell’insegna che ci ha descritto Nizar: un’insegna scolorita, con lettere arabe e francesi, sopra una porta di legno azzurro. Ma ogni bottega qui ha un suo colore, una sua voce, una sua confusione. Lungo le pareti si rincorrono tappeti stesi, stoffe appese come bandiere e lanterne dai vetri colorati che riflettono frammenti di sole sulle pietre.

Un ragazzo passa correndo con un vassoio di tè alla menta in equilibrio su tre dita. Una donna anziana ci sorpassa con passo deciso, avvolta in un velo candido e con una busta piena di pane ancora caldo. Più avanti un artigiano batte il metallo con un ritmo ipnotico, mentre poco più in là un vecchio gira uno spiedo lentissimo con delle polpette fumanti. La medina vive, pulsa, respira. E noi ci lasciamo trascinare.

All’improvviso, un profumo irresistibile ci costringe a rallentare. Poco più avanti, sotto un tendone rattoppato, un uomo infarina velocemente delle ciambelle rotonde e le tuffa in un grande padellone sfrigolante. L’olio danza. Le ciambelle, dorate e gonfie, vengono scolate con maestria e ricoperte da una spolverata di zucchero e un tocco di miele. L’odore mi rapisce.

«Che dite, merenda?» chiedo guardando Veronika. Lei sorride. Skippy annuisce con foga, allungando il naso verso l’odore dolce e croccante. «Trois s’il vous plaît» dico al venditore con il mio pessimo francese, indicando con un cenno le ciambelle fumanti. Lui ci sorride sotto i baffi e ci passa un piattino di metallo con le tre ciambelle appena fatte.

«Bambalouni» dice intuendo che siamo italiani. «Tipico qui. Farina, acqua, sugar… Buono. Molto buono dolce Tunisia!» La lingua si arrampica tra le parole ma l’orgoglio è chiarissimo.

Ci scambiamo uno sguardo. Il primo morso è un’esplosione: croccante fuori, morbido e profumato dentro. Miele, zucchero, forse un accenno di limone. Camminiamo lentamente, assaporando ogni boccone, mentre le voci della medina ci guidano sempre più a fondo.

A volte, un morso dolce è l’unico modo per non perdersi

bancarella dei Bambalouni (foto Dall-E)

La bottega

La medina ci mette alla prova. Tra nomi di strade che cambiano ogni trenta metri, indicazioni confuse e vicoli che sembrano girare in tondo, passiamo più di un’ora e mezzo a cercare quell’insegna azzurra, descritta con tanta convinzione da Nizar. Chiediamo a due venditori, poi a un ragazzo che trasporta una cesta piena di datteri, ma nessuno sembra sapere di cosa stiamo parlando. O non ci capiscono. O non vogliono capire.

Quando stiamo per rinunciare è Veronika a notarlo. Un’insegna consumata dal sole, scritta in arabo e in francese, sopra una porta di legno semiaperta. Accanto, una teiera appesa e una pila di vecchi tappeti arrotolati.

Entriamo. L’interno è buio e polveroso ma accogliente in un modo difficile da spiegare. Ci sono vecchie lampade, piatti in ceramica, cornici antiche, specchi opachi, libri dalle copertine scolorite e un bastone da passeggio con l’impugnatura in avorio. Una donna anziana è seduta dietro un bancone di legno basso, forse una vecchia cassa. Sta sgranando dei semi e canticchia una melodia sottovoce. L’odore è forte, tostato, qualcosa tra il cumino e il coriandolo bruciato.

Ci guardiamo intorno, poi mi avvicino. «Salam aleikum… stiamo cercando…» esito un attimo «…Adnen. Sa dove possiamo trovarlo?» Lei solleva lo sguardo, un po’ confusa e non risponde. Si porta una mano all’orecchio, come a dire che non sente bene. Ripeto il nome, aggiungendo qualche dettaglio. Veronika prova con qualche parola in francese. Skippy si arrampica sul bordo del bancone e la osserva con occhi curiosi.

Alla fine la donna annuisce lentamente. Fa un gesto con la mano come a dire che è passato del tempo. Poi, con un misto di parole e gesti, ci fa capire che l’uomo è morto. Non ne siamo molto sorpresi, era quello che immaginavamo. «Allah yrahmou,» mormora, portandosi la mano al petto.

Ma è in quel momento, mentre il nome “Adnen” sembra fluttuare ancora nell’aria della bottega, che una figura si muove oltre le tende. Dai tappeti appesi emerge un uomo. Forse poco più giovane di me. Camicia sbottonata sul collo, sguardo stanco, capelli neri e corti. Ci osserva in silenzio.

Ma non con sospetto. Con qualcosa di più tagliente. Come se stesse valutando se siamo un pericolo… o solo una perdita di tempo.

A volte bisogna perdersi davvero per trovare ciò che non sapevi di cercare

il negozio che stavamo cercando (foto Dall-E)

Incontro

Ci avviciniamo con calma. «Lei conosce Adnen?» chiede Veronika. L’uomo rimane immobile, le braccia lungo i fianchi, lo sguardo sempre fisso su di noi, come se cercasse il motivo per cui dovremmo andarcene.

«Ci manda il professor Lissia, dalla Sardegna» dico, tenendo la voce bassa ma ferma. «Pensavamo di trovare Adnen. Siamo… siamo spiacenti per la sua scomparsa.»

Lui non reagisce. Né un cenno, né un grazie. Come se quelle parole si fossero fermate a mezz’aria, troppo leggere per smuoverlo. A quel punto Veronika prende il filo del discorso e prova a spiegare meglio. Parla in francese, con calma, cercando di mostrarsi gentile ma anche determinata. Lui abbassa lo sguardo un attimo, poi torna a fissarla.

Ci dice qualcosa in arabo, in un tono che è più secco che neutro. E poi aggiunge una frase che suona come un “andate via”.

Veronika insiste. Gli mostra un taccuino con alcuni appunti scritti a mano, le parole “Ordine”, “memoria”, “simbolo”. Niente. Lo sguardo del ragazzo si fa più duro.

Ripete quella frase in arabo, ancora e ancora, facendo un gesto chiaro con la mano verso l’uscita. Nessuna esitazione.

Veronika prova ancora. «Ti prego, è importante. Non siamo qui per fare danni, vogliamo solo capire…»

Ma non riesce nemmeno a finire la frase. Il ragazzo alza una mano, deciso. Un altro gesto. Più brusco. Non vuole ascoltare.

È in quel momento che Skippy si muove. Si slaccia lo zaino con un gesto sicuro e, senza dire nulla, ne tira fuori l’anello. Quello del professor Lissia. Lo tiene alto, dritto davanti a lui, come un piccolo trofeo silenzioso.

Il ragazzo si blocca. Abbassa lentamente lo sguardo verso la zampa tesa di Skippy. Fa un passo avanti. Poi un altro. Si china leggermente, socchiude gli occhi. Riconosce l’anello. Lo guarda come si guarda un oggetto che non ci si aspettava più di rivedere. Si osserva la mano dove porta un anello identico.

Si raddrizza e, per la prima volta da quando è uscito dai tappeti, il suo sguardo cambia. Non è più freddo. È teso. Allarmato. Ma non ostile.

Porta un dito alle labbra, come a chiederci silenzio. Poi si gira e scosta i tappeti appesi. Ci fa cenno di entrare nel retrobottega.

Senza dire una parola, lo seguiamo.

A volte non servono parole. Basta un gesto giusto nel momento giusto per aprire una porta chiusa

l’anziana signora (foto Dall-E)

Il peso delle storie

Il retrobottega è piccolo e in penombra ma ordinato. Un tappeto steso a terra, scaffali colmi di oggetti avvolti nella stoffa, una teiera in metallo brunito poggiata su un fornellino a gas. Il ragazzo chiude il passaggio dietro di noi, controlla che nessuno ci abbia seguiti, poi si volta.

«Scusate… per prima» dice, con un italiano fluido che non ci aspettavamo. «Non mi aspettavo che qualcuno si presentasse… così. Con quell’anello.»

Ci guarda entrambi. Poi si rivolge a Skippy, accennando un mezzo sorriso. «Il professor Lissia… era un uomo generoso. L’ho conosciuto grazie a mio padre. Collaboravano. Condividevano storie. O meglio… pezzi di storie che nessuno aveva mai osato mettere insieme.»

Si muove verso la teiera, accende il fuoco, aggiunge foglie di menta fresche e zucchero con gesti rapidi e precisi. Il profumo del tè alla menta riempie lentamente la stanza. Ce lo porge in piccoli bicchieri decorati. Accettiamo senza dire nulla.

«Allora…» sospira, sedendosi su uno sgabello di legno. «Cosa volete sapere esattamente?»

Gli spieghiamo tutto. La Sardegna. I simboli. Il frammento. Le parole incise. Lui ascolta, teso, senza interrompere. Quando finiamo, resta un attimo in silenzio. Poi si irrigidisce. Le dita tamburellano sul vetro del bicchiere.

«Non dovreste essere qui» dice alla fine, con lo sguardo basso. «Ci sono persone che non vogliono che queste storie vengano a galla.»

Sembra sul punto di chiudersi di nuovo. Poi butta fuori l’aria come se stesse scrollandosi di dosso qualcosa di pesante. Si passa una mano sulla nuca e parla.

«Mio padre era ossessionato da questa storia. Parlava spesso di un gruppo… di uomini arrivati dalla Sardegna molto tempo fa. Diceva che custodivano un segreto, qualcosa di troppo importante per essere raccontato a chiunque. Ma qualcosa è andato storto.»

Beve un sorso di tè. Poi continua.

«All’inizio erano voci. Poi iniziarono le pressioni. Visite. Persone che venivano a cercarlo senza presentarsi. Poi sparizioni. Libri scomparsi dalla biblioteca. Contatti che smettevano di rispondere. I suoi colleghi cominciarono ad avere paura. Anche il professor Lissia fu minacciato. Lui però non si è mai fermato. Ha fatto credere di aver smesso di cercare questa verità ma la notte, a casa, studiava reperti, lettere, testi antichi cercando di capire.»

Ci guarda. Stavolta con occhi diversi. Come se cercasse di capire se siamo pronti a sentire il resto.

A volte i segreti più antichi sopravvivono solo grazie a chi ha il coraggio di continuare a cercarli

il retrobottega (foto Dall-E)

Il Cerchio

«Mio padre… non parlava mai a voce alta dell’Ordine. Lo chiamava il cerchio. Diceva che non era fatto di simboli o gerarchie. Era fatto di silenzi. Di legami invisibili. Di doveri tramandati da generazioni senza bisogno di firme.»

Si alza, prende da uno scaffale una scatola di metallo, la posa sul tappeto tra noi. Ma non la apre.

«Aveva capito che questo Ordine non era nato qui ma era venuto dalla Sardegna. Da molto lontano, molto indietro. Gente che si era spinta fino a Cartagine, in fuga da qualcosa, poi ancora più a sud, nascondendo il loro segreto o forse cercando di proteggerlo. Nessuno sa cosa fosse esattamente.»

Abbassa la voce. «Mio padre credeva che avessero portato con loro un sapere antico, capace di mettere in discussione tutto. Religioni. Storia. Origini. Era convinto che la chiave fosse in un codice, forse in una lingua dimenticata. Ma ogni volta che si avvicinava a qualcosa di concreto… qualcosa o qualcuno lo respingeva.»

Fa una pausa. Ci guarda. Poi, con voce più bassa: «Lui e il professor Lissia erano convinti che l’Ordine esiste ancora. Che alcuni di loro si nascondono qui in Tunisia tra gli artigiani, gli anziani, nei villaggi dove la memoria orale passa solo di bocca in bocca. Persone senza nome che si riconoscono con gesti e strani simboli.»

Si alza di nuovo. Questa volta apre lentamente la scatola. Dentro, fogli piegati, un rosario in legno, due fotografie sbiadite e una stoffa ingiallita con un simbolo tracciato a mano.

«L’ultima cosa che mi disse prima di morire fu: “Se qualcuno un giorno verrà con l’anello… portalo da lui.”»

«Chi?» chiede Veronika, inclinando appena la testa.

«Un uomo, un ex falegname ormai molto anziano. Vive lontano, quasi al confine con il nulla ma lui… lui faceva parte dell’Ordine.»

Ci sono segreti che non si scrivono mai ma che si tramandano con uno sguardo, una stoffa, un nome sussurrato nel tempo

la piccola scatola (foto Dall-E)

Il Segno

Il ragazzo richiude lentamente la scatola, come se quel gesto servisse a rimettere ordine anche nei pensieri. Poi prende un foglio di carta ingiallito da una pila accanto a sé, si siede e inizia a scrivere con una calligrafia nervosa ma precisa. Nessuna spiegazione. Solo qualche parola in arabo, un nome e una località.

Quando finisce, soffia leggermente sulla carta e ce la porge senza dire nulla. Sul foglio: un nome proprio e una direzione. Kairouan. Un villaggio poco fuori città, isolato. Nessun indirizzo esatto. Solo un riferimento a una bottega di falegnameria un simbolo strano e la frase: «chiedete di lui».

«Mio padre diceva che era l’ultimo di loro ancora disposto a parlare» sussurra. «Non fatelo per curiosità. Fatelo solo se siete pronti a non tornare più indietro.»

Lo guardiamo in silenzio. Veronika annuisce. Io infilo il foglio nel taccuino e chiudo la cerniera. Skippy lo osserva ancora, come se volesse dire qualcosa, ma stavolta resta ferma, seria. C’è qualcosa in quel ragazzo che non dimenticheremo tanto presto.

Poi, prima di uscire, lui si china di nuovo verso la scatola. Fruga per qualche secondo, finché le dita non trovano ciò che cerca. Quando si rialza, ha in mano un oggetto piccolo e scuro. Lo tiene tra pollice e indice, come si fa con le cose fragili. È una fibula in rame, antica, ossidata. La forma è strana: un cerchio spezzato, con una punta ricurva.

Si piega verso Skippy e le porge la fibula senza dire nulla. Lei la prende con entrambe le zampette, con quella solennità naturale che solo lei sa avere.

«Mio padre diceva che questo simbolo serviva per riconoscersi. Se l’anziano falegname è ancora quello di un tempo… vi accoglierà. Ma non fate mai il nome di mio padre. Neanche per sbaglio. Non voglio altri problemi. Noi non ci siamo mai visti e… mai ci rivedremo.»

Skippy lo fissa per un lungo istante, poi infila la fibula nello zaino e lo richiude con un piccolo clic.

Quando usciamo dal retrobottega, la luce del pomeriggio ci acceca per un attimo. La medina è ancora lì, viva, piena di voci, colori e profumi. Ma ora ci sembra diversa. Come se qualcosa, nel frattempo, fosse cambiato.

Ogni viaggio cambia qualcosa fuori, ma certi incontri cambiano ciò che portiamo dentro

la piccola Fibula (spilla) in rame (foto Dall-E)

Sconosciuto

Camminiamo in silenzio. Abbiamo il foglio. Un nome. Una meta. E uno scopo.

Veronika e Skippy camminano leggere. Per un attimo sembrano entrambe parte di un gioco affascinante, complicato ma comunque un gioco.

Io, invece, sento i primi brividi. Come una corrente fredda che mi passa tra le scapole. Non so spiegare perché ma il mio sesto senso mi richiama all’attenzione.

Le voci attorno a noi si confondono in un rumore continuo, ritmato, quasi ipnotico. Il cuore della medina batte ancora forte. Veronika si ferma davanti a una bancarella di ceramiche dipinte a mano, attratta dai colori brillanti e dalle forme imperfette. Skippy, come ipnotizzata, infila il musetto in un cesto di stoffe ricamate, sfiorandole come se cercasse qualcosa.

Io sono leggermente più indietro, le osservo invidiando la loro spensieratezza. Ci sono molte persone in questi vicoli stretti, turisti, gente del posto, mercanti ed è in quell’istante che sento una mano afferrarmi il braccio.

Non forte. Ma precisa. Come se sapesse esattamente dove mettere le dita per farmi restare immobile.

Mi volto di scatto. Davanti a me c’è un uomo. Tunisino. Età indefinita. Un tagelmust chiaro gli avvolge il volto lasciando scoperti solo gli occhi, due fenditure scure incise dal sole e dal tempo. Indossa una tunica che odora di polvere e strada. Ma è lo sguardo che mi blocca. Non ha fretta. Non ha rabbia. Solo una calma spaventosa. Come se sapesse già tutto.

Si avvicina al mio orecchio. E in un italiano spezzato, lento, quasi sussurrato dice: «È meglio… se lasciate stare.»

Poi mi lascia. Si gira e sparisce nella folla come se non fosse mai esistito. Un passo dopo l’altro. Né veloce né lento. Come il vento che cambia direzione senza motivo.

Resto fermo. Immobile. Il respiro corto. Provo a cercarlo con lo sguardo ma tutto si è già confuso. Stoffe appese, bancarelle, odore di spezie e zucchero bruciato. Niente. Come se la medina lo avesse risucchiato.

Skippy mi guarda, inclinando la testa. Ha capito che è successo qualcosa.

In quel momento Veronika si avvicina con una piccola tazza di ceramica in mano, sorridendo. «Guarda che bella, sembra fatta a ma…» Poi si blocca, notando il mio sguardo.

«Tutto bene?»

Annuisco. «Sì… sì. Tutto a posto.»

Anche se non lo è. E non lo sarà per un bel po’.

Ci sono momenti che passano in silenzio, ma restano addosso come una polvere che non se ne va

l’uomo al mercato (foto Dall-E)

Linea Rossa

Il ristorante di cui ci ha parlato Nizar non ha insegne. Solo un vecchio portone in legno intagliato, con i battenti decorati da borchie nere e un piccolo simbolo inciso a mano, qualcosa che sembra più un segno antico che un nome. Nizar ci aveva detto: “Lì mangerete uno dei couscous più veri di tutta Tunisi”. Ma non ci aspettavamo di trovarlo nascosto in un vicolo così stretto da far passare appena due persone.

Appena entriamo, la luce si abbassa e l’aria cambia. Dentro è fresco, silenzioso, con muri bianchi e archi in pietra che sembrano sorreggere il tempo. Le pareti sono coperte da piastrelle blu e turchesi, i tavoli bassi vestiti di lino grezzo. In un angolo, una donna taglia erbe aromatiche, mentre un ragazzo dispone datteri su un vassoio d’argento con movimenti attenti, quasi rituali.

Ci sediamo vicino a una finestra con grate in ferro battuto. Ordiniamo couscous alle verdure, che ci arriva con una piccola ciotola di harissa. Il cameriere ci guarda un attimo, accenna un sorriso e dice solo: «C’est très fort.»

Il profumo è intenso, pieno, avvolgente. Cumino, coriandolo, verdure stufate e olio caldo. Intingiamo il pane nella salsa rossa, e l’odore pizzica già solo a respirarlo. È tutto buonissimo. Ma io non riesco a stare tranquillo.

«Vero…»

Lei alza lo sguardo. Lo conosce. Sa già che sto per dire qualcosa di pesante.

«Ci stiamo infilando in qualcosa che forse non riusciamo a controllare.»

Appoggia la forchetta. Silenziosa. Presente.

«Il tipo al museo di Cabras… lo sguardo che ci ha lanciato. Non guardava i reperti, guardava noi. E poi, a Cagliari… quando stavamo facendo i check pre-volo, c’era qualcuno dietro la recinzione. Stava fermo. Forse ci fotografava. Non te l’ho detto per non allarmarti ma prima… prima un uomo, al mercato…»

Faccio una pausa. Un respiro più lungo. «…mi ha preso per un braccio. E mi ha detto chiaramente che è meglio se lasciamo perdere.»

Un silenzio spesso si poggia tra noi. Il cucchiaino nel bicchiere vibra appena.

«Comincio a pensare che non siamo più al sicuro. Che qualcuno… ci stia seguendo.»

Veronika prende un sorso d’acqua. Poi parla. La voce calma, ma dentro un’onda.

«E quindi? Vuoi tornare indietro? Chiudere tutto?»

«Non lo so. Voglio solo capire se ha senso rischiare.»

«Per scoprire la verità? Sì, ha senso. Se esiste un Ordine, se questa storia è vera… allora c’è qualcosa che qualcuno non vuole farci sapere. E se ci fermiamo ora, daremo loro ragione.»

«Per scoprire cosa, però? Una verità sepolta da millenni? A che serve, se può metterci in pericolo? E se succede qualcosa a te? A Skippy? Nessuno ci paga per questo. Nessuno ci protegge.»

Skippy smette di masticare. Ci guarda. Prima me. Poi Veronika. Le orecchie piegate, ma lo sguardo acceso. Combattuta. Ma dentro… propende per andare avanti. Come sempre.

Veronika scuote la testa. «Siamo arrivati fin qui. Non per gioco. E lo sai anche tu.»

Sbuffo, infastidito. Poi abbasso lo sguardo sul piatto. Skippy, intanto, sta tirando fuori l’anello di Lissia dallo zainetto. Lo tiene tra le zampe. In silenzio.

Annuisco. Ma dentro… un turbine. Rabbia, paura, tensione. E qualcosa di più sottile. Un confine.

Va bene, penso. Ma alla prima crepa vera… tiro il freno. Lo farò io. E sarà la fine di questa storia.

Veronika intuisce. Non dice nulla. Ma il modo in cui mi prende la mano sotto il tavolo mi dice che ha capito.

Ogni verità nascosta ha un prezzo. La domanda è: siamo disposti a pagarlo?

dentro il ristorante (foto Dall-E)

Oltre la soglia

Usciti dal ristorante, la sera ci accoglie con un cielo color rame e l’aria più fresca che respira tra i vicoli stretti. Camminiamo lenti, senza fretta, in cerca del nostro hotel, lasciandoci guidare dai suoni ovattati e dalle luci calde che filtrano dalle finestre. La medina si svuota piano piano, ma non smette mai davvero di vivere. Alcuni negozi restano aperti, le lanterne accese ondeggiano lievemente al passaggio del vento.

Passiamo davanti a un portale monumentale. È la Moschea Zitouna, la grande moschea attorno alla quale è cresciuta l’intera medina. La sua cupola svetta oltre i tetti bassi, custodita da colonne antiche e silenzi profondi. Veronika si ferma un attimo a guardarla, mentre Skippy, accoccolata tra noi, si gira indietro come per imprimersi ogni dettaglio.

«Qui tutto è costruito attorno a qualcosa di sacro,» mormora lei. «E noi giriamo in cerchio, come se cercassimo un centro che ci sfugge.»

La osservo in silenzio. Ho mille pensieri che mi bloccano le parole. Le prendo la mano. E insieme riprendiamo a camminare.

Troviamo il nostro albergo, proprio come ci ha indicato Nizar, in una piccola piazzetta immersa nel cuore della medina. Una minuscola struttura riadattata, con un cortile interno, tende leggere alle finestre e il profumo persistente del gelsomino nell’aria.

Mentre mi tolgo le scarpe, Veronika si siede sul letto e si gira verso di me.

«Quindi?» dice, senza giri di parole. «Andiamo a incontrare questo anziano falegname o no?»

Mi sembra quasi una prova. Come se stesse testando la mia fede in questa ricerca.

Sbuffo. «Ovviamente. Che domande.» Ma la voce mi esce più secca del previsto.

Lei scuote la testa con un sorriso appena accennato. «Non ti preoccupare. Non succederà niente. E se succede… lo affrontiamo.»

Skippy salta sul letto, si stende accanto a lei, una zampa sul cuscino e gli occhi già mezzi chiusi. Io rimango affacciato alla piccola finestra della stanza, che dà su un vialetto stretto ma ancora animato, anche a quest’ora.

Veronika si addormenta quasi subito. Skippy la segue poco dopo, rannicchiata tra le lenzuola. Il loro respiro è lento. Calmo.

Io invece resto sveglio.

Gli occhi aperti nel buio.

Il pensiero torna a quell’uomo al mercato. A quello dietro la recinzione di Cagliari. A quello sguardo fisso al museo di Cabras.

Mi chiedo se ci stiano solo osservando.
O se ci stiano aspettando.

Scorro la mappa sul tablet, ingrandendo la zona intorno a Kairouan.
Niente. Nessuna pista visibile, nessun aeroporto. Solo sabbia e strade dritte che si perdono nel vuoto.

Sospetto che atterrare lì non sarà semplice.
E forse… nemmeno sicuro.

C’è solo una persona che può aiutarmi.

A volte non è la meta a spaventare, ma le ombre che ci osservano lungo il cammino

pensieri alla finestra (foto Dall-E)