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Tra mercati, segreti e segnali da non ignorare

Diario di Volo

Tunisi
la Medina

A Tunisi, tra la vita della medina e incontri inattesi, emergono indizi e timori. Una nuova meta si rivela, ma il pericolo è più vicino che mai.

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    Medina di Tunisi
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    Medina di Tunisi

    Tunisi

    Usciti dall’aeroporto, Tunisi ci viene incontro come un’onda calda di suoni, polvere e contrasti. Dall’alto sembrava una distesa bianca e compatta, adesso invece ci avvolge in un disordine perfetto, fatto di clacson, venditori ambulanti, insegne consumate dal sole e vecchie Peugeot 205 che si incastrano nei vicoli come in un gigantesco puzzle che solo chi ci vive sa risolvere. L’aria ha l’odore del motore esausto, del pane cotto al bordo della strada e di qualcosa che non sappiamo riconoscere.

    Il nostro tassista si chiama Nizar. Ha una barba curata, un braccialetto d’ambra al polso e un sorriso disarmante, di quelli che ti fanno pensare che puoi fidarti, anche se non sai bene perché. Conduce il taxi come se fosse un’estensione del suo corpo, evitando buche e carretti con la precisione di un ballerino. Parla un italiano strano ma pieno di vita, imparato in anni di contatti con i turisti. Ci ascolta, ci scruta dallo specchietto, risponde ad alcune nostre domande, poi scuote la testa e sorride.

    «La medina non si spiega, si vive. È vecchia quanto il tempo… e a volte ti confonde apposta, per vedere chi sei.»

    Sorride ancora, dalla radio una melodia malinconica, ci guarda un attimo e poi indica con la mano le strade attorno a noi.

    «Qui tutto parla. Ma non con la bocca. Con gli odori, i colori… e le ombre.»

    La città si infittisce. L’asfalto si sbriciola. Un venditore di fichi d’India urla in dialetto. Due ragazzini si rincorrono tra le file di bancarelle. Poi all’improvviso tutto rallenta. Il taxi si ferma davanti a una grande porta in pietra, con un arco a ferro di cavallo e due torrette smussate dal tempo.

    «Bab el Bhar» dice Nizar, accennando un inchino con la testa. «La porta del mare. Da qui… si entra in un altro mondo.»

    Scendiamo e lo ringraziamo per tutte le preziose informazioni che ci ha fornito. Il caldo sa di spezie, gas di scarico e pietra arroventata. Davanti a noi la medina si apre come un labirinto vivo.

    La medina ci ha inghiottiti in un caos che sa di storia, odori e passi dimenticati

    il nostro tassista tunisino (foto Dall-E)

    Il respiro della medina

    Superata Bab el Bhar la medina ci inghiotte come un respiro profondo. Le strade si stringono, i rumori si moltiplicano, l’aria cambia odore ogni due passi. Incenso, menta, cuoio, fritto. L’asfalto lascia il posto alle pietre lisce e irregolari, levigate da secoli di passi e storie. Camminiamo con Skippy stretta tra noi due per paura di perderla di vista, mentre cerchiamo di seguire il percorso tracciato sulla mappa, che dopo pochi minuti inizia già a sembrare inutile. Anche Google Maps, qui dentro, sembra essersi arreso.

    Veronika guarda a sinistra, io a destra, entrambi alla ricerca dell’insegna che ci ha descritto Nizar: un’insegna scolorita, con lettere arabe e francesi, sopra una porta di legno azzurro. Ma ogni bottega qui ha un suo colore, una sua voce, una sua confusione. Lungo le pareti si rincorrono tappeti stesi, stoffe appese come bandiere e lanterne dai vetri colorati che riflettono frammenti di sole sulle pietre.

    Un ragazzo passa correndo con un vassoio di tè alla menta in equilibrio su tre dita. Una donna anziana ci sorpassa con passo deciso, avvolta in un velo candido e con una busta piena di pane ancora caldo. Più avanti un artigiano batte il metallo con un ritmo ipnotico, mentre poco più in là un vecchio gira uno spiedo lentissimo con delle polpette fumanti. La medina vive, pulsa, respira. E noi ci lasciamo trascinare.

    All’improvviso, un profumo irresistibile ci costringe a rallentare. Poco più avanti, sotto un tendone rattoppato, un uomo infarina velocemente delle ciambelle rotonde e le tuffa in un grande padellone sfrigolante. L’olio danza. Le ciambelle, dorate e gonfie, vengono scolate con maestria e ricoperte da una spolverata di zucchero e un tocco di miele. L’odore mi rapisce.

    «Che dite, merenda?» chiedo guardando Veronika. Lei sorride. Skippy annuisce con foga, allungando il naso verso l’odore dolce e croccante. «Trois s’il vous plaît» dico al venditore con il mio pessimo francese, indicando con un cenno le ciambelle fumanti. Lui ci sorride sotto i baffi e ci passa un piattino di metallo con le tre ciambelle appena fatte.

    «Bambalouni» dice intuendo che siamo italiani. «Tipico qui. Farina, acqua, sugar… Buono. Molto buono dolce Tunisia!» La lingua si arrampica tra le parole ma l’orgoglio è chiarissimo.

    Ci scambiamo uno sguardo. Il primo morso è un’esplosione: croccante fuori, morbido e profumato dentro. Miele, zucchero, forse un accenno di limone. Camminiamo lentamente, assaporando ogni boccone, mentre le voci della medina ci guidano sempre più a fondo.

    A volte, un morso dolce è l’unico modo per non perdersi

    bancarella dei Bambalouni (foto Dall-E)

    La bottega

    La medina ci mette alla prova. Tra nomi di strade che cambiano ogni trenta metri, indicazioni confuse e vicoli che sembrano girare in tondo, passiamo più di un’ora e mezzo a cercare quell’insegna azzurra, descritta con tanta convinzione da Nizar. Chiediamo a due venditori, poi a un ragazzo che trasporta una cesta piena di datteri, ma nessuno sembra sapere di cosa stiamo parlando. O non ci capiscono. O non vogliono capire.

    Quando stiamo per rinunciare è Veronika a notarlo. Un’insegna consumata dal sole, scritta in arabo e in francese, sopra una porta di legno semiaperta. Accanto, una teiera appesa e una pila di vecchi tappeti arrotolati.

    Entriamo. L’interno è buio e polveroso ma accogliente in un modo difficile da spiegare. Ci sono vecchie lampade, piatti in ceramica, cornici antiche, specchi opachi, libri dalle copertine scolorite e un bastone da passeggio con l’impugnatura in avorio. Una donna anziana è seduta dietro un bancone di legno basso, forse una vecchia cassa. Sta sgranando dei semi e canticchia una melodia sottovoce. L’odore è forte, tostato, qualcosa tra il cumino e il coriandolo bruciato.

    Ci guardiamo intorno, poi mi avvicino. «Salam aleikum… stiamo cercando…» esito un attimo «…Adnen. Sa dove possiamo trovarlo?» Lei solleva lo sguardo, un po’ confusa e non risponde. Si porta una mano all’orecchio, come a dire che non sente bene. Ripeto il nome, aggiungendo qualche dettaglio. Veronika prova con qualche parola in francese. Skippy si arrampica sul bordo del bancone e la osserva con occhi curiosi.

    Alla fine la donna annuisce lentamente. Fa un gesto con la mano come a dire che è passato del tempo. Poi, con un misto di parole e gesti, ci fa capire che l’uomo è morto. Non ne siamo molto sorpresi, era quello che immaginavamo. «Allah yrahmou,» mormora, portandosi la mano al petto.

    Ma è in quel momento, mentre il nome “Adnen” sembra fluttuare ancora nell’aria della bottega, che una figura si muove oltre le tende. Dai tappeti appesi emerge un uomo. Forse poco più giovane di me. Camicia sbottonata sul collo, sguardo stanco, capelli neri e corti. Ci osserva in silenzio.

    Ma non con sospetto. Con qualcosa di più tagliente. Come se stesse valutando se siamo un pericolo… o solo una perdita di tempo.

    A volte bisogna perdersi davvero per trovare ciò che non sapevi di cercare

    il negozio che stavamo cercando (foto Dall-E)

    Incontro

    Ci avviciniamo con calma. «Lei conosce Adnen?» chiede Veronika. L’uomo rimane immobile, le braccia lungo i fianchi, lo sguardo sempre fisso su di noi, come se cercasse il motivo per cui dovremmo andarcene.

    «Ci manda il professor Lissia, dalla Sardegna» dico, tenendo la voce bassa ma ferma. «Pensavamo di trovare Adnen. Siamo… siamo spiacenti per la sua scomparsa.»

    Lui non reagisce. Né un cenno, né un grazie. Come se quelle parole si fossero fermate a mezz’aria, troppo leggere per smuoverlo. A quel punto Veronika prende il filo del discorso e prova a spiegare meglio. Parla in francese, con calma, cercando di mostrarsi gentile ma anche determinata. Lui abbassa lo sguardo un attimo, poi torna a fissarla.

    Ci dice qualcosa in arabo, in un tono che è più secco che neutro. E poi aggiunge una frase che suona come un “andate via”.

    Veronika insiste. Gli mostra un taccuino con alcuni appunti scritti a mano, le parole “Ordine”, “memoria”, “simbolo”. Niente. Lo sguardo del ragazzo si fa più duro.

    Ripete quella frase in arabo, ancora e ancora, facendo un gesto chiaro con la mano verso l’uscita. Nessuna esitazione.

    Veronika prova ancora. «Ti prego, è importante. Non siamo qui per fare danni, vogliamo solo capire…»

    Ma non riesce nemmeno a finire la frase. Il ragazzo alza una mano, deciso. Un altro gesto. Più brusco. Non vuole ascoltare.

    È in quel momento che Skippy si muove. Si slaccia lo zaino con un gesto sicuro e, senza dire nulla, ne tira fuori l’anello. Quello del professor Lissia. Lo tiene alto, dritto davanti a lui, come un piccolo trofeo silenzioso.

    Il ragazzo si blocca. Abbassa lentamente lo sguardo verso la zampa tesa di Skippy. Fa un passo avanti. Poi un altro. Si china leggermente, socchiude gli occhi. Riconosce l’anello. Lo guarda come si guarda un oggetto che non ci si aspettava più di rivedere. Si osserva la mano dove porta un anello identico.

    Si raddrizza e, per la prima volta da quando è uscito dai tappeti, il suo sguardo cambia. Non è più freddo. È teso. Allarmato. Ma non ostile.

    Porta un dito alle labbra, come a chiederci silenzio. Poi si gira e scosta i tappeti appesi. Ci fa cenno di entrare nel retrobottega.

    Senza dire una parola, lo seguiamo.

    A volte non servono parole. Basta un gesto giusto nel momento giusto per aprire una porta chiusa

    l’anziana signora (foto Dall-E)

    Il peso delle storie

    Il retrobottega è piccolo e in penombra ma ordinato. Un tappeto steso a terra, scaffali colmi di oggetti avvolti nella stoffa, una teiera in metallo brunito poggiata su un fornellino a gas. Il ragazzo chiude il passaggio dietro di noi, controlla che nessuno ci abbia seguiti, poi si volta.

    «Scusate… per prima» dice, con un italiano fluido che non ci aspettavamo. «Non mi aspettavo che qualcuno si presentasse… così. Con quell’anello.»

    Ci guarda entrambi. Poi si rivolge a Skippy, accennando un mezzo sorriso. «Il professor Lissia… era un uomo generoso. L’ho conosciuto grazie a mio padre. Collaboravano. Condividevano storie. O meglio… pezzi di storie che nessuno aveva mai osato mettere insieme.»

    Si muove verso la teiera, accende il fuoco, aggiunge foglie di menta fresche e zucchero con gesti rapidi e precisi. Il profumo del tè alla menta riempie lentamente la stanza. Ce lo porge in piccoli bicchieri decorati. Accettiamo senza dire nulla.

    «Allora…» sospira, sedendosi su uno sgabello di legno. «Cosa volete sapere esattamente?»

    Gli spieghiamo tutto. La Sardegna. I simboli. Il frammento. Le parole incise. Lui ascolta, teso, senza interrompere. Quando finiamo, resta un attimo in silenzio. Poi si irrigidisce. Le dita tamburellano sul vetro del bicchiere.

    «Non dovreste essere qui» dice alla fine, con lo sguardo basso. «Ci sono persone che non vogliono che queste storie vengano a galla.»

    Sembra sul punto di chiudersi di nuovo. Poi butta fuori l’aria come se stesse scrollandosi di dosso qualcosa di pesante. Si passa una mano sulla nuca e parla.

    «Mio padre era ossessionato da questa storia. Parlava spesso di un gruppo… di uomini arrivati dalla Sardegna molto tempo fa. Diceva che custodivano un segreto, qualcosa di troppo importante per essere raccontato a chiunque. Ma qualcosa è andato storto.»

    Beve un sorso di tè. Poi continua.

    «All’inizio erano voci. Poi iniziarono le pressioni. Visite. Persone che venivano a cercarlo senza presentarsi. Poi sparizioni. Libri scomparsi dalla biblioteca. Contatti che smettevano di rispondere. I suoi colleghi cominciarono ad avere paura. Anche il professor Lissia fu minacciato. Lui però non si è mai fermato. Ha fatto credere di aver smesso di cercare questa verità ma la notte, a casa, studiava reperti, lettere, testi antichi cercando di capire.»

    Ci guarda. Stavolta con occhi diversi. Come se cercasse di capire se siamo pronti a sentire il resto.

    A volte i segreti più antichi sopravvivono solo grazie a chi ha il coraggio di continuare a cercarli

    il retrobottega (foto Dall-E)

    Il Cerchio

    «Mio padre… non parlava mai a voce alta dell’Ordine. Lo chiamava il cerchio. Diceva che non era fatto di simboli o gerarchie. Era fatto di silenzi. Di legami invisibili. Di doveri tramandati da generazioni senza bisogno di firme.»

    Si alza, prende da uno scaffale una scatola di metallo, la posa sul tappeto tra noi. Ma non la apre.

    «Aveva capito che questo Ordine non era nato qui ma era venuto dalla Sardegna. Da molto lontano, molto indietro. Gente che si era spinta fino a Cartagine, in fuga da qualcosa, poi ancora più a sud, nascondendo il loro segreto o forse cercando di proteggerlo. Nessuno sa cosa fosse esattamente.»

    Abbassa la voce. «Mio padre credeva che avessero portato con loro un sapere antico, capace di mettere in discussione tutto. Religioni. Storia. Origini. Era convinto che la chiave fosse in un codice, forse in una lingua dimenticata. Ma ogni volta che si avvicinava a qualcosa di concreto… qualcosa o qualcuno lo respingeva.»

    Fa una pausa. Ci guarda. Poi, con voce più bassa: «Lui e il professor Lissia erano convinti che l’Ordine esiste ancora. Che alcuni di loro si nascondono qui in Tunisia tra gli artigiani, gli anziani, nei villaggi dove la memoria orale passa solo di bocca in bocca. Persone senza nome che si riconoscono con gesti e strani simboli.»

    Si alza di nuovo. Questa volta apre lentamente la scatola. Dentro, fogli piegati, un rosario in legno, due fotografie sbiadite e una stoffa ingiallita con un simbolo tracciato a mano.

    «L’ultima cosa che mi disse prima di morire fu: “Se qualcuno un giorno verrà con l’anello… portalo da lui.”»

    «Chi?» chiede Veronika, inclinando appena la testa.

    «Un uomo, un ex falegname ormai molto anziano. Vive lontano, quasi al confine con il nulla ma lui… lui faceva parte dell’Ordine.»

    Ci sono segreti che non si scrivono mai ma che si tramandano con uno sguardo, una stoffa, un nome sussurrato nel tempo

    la piccola scatola (foto Dall-E)

    Il Segno

    Il ragazzo richiude lentamente la scatola, come se quel gesto servisse a rimettere ordine anche nei pensieri. Poi prende un foglio di carta ingiallito da una pila accanto a sé, si siede e inizia a scrivere con una calligrafia nervosa ma precisa. Nessuna spiegazione. Solo qualche parola in arabo, un nome e una località.

    Quando finisce, soffia leggermente sulla carta e ce la porge senza dire nulla. Sul foglio: un nome proprio e una direzione. Kairouan. Un villaggio poco fuori città, isolato. Nessun indirizzo esatto. Solo un riferimento a una bottega di falegnameria un simbolo strano e la frase: «chiedete di lui».

    «Mio padre diceva che era l’ultimo di loro ancora disposto a parlare» sussurra. «Non fatelo per curiosità. Fatelo solo se siete pronti a non tornare più indietro.»

    Lo guardiamo in silenzio. Veronika annuisce. Io infilo il foglio nel taccuino e chiudo la cerniera. Skippy lo osserva ancora, come se volesse dire qualcosa, ma stavolta resta ferma, seria. C’è qualcosa in quel ragazzo che non dimenticheremo tanto presto.

    Poi, prima di uscire, lui si china di nuovo verso la scatola. Fruga per qualche secondo, finché le dita non trovano ciò che cerca. Quando si rialza, ha in mano un oggetto piccolo e scuro. Lo tiene tra pollice e indice, come si fa con le cose fragili. È una fibula in rame, antica, ossidata. La forma è strana: un cerchio spezzato, con una punta ricurva.

    Si piega verso Skippy e le porge la fibula senza dire nulla. Lei la prende con entrambe le zampette, con quella solennità naturale che solo lei sa avere.

    «Mio padre diceva che questo simbolo serviva per riconoscersi. Se l’anziano falegname è ancora quello di un tempo… vi accoglierà. Ma non fate mai il nome di mio padre. Neanche per sbaglio. Non voglio altri problemi. Noi non ci siamo mai visti e… mai ci rivedremo.»

    Skippy lo fissa per un lungo istante, poi infila la fibula nello zaino e lo richiude con un piccolo clic.

    Quando usciamo dal retrobottega, la luce del pomeriggio ci acceca per un attimo. La medina è ancora lì, viva, piena di voci, colori e profumi. Ma ora ci sembra diversa. Come se qualcosa, nel frattempo, fosse cambiato.

    Ogni viaggio cambia qualcosa fuori, ma certi incontri cambiano ciò che portiamo dentro

    la piccola Fibula (spilla) in rame (foto Dall-E)

    Sconosciuto

    Camminiamo in silenzio. Abbiamo il foglio. Un nome. Una meta. E uno scopo.

    Veronika e Skippy camminano leggere. Per un attimo sembrano entrambe parte di un gioco affascinante, complicato ma comunque un gioco.

    Io, invece, sento i primi brividi. Come una corrente fredda che mi passa tra le scapole. Non so spiegare perché ma il mio sesto senso mi richiama all’attenzione.

    Le voci attorno a noi si confondono in un rumore continuo, ritmato, quasi ipnotico. Il cuore della medina batte ancora forte. Veronika si ferma davanti a una bancarella di ceramiche dipinte a mano, attratta dai colori brillanti e dalle forme imperfette. Skippy, come ipnotizzata, infila il musetto in un cesto di stoffe ricamate, sfiorandole come se cercasse qualcosa.

    Io sono leggermente più indietro, le osservo invidiando la loro spensieratezza. Ci sono molte persone in questi vicoli stretti, turisti, gente del posto, mercanti ed è in quell’istante che sento una mano afferrarmi il braccio.

    Non forte. Ma precisa. Come se sapesse esattamente dove mettere le dita per farmi restare immobile.

    Mi volto di scatto. Davanti a me c’è un uomo. Tunisino. Età indefinita. Un tagelmust chiaro gli avvolge il volto lasciando scoperti solo gli occhi, due fenditure scure incise dal sole e dal tempo. Indossa una tunica che odora di polvere e strada. Ma è lo sguardo che mi blocca. Non ha fretta. Non ha rabbia. Solo una calma spaventosa. Come se sapesse già tutto.

    Si avvicina al mio orecchio. E in un italiano spezzato, lento, quasi sussurrato dice: «È meglio… se lasciate stare.»

    Poi mi lascia. Si gira e sparisce nella folla come se non fosse mai esistito. Un passo dopo l’altro. Né veloce né lento. Come il vento che cambia direzione senza motivo.

    Resto fermo. Immobile. Il respiro corto. Provo a cercarlo con lo sguardo ma tutto si è già confuso. Stoffe appese, bancarelle, odore di spezie e zucchero bruciato. Niente. Come se la medina lo avesse risucchiato.

    Skippy mi guarda, inclinando la testa. Ha capito che è successo qualcosa.

    In quel momento Veronika si avvicina con una piccola tazza di ceramica in mano, sorridendo. «Guarda che bella, sembra fatta a ma…» Poi si blocca, notando il mio sguardo.

    «Tutto bene?»

    Annuisco. «Sì… sì. Tutto a posto.»

    Anche se non lo è. E non lo sarà per un bel po’.

    Ci sono momenti che passano in silenzio, ma restano addosso come una polvere che non se ne va

    l’uomo al mercato (foto Dall-E)

    Linea Rossa

    Il ristorante di cui ci ha parlato Nizar non ha insegne. Solo un vecchio portone in legno intagliato, con i battenti decorati da borchie nere e un piccolo simbolo inciso a mano, qualcosa che sembra più un segno antico che un nome. Nizar ci aveva detto: “Lì mangerete uno dei couscous più veri di tutta Tunisi”. Ma non ci aspettavamo di trovarlo nascosto in un vicolo così stretto da far passare appena due persone.

    Appena entriamo, la luce si abbassa e l’aria cambia. Dentro è fresco, silenzioso, con muri bianchi e archi in pietra che sembrano sorreggere il tempo. Le pareti sono coperte da piastrelle blu e turchesi, i tavoli bassi vestiti di lino grezzo. In un angolo, una donna taglia erbe aromatiche, mentre un ragazzo dispone datteri su un vassoio d’argento con movimenti attenti, quasi rituali.

    Ci sediamo vicino a una finestra con grate in ferro battuto. Ordiniamo couscous alle verdure, che ci arriva con una piccola ciotola di harissa. Il cameriere ci guarda un attimo, accenna un sorriso e dice solo: «C’est très fort.»

    Il profumo è intenso, pieno, avvolgente. Cumino, coriandolo, verdure stufate e olio caldo. Intingiamo il pane nella salsa rossa, e l’odore pizzica già solo a respirarlo. È tutto buonissimo. Ma io non riesco a stare tranquillo.

    «Vero…»

    Lei alza lo sguardo. Lo conosce. Sa già che sto per dire qualcosa di pesante.

    «Ci stiamo infilando in qualcosa che forse non riusciamo a controllare.»

    Appoggia la forchetta. Silenziosa. Presente.

    «Il tipo al museo di Cabras… lo sguardo che ci ha lanciato. Non guardava i reperti, guardava noi. E poi, a Cagliari… quando stavamo facendo i check pre-volo, c’era qualcuno dietro la recinzione. Stava fermo. Forse ci fotografava. Non te l’ho detto per non allarmarti ma prima… prima un uomo, al mercato…»

    Faccio una pausa. Un respiro più lungo. «…mi ha preso per un braccio. E mi ha detto chiaramente che è meglio se lasciamo perdere.»

    Un silenzio spesso si poggia tra noi. Il cucchiaino nel bicchiere vibra appena.

    «Comincio a pensare che non siamo più al sicuro. Che qualcuno… ci stia seguendo.»

    Veronika prende un sorso d’acqua. Poi parla. La voce calma, ma dentro un’onda.

    «E quindi? Vuoi tornare indietro? Chiudere tutto?»

    «Non lo so. Voglio solo capire se ha senso rischiare.»

    «Per scoprire la verità? Sì, ha senso. Se esiste un Ordine, se questa storia è vera… allora c’è qualcosa che qualcuno non vuole farci sapere. E se ci fermiamo ora, daremo loro ragione.»

    «Per scoprire cosa, però? Una verità sepolta da millenni? A che serve, se può metterci in pericolo? E se succede qualcosa a te? A Skippy? Nessuno ci paga per questo. Nessuno ci protegge.»

    Skippy smette di masticare. Ci guarda. Prima me. Poi Veronika. Le orecchie piegate, ma lo sguardo acceso. Combattuta. Ma dentro… propende per andare avanti. Come sempre.

    Veronika scuote la testa. «Siamo arrivati fin qui. Non per gioco. E lo sai anche tu.»

    Sbuffo, infastidito. Poi abbasso lo sguardo sul piatto. Skippy, intanto, sta tirando fuori l’anello di Lissia dallo zainetto. Lo tiene tra le zampe. In silenzio.

    Annuisco. Ma dentro… un turbine. Rabbia, paura, tensione. E qualcosa di più sottile. Un confine.

    Va bene, penso. Ma alla prima crepa vera… tiro il freno. Lo farò io. E sarà la fine di questa storia.

    Veronika intuisce. Non dice nulla. Ma il modo in cui mi prende la mano sotto il tavolo mi dice che ha capito.

    Ogni verità nascosta ha un prezzo. La domanda è: siamo disposti a pagarlo?

    dentro il ristorante (foto Dall-E)

    Oltre la soglia

    Usciti dal ristorante, la sera ci accoglie con un cielo color rame e l’aria più fresca che respira tra i vicoli stretti. Camminiamo lenti, senza fretta, in cerca del nostro hotel, lasciandoci guidare dai suoni ovattati e dalle luci calde che filtrano dalle finestre. La medina si svuota piano piano, ma non smette mai davvero di vivere. Alcuni negozi restano aperti, le lanterne accese ondeggiano lievemente al passaggio del vento.

    Passiamo davanti a un portale monumentale. È la Moschea Zitouna, la grande moschea attorno alla quale è cresciuta l’intera medina. La sua cupola svetta oltre i tetti bassi, custodita da colonne antiche e silenzi profondi. Veronika si ferma un attimo a guardarla, mentre Skippy, accoccolata tra noi, si gira indietro come per imprimersi ogni dettaglio.

    «Qui tutto è costruito attorno a qualcosa di sacro,» mormora lei. «E noi giriamo in cerchio, come se cercassimo un centro che ci sfugge.»

    La osservo in silenzio. Ho mille pensieri che mi bloccano le parole. Le prendo la mano. E insieme riprendiamo a camminare.

    Troviamo il nostro albergo, proprio come ci ha indicato Nizar, in una piccola piazzetta immersa nel cuore della medina. Una minuscola struttura riadattata, con un cortile interno, tende leggere alle finestre e il profumo persistente del gelsomino nell’aria.

    Mentre mi tolgo le scarpe, Veronika si siede sul letto e si gira verso di me.

    «Quindi?» dice, senza giri di parole. «Andiamo a incontrare questo anziano falegname o no?»

    Mi sembra quasi una prova. Come se stesse testando la mia fede in questa ricerca.

    Sbuffo. «Ovviamente. Che domande.» Ma la voce mi esce più secca del previsto.

    Lei scuote la testa con un sorriso appena accennato. «Non ti preoccupare. Non succederà niente. E se succede… lo affrontiamo.»

    Skippy salta sul letto, si stende accanto a lei, una zampa sul cuscino e gli occhi già mezzi chiusi. Io rimango affacciato alla piccola finestra della stanza, che dà su un vialetto stretto ma ancora animato, anche a quest’ora.

    Veronika si addormenta quasi subito. Skippy la segue poco dopo, rannicchiata tra le lenzuola. Il loro respiro è lento. Calmo.

    Io invece resto sveglio.

    Gli occhi aperti nel buio.

    Il pensiero torna a quell’uomo al mercato. A quello dietro la recinzione di Cagliari. A quello sguardo fisso al museo di Cabras.

    Mi chiedo se ci stiano solo osservando.
    O se ci stiano aspettando.

    Scorro la mappa sul tablet, ingrandendo la zona intorno a Kairouan.
    Niente. Nessuna pista visibile, nessun aeroporto. Solo sabbia e strade dritte che si perdono nel vuoto.

    Sospetto che atterrare lì non sarà semplice.
    E forse… nemmeno sicuro.

    C’è solo una persona che può aiutarmi.

    A volte non è la meta a spaventare, ma le ombre che ci osservano lungo il cammino

    pensieri alla finestra (foto Dall-E)

    Riassunto

    Nel cuore pulsante della medina di Tunisi, Camillo, Veronika e Skippy si immergono tra vicoli intricati, profumi speziati e colori vivi, guidati da Nizar, un tassista con legami misteriosi al passato di Adnen. Cercano una vecchia bottega che custodisce memorie e silenzi legati a un Ordine dimenticato. Dopo incontri enigmatici e segnali preoccupanti tra cui un avvertimento diretto ricevuto al mercato – scoprono che l’Ordine esiste ancora, nascosto tra artigiani e anziani custodi. Ricevono un nome e una destinazione: un falegname ai margini del deserto. In un ristorante nascosto, tra piatti tipici e parole pesanti, emergono dubbi e paure. La notte li accoglie in una piccola struttura nel cuore della medina. Mentre Skippy e Veronika dormono serene, Camillo resta sveglio, con una sola domanda che lo tormenta: sono davvero soli?