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la ricerca di una verità nascosta
Diario di Volo
Il nostro viaggio continua lungo la costa sud-occidentale della Sardegna, sorvolando paesaggi scolpiti dal vento e dalla storia. Dalle antiche rovine fenicie di Tharros fino alle miniere abbandonate di Porto Flavia, dalle isole di San Pietro e Sant’Antioco fino alla costa di Nora, ogni tappa aggiunge un tassello al nostro mistero. Il volo si conclude a Cagliari, con la speranza di trovare, a Nora, qualcuno che possa darci nuove risposte.
Punti di interesse sorvolati
da Oristano a Cagliari
Canti e Balli
Sono circa le 17 quando entriamo nella zona dei voli privati dell’aeroporto di Oristano. Il giro in città è stato piacevole e sono contento di aver convinto Veronika a non puntare dritto su Cagliari. Seguiremo la costa sud-occidentale allungando un po’ il volo per sorvolare i tratti più selvaggi della Sardegna.
Mentre sistemo i controlli a bordo sento, dietro di me, un ritmo di battiti irregolari. Mi volto. Veronika sta canticchiando una canzone francese che non conosco, mentre Skippy cerca di tenere il tempo tamburellando con le zampette.
Poi, all’improvviso, Skippy si gira verso di me e comincia a ballare in equilibrio precario, con le braccia allargate come se fosse pronta a spiccare il volo.
«Dai Cami, cantala anche tu!» dice Veronika, voltandosi con un sorriso che non ammette repliche.
«Mmm… meglio di no» rispondo mentre continuo a concentrarmi sul tablet di bordo dove sto impostando il piano di volo.
Skippy si blocca, mi fissa, poi inclina la testa da un lato con espressione esasperata. E insieme, all’unisono, partono con un fragoroso: «Booooooh!»
Scoppio a ridere. L’intesa tra loro è tornata quella di sempre e io, anche stonato, mi sento di nuovo parte di un trio felice e festoso, in un viaggio attorno al mondo.
La leggerezza non è una distrazione ma il modo migliore per iniziare una nuova rotta.

Saluti dall’alto
Poco dopo il decollo sorvoliamo Cabras per un passaggio simbolico sopra il Museo dei Giganti. Non possiamo vederle ma Veronika alza la mano e sorride: «Ciao Gavina… e ciao anche a lei direttrice!»
Skippy fa un cenno con la zampa, poi torna a fissare il paesaggio dal finestrino, con le orecchie dritte e il muso appoggiato al vetro. Lì sotto la terra è piena di storie che solo pochi sanno leggere.
Veronika apre lo zaino e tira fuori la guida sulla Sardegna e la macchina fotografica. Il movimento è fluido, istintivo. In quel gesto c’è tutto quello che siamo: lei che legge e racconta, io che volo e ascolto, Skippy che osserva come se tutto fosse un gioco.
«Tharros era un’antica città fenicia, poi cartaginese e infine romana» inizia, senza bisogno che io le chieda nulla. «Fondata probabilmente nell’VIII secolo avanti Cristo, proprio dove il promontorio si allunga nel mare… guarda là!»
Indica con la mano sinistra mentre con la destra tiene aperta la guida. Dal finestrino si vedono i resti delle strade lastricate, le terme, qualche colonna sparsa. Il promontorio di Capo San Marco le protegge come un muro naturale che ha retto a tutto tranne che al tempo.
«E vedi quella laguna? O stagno… non lo so, sembra quasi un lago. Lì dietro, nascosto tra le colline, c’è il sito di Mont’e Prama. Le statue dei giganti, i frammenti, tutto è venuto fuori da lì. Anni fa. Sotto terra. Quasi per caso.»
Osservo l’area che mi ha indicato, poi osservo lei: «Ma lì non c’è nessun monte… sembra una pianura. Perché si chiama Mont’e Prama allora?»
Veronika sorride, sfoglia qualche pagina della guida e risponde:
«In effetti non è un monte. “Prama” pare venga da pramma, che in sardo antico significa “palude” o “zona bassa e fangosa”. E il “mont’e” sarebbe più un modo di dire che una vera elevazione. Insomma, più che Mont’e Prama dovrebbero chiamarlo Collinetta del Fango.»
Poi mi guarda con un’espressione teatrale: «Ma vuoi mettere che suona meglio così che i Giganti della Collinetta del Fango?!»
Scoppiamo a ridere.
A volte, dietro i nomi più solenni, si nascondono le verità più semplici.

Ricapitolando
Lasciamo alle spalle il promontorio di Tharros e ci spostiamo lungo la costa verso Capo Frasca, dall’altra parte del golfo di Oristano. Il mare è calmo, tagliato solo da qualche scia leggera che si dissolve in fretta. La costa si allunga in curve morbide, il sole che comincia a calare alla nostra destra tinge tutto con riflessi dorati e arancio.
Veronika sfoglia la guida un’ultima volta, poi la richiude e si gira verso di me con quell’espressione da “organizzatrice di pensieri seriale”.
«Oook, ricapitoliamo un po’ di cose, così da avere la mente più lucida quando parleremo con questo professore.»
Mi guarda sollevando un sopracciglio. Alzo la mano dalla cloche e faccio un piccolo gesto che vuol dire “vai”. Skippy, che capisce l’atmosfera, balza avanti e si siede in braccio a Veronika, pronta a partecipare attivamente alla ricostruzione.
«Bene» comincia Veronika. «Grazie alle doti investigative di Skippy a Bonifacio è saltato fuori quel pezzo di stoffa con un simbolo inciso.»
«Bisso marino» le ricordo, senza staccare gli occhi dall’orizzonte. «Il che lo rende già di per sé qualcosa di importante, visto che viene creato, incredibilmente, da un mollusco.»
«Già. Un pezzo di bisso marino con alcune incisioni» ripete Veronika, puntandomi contro l’indice come per avvalorare la mia precisazione. «Non so perché mi ha catturata subito e così ho iniziato a fare ricerche che… beh, mi hanno portato a pensare ai Giganti della Collinetta di Fango.»
Scoppiamo a ridere nuovamente entrambi, mentre Skippy ci guarda confusa, probabilmente offesa per l’uso poco epico del nome.
In questo momento arriviamo sopra Capo Frasca e noto qualcosa a terra.
«Guarda lì… com’è che la sabbia si spinge così tanto verso l’interno? Sembra che salga quasi fino alle case.»
Veronika si rimette subito al lavoro. Sfoglia rapida la guida, Skippy l’aiuta con una zampa tenendole ferma la pagina. «È la spiaggia di Torre dei Corsari» mi dice. «Quel paesino che si vede là in alto che la sovrasta.»
Poi alza gli occhi, quasi divertita: «Quella sabbia si muove. Pare che, con il vento giusto, riesca a salire fin sopra la strada. È uno dei pochi posti dove puoi parcheggiare e trovare la macchina mezza insabbiata al ritorno… anche se era ferma.»
«Un parcheggio volante, praticamente.»
Lei ride. «Sì, ma naturale. Una duna di venti metri che avanza piano piano, anno dopo anno. E nessuno riesce a fermarla davvero.»
A volte la sabbia avanza più in fretta delle certezze.

Buggerru
«Quindi eravamo al fatto che pensavi che il bisso e le sue incisioni fossero legate ai giganti» dico mentre sorvoliamo la costa in direzione di Capo Pecora con il mare che si apre ampio sotto di noi.
«Già» risponde lei, abbassando leggermente il tono. «Ti ho convinto a volare a Santa Teresa di Gallura per visitare il sito di Lu Brandali. C’era una foto sfocata che avevo trovato online… dove una roccia in questo luogo sembrava avere lo stesso simbolo.»
Mi giro un attimo a guardarla. Ha lo sguardo fisso sul tablet ma un velo di tristezza le attraversa gli occhi.
«Però… arrivati lì abbiamo scoperto che era solo un abbaglio. Il simbolo era diverso. Mi sono fatta confondere da una stupida foto sfocata.»
Le prendo la mano senza dire nulla per qualche istante. Poi, con tono leggero ma sincero:
«Succede. E comunque… non saremmo arrivati fin qui, in questa storia, se non fossimo partiti proprio da quel passo falso.»
Lei mi stringe la mano e sorride, in silenzio. Skippy l’abbraccia per darle ulteriore conforto.
Guardo giù. Un’altra spiaggia si allunga verso l’interno. Anche qui, come poco fa, la sabbia sale verso le colline come spinta da qualcosa che non si vede. Evidentemente, penso, in questa zona il vento ha sempre comandato la forma delle cose.
«Capo Pecora» dice Veronika, tornando a parlare. «È uno dei luoghi più selvaggi di tutta la costa ovest. Non c’è quasi niente qui: rocce, macchia, vento. Ma sotto, nella zona che chiamano Buggerru e Scivu, sono stati trovati resti di attività antichissime. Cunicoli, tracce nuragiche, persino voci di gallerie che scendono molto più in profondità del normale.»
A volte anche gli sbagli ci indicano la strada giusta.

Masua
Sorvoliamo una lunga distesa dorata che si perde verso l’entroterra. «bella questa spiaggia» dico mentre la osservo allungarsi sotto di noi come una striscia morbida tra mare e colline.
«Portixeddu» mi dice Veronika dopo aver controllato. «È lunga quasi due chilometri. Sabbia fine, niente stabilimenti. Solo vento e onde. Dice che era frequentata dai pescatori e dai minatori in cerca di silenzio.»
Alla fine della spiaggia appare un piccolo paese incastonato tra le montagne, come aggrappato ai pendii. Le case sono addossate l’una all’altra, incorniciate dal verde e dal blu del mare.
«È Buggerru», dice Veronika. «A inizio Novecento la chiamavano “la piccola Parigi” per via delle case eleganti costruite dai dirigenti della compagnia mineraria francese che operava qui. Ma era anche un luogo di lotte e di dolore. Proprio da qui, nel 1904, partì una delle prime manifestazioni operaie della Sardegna. La repressione fu durissima. Tre minatori furono uccisi.»
Pochi istanti dopo, più avanti sulla costa, compare un profilo che cattura subito lo sguardo: una parete di roccia forata, come scolpita da una mano umana. Ai suoi piedi, un piccolo promontorio con costruzioni che sembrano uscite da un’altra epoca.
«Lì è Masua» continua lei, indicando col dito. «E quella è la bocca di Porto Flavia. Una galleria scavata nella roccia per caricare i minerali direttamente sulle navi. Dietro quella parete c’è tutto un sistema di cunicoli e binari. Un capolavoro ingegneristico. E anche una delle immagini più iconiche della Sardegna dimenticata.»
Resto un momento in silenzio. “stupenda” esclamo. Poi più avanti indico un punto all’interno, un po’ più lontano dalla costa.
«Là dietro c’è Iglesias. Avevo pensato di includerla nella rotta ma era troppo fuori traiettoria. Dovevamo fare delle scelte.»
Veronika scuote la testa piano. «Non fa niente, te ne parlo io.»
Sfoglia qualche pagina e inizia a leggere: «Iglesias è una città antica, con una lunga storia legata alle miniere. Prima ancora, fu un centro fortificato nel periodo giudicale. Il suo nome viene da “Ecclesiae”, per via delle tantissime chiese presenti. Ce ne sono più di venti nel centro storico. E poi ci sono ancora i resti delle mura pisane, costruite nel Duecento. Pare che i Pisani la considerassero così importante da difenderla come una piccola roccaforte nel sud dell’isola.»
Chiude la guida e mi guarda. «Era una città di ricchezza e fatica. Di preghiera e di ferro. E anche se oggi è un po’ fuori dalle rotte turistiche ha ancora un’anima forte.»
Da qui in avanti, la costa si fa ancora più scoscesa. E qualcosa ci dice che il meglio deve ancora arrivare.
Alcuni luoghi resistono al tempo con la sola forza della memoria.

Tre Isole
Siamo in vista di Portoscuso e delle isole di San Pietro e Sant’Antioco. La luce del sole filtra tra le nuvole con quei raggi obliqui che sembrano accarezzare il paesaggio. Il mare sotto di noi è calmo, punteggiato da riflessi argentati. Le ombre delle nuvole scorrono leggere sulla superficie, come se stessero giocando a rincorrersi con l’orizzonte.
Veronika torna a ricordare. «Menomale che la guida di Lu Brandali ci ha parlato di Gavina.»
«Infatti» rispondo io, con un mezzo sorriso. «Se non avessimo incontrato di nuovo la guida, ora saremmo sul versante opposto dell’isola.»
Lei si volta, con un’espressione mista tra complicità e dispiacere. «Lo so che ti sarebbe piaciuto di più… ma questa avventura la volevo proprio tanto seguire.»
Skippy, senza esitazione, la indica con la zampa come a dire “ha ragione lei”. Ci scappa da ridere.
«Va bene così» le dico. «È stato divertente, piacevole… e poi, a me importa stare insieme. Viaggiare. E soprattutto vederci felici e affiatati come oggi.»
Veronika mi guarda per qualche secondo in silenzio, poi sorride. «Oh, quello dev’essere Portoscuso» dice indicando la costa.
«Qui c’era una delle tonnare più importanti del Mediterraneo» continua. «Fino a pochi decenni fa, la pesca del tonno qui era tutto. E il nome del paese viene da “porto oscuro”, perché un tempo era nascosto, protetto dalle rocce. Quasi invisibile dal mare.»
Poi indica a destra. «Quella è l’isola di San Pietro. A colonizzarla, nel Settecento, furono pescatori liguri provenienti da Tabarka, in Tunisia. Ancora oggi parlano un dialetto genovese: il tabarchino.»
«E lì davanti invece… Sant’Antioco. È collegata alla terraferma da un istmo. E pare sia uno dei luoghi abitati più antichi d’Italia. Fondata dai fenici, poi cartaginese, poi romana. E ancora oggi ci sono zone dove si parla il sardo più arcaico di tutta l’isola.»
Le isole ci vengono incontro, lente. Il sole le illumina a tratti e il volo, per un momento, sembra sospeso nel tempo.
Ci sono luoghi che non chiedono di essere spiegati. Basta sorvolarli per capirli.

Carloforte
Sorvoliamo due piccoli lembi di terra appena emersi dal mare. Da qui sembrano scogli allungati ma Veronika riconosce subito il profilo sulla mappa di bordo.
«Sai che questo isolotto qui sotto si chiama… isola dei Ratti?» dice sorridendo, mentre indica il punto esatto. «Pare che il nome venga dal fatto che, per secoli, le barche lasciavano qui provviste e i ratti, quelli veri, si moltiplicavano in fretta. Per anni non è stato altro che uno scoglio infestato.»
Poi allarga il braccio verso destra. «Quella più grande invece è l’isola di Piana. Oggi è una proprietà privata ma un tempo era utilizzata per l’allevamento del tonno rosso. Qui si tenevano le tonnare fisse, legate a Carloforte, e tutta l’economia girava intorno al mare.»
«Un’intera isola privata. Che bello sarebbe averne una» commento
Mentre questo pensiero resta sospeso nell’aria ci avviciniamo a Carloforte, il centro principale dell’isola di San Pietro. Veronika sospira. «Questa città è un piccolo mondo a parte. Parla un dialetto ligure, cucina come in Tunisia e vive con il ritmo del mare.»
Poi torna al filo della nostra storia, come se il volo stesso glielo avesse appena ricordato. «Dicevamo che Gavina ci ha accompagnato a Cabras. Lì lavora ancora una sua vecchia collega, la direttrice del museo. Ci ha fatto vedere due reperti che pensa siano collegati a quello che stiamo cercando.»
«Uno dei due… interessante ma poco chiaro» aggiungo. «Una figura più alta delle altre tre. Potrebbe rappresentare un gigante o forse una persona, un’entità importante per quel gruppo.»
Il motore ronza tranquillo. Sotto di noi, l’isola scorre lenta. E qualcosa, tra le nuvole e il mare, ci spinge a continuare.
Ogni isola ha la sua voce. Basta volare bassi per sentirla.

Calasetta e Sant’Antioco
Sorvoliamo la punta settentrionale dell’isola di Sant’Antioco passando sopra Calasetta, un piccolo paese bianco affacciato sul mare. Le case sembrano scolpite nella luce, allineate come conchiglie e le strade disegnano un reticolo semplice tra i tetti bassi e le barche in porto.
«Calasetta fu fondata nel Settecento da coloni provenienti da Tabarka, come per Carloforte» racconta Veronika. «Ma qui parlano un tabarchino diverso, più influenzato dal sardo. È un paese di pescatori e di artisti, pieno di gente che sa costruire le reti con le mani e le storie con le parole.»
Poi guarda verso sud, oltre le colline. «Tutta questa parte dell’isola è piena di reperti nuragici. Tombe dei giganti, pozzi sacri. Alcuni sono ancora semi-sommersi dalla vegetazione. Pochi turisti ci vanno ma chi cerca davvero, trova.»
Ci avviciniamo lentamente alla cittadina di Sant’Antioco, adagiata sul lato orientale. Il centro è più grande, vivo, con strade che scendono verso il mare. Dal cielo si vedono le cupole delle chiese e i moli affacciati sulla laguna.
«Sai la cosa più assurda è che, sotto le case moderne, ci sono ancora interi tratti di necropoli scavate nella roccia. Qualcuno vive letteralmente sopra le tombe antiche.»
Poi torna al nostro filo ispirata da quella stratificazione di epoche.
«La seconda tavoletta invece era molto più interessante. A quanto abbiamo capito si tratta di un codice segreto. Qualcuno, in epoca più recente, ha provato a imitarlo, creando un linguaggio simile. E quel simbolo inciso sul bisso… potrebbe far parte proprio di quel sistema. La direttrice ha qualche ipotesi ma nulla di certo. Non è ancora stato decifrato davvero.»
Lo dice mentre sorvoliamo le saline di Sant’Antioco. Le vasche rettangolari si allungano come specchi, alcune bianche, altre rosate e la luce del tramonto le trasforma in un mosaico silenzioso.
Ci sono verità che affiorano lente, come isole nel sale.

Oltre il Confine
Inizio a prendere quota per superare i rilievi che ci separano dalla costa meridionale. Il paesaggio cambia: le curve si stringono, le rocce si fanno più scure e il vento accarezza l’aereo con una leggerezza nuova. Davanti a noi, tra una piega del terreno e l’altra, noto strane geometrie sul suolo: rettangoli perfetti, strade sterrate, spiazzi che sembrano preparati per qualcosa che non ha a che fare con la natura.
«Che cos’è quella roba laggiù? Sembra… un campo di manovra?»
Veronika si sporge leggermente, osserva, poi annuisce. «Sì. È una zona militare. Uno dei principali poligoni italiani: Capo Teulada. Viene usato per esercitazioni, test, manovre. Lì dentro fanno di tutto: blindati, artiglieria, simulazioni navali. È un’area chiusa e da anni ci sono polemiche sulla sicurezza ambientale… ma nessuno ha mai raccontato davvero cosa succede lì.»
Skippy si appoggia al finestrino per poter osservare meglio tutti quei segni strani mai visti fino ad ora. Segni di cingoli, piccoli crateri d’esplosione. Skippy li osserva in silenzio. Forse pensa che non ne valga la pena. Non per questo paesaggio.
Sorvoliamo il confine visibile tra il verde naturale e la terra battuta dagli uomini e, appena dopo il crinale, il panorama si apre di colpo: la piana di Pula si distende come un tappeto che arriva fino al mare.
Veronika torna al nostro discorso, quasi come se avesse aspettato quel momento.
«La direttrice ci ha poi accennato ad altri dettagli su Ampsicora e sulla sua fuga. Dice che c’è chi sostiene sia morto ma lei è convinta che sia riuscito a scappare. Non sa dove… ma ci ha detto che potrebbe saperlo una persona molto informata che si trova proprio lì, a Nora.»
Tra segreti militari e memorie antiche ogni crinale può nascondere una risposta.

Atterraggio
Sorvoliamo la zona industriale di Sarroch, dove ciminiere e strutture metalliche si alternano a campi coltivati e nastri d’asfalto. La luce del tardo pomeriggio rende tutto meno ruvido, quasi cinematografico. Inizio ad abbassare la quota mentre ci dirigiamo verso Cagliari ormai vicina.
Una fila di pale eoliche si staglia contro il cielo, immobili per un attimo, come se ci stessero aspettando. Sotto di loro, enormi cumuli di sale, ordinati in file regolari. Li sorvoliamo con un leggero colpo d’ala, poi ci immettiamo nel circuito di discesa verso l’aeroporto.
Skippy salta con agilità sul sedile posteriore e si allaccia la cintura con il solito gesto goffo ma deciso. Veronika chiude la guida, scatta un’ultima foto dal finestrino e mette via anche la fotocamera, con un piccolo sospiro.
Mi allineo alla pista. Vento leggero, contatto morbido. Le ruote toccano terra e il paesaggio rallenta attorno a noi.
Spegniamo tutto ma non la tensione che resta sospesa nell’aria.
Domani ci aspetta Nora.
E con lei, forse, qualcuno che conosce la parte mancante di questa storia.
Quella che ancora non siamo riusciti a decifrare.
Non tutte le piste portano a un aeroporto. Alcune portano alle risposte che stai cercando.

Riassunto
Dopo il decollo da Oristano ci dirigiamo verso sud seguendo la costa selvaggia della Sardegna. Il primo passaggio ci porta sopra Tharros, antica città fenicia e romana, protetta dal promontorio di Capo San Marco. Poi attraversiamo il golfo fino a Capo Frasca, dove le dune di Torre dei Corsari ci sorprendono per la loro forma modellata dal vento.
Sorvoliamo Capo Pecora, Buggerru e l’iconico Porto Flavia, la galleria mineraria a strapiombo sul mare. Più avanti, sfioriamo Masua e l’area mineraria, mentre all’orizzonte si intravede Iglesias, che però resta fuori rotta per questioni di tempo. Proseguiamo verso Portoscuso, poi le isole di San Pietro e Sant’Antioco, illuminate da una luce dorata tra nuvole e riflessi d’acqua. Qui, sopra Carloforte e Calasetta, le storie di naviganti, tabarchini e fenici si intrecciano con la nostra avventura.
Dopo aver attraversato il sud dell’isola sorvoliamo il poligono militare di Capo Teulada, poi superiamo le montagne verso Pula, dove la costa ci accoglie con la sua luce morbida. Ma il nostro pensiero è già a Nora, dove domani ci aspetta un incontro che potrebbe cambiare tutto ciò che sappiamo. Il volo si conclude con l’atterraggio a Cagliari-Elmas, tra saline e pale eoliche, con la consapevolezza che la nostra ricerca è appena iniziata.
verso nuove storie da raccontare.