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Tra sospetti, rovine e una pista che non si vede
Diario di Volo
Un volo da Tunisi verso l’entroterra, sorvolando Cartagine ed El Djem, fino a un campo dimenticato vicino a Kairouan. Dove qualcosa ci aspetta.
Punti di interesse sorvolati
da Tunisi a Kairouan
Risveglio nella medina
Il richiamo del muezzin ci sveglia prima ancora che il sole si affacci sui tetti. Una voce lontana, lenta, trascinata dal vento, si diffonde tra le mura della medina e rimbalza nei vicoli come un’eco senza tempo.
È la nostra prima alba in Tunisia. Eppure lo sento: dovremo abituarci… e non la dimenticheremo.
Dopo il canto, arrivano i suoni della vita: le prime voci basse, i passi leggeri sul selciato, il cigolio dei carretti, il tintinnio dei cucchiaini contro il vetro sottile dei bicchieri. Un ritmo nuovo, familiare e sconosciuto insieme.
Veronika si gira nel letto, si stira con lentezza. Skippy la imita con uno vistoso sbadiglio. Lei mi guarda, si avvicina e mi sfiora la guancia con un bacio. «Buongiorno.»
Apro un occhio appena. Poi lo richiudo. Negli ultimi giorni ho dormito poco e male. Il mio corpo lo sa e loro, ormai, lo sanno meglio di me.
Non insistono.
La porta si chiude piano qualche minuto dopo, lasciando entrare un filo di luce.
Mi addormento di nuovo. Profondamente.
Quando mi risveglio non ho idea di quanto tempo sia passato… ma i profumi… quelli sì che parlano chiaro.
Veronika e Skippy sono rientrate in punta di piedi ma si portano addosso l’odore della strada: spezie calde, pane appena sfornato, gelsomino… e soprattutto, caffè.
«Ti ho portato un caffè» dice Veronika, porgendomi un bicchiere di vetro spesso, senza manico. «Non è espresso… ma si difende.»
È scuro, lungo, profumatissimo.
Il caffè tunisino è diverso dal nostro: più simile a quello turco, viene servito nei makhraj, piccoli bicchieri cilindrici, spesso aromatizzato con cardamomo o acqua di fiori d’arancio.
Questo è allungato, dolce al punto giusto ma con quel fondo denso che lo tiene ancorato alla tradizione.
Una specie di caffè americano… in abiti arabi.
La guardo. Le prendo la mano e le do un bacio leggero sul dorso.
«Ti adoro» sussurro.
Poi mi siedo sul letto, appoggiando la schiena al muro e prendo il telefono dal comodino.
Lo sblocco e, a bassa voce, dico: «Ah… Carlo ha risposto.»
Veronika si volta verso di me, sorpresa.
Si siede ai piedi del letto, in silenzio.
Bevo un altro sorso di caffè. Devo ancora abituarmi a questo sapore denso, speziato, ma in fondo mi piace.
Poi le riassumo:
«Dice che in quella zona, non proprio a Kairouan ma nemmeno troppo lontano, vive un suo ex collega dell’associazione. Si chiama Ali. È anche lui un pilota in pensione e ha una piccola pista sterrata accanto a casa, da cui decolla con il suo XCub.»
Veronika ascolta senza interrompermi.
«Carlo mi assicura che possiamo atterrare lì con il Cessna, la pista è un pò corta ma non dovremmo avere problemi. Ali è abituato a ospitare amici che arrivano in volo e nessuno farà domande. Lo sta già avvisando del nostro arrivo. Mi ha mandato le coordinate e qualche dettaglio utile.»
Lei sorride.
«Perfetto. Vuol dire che si va?»
Annuisco ma dentro una parte di me continua a cercare un motivo per farle cambiare idea.
Non lo trovo.
Fuori la medina si è ormai svegliata del tutto. Il vocio sale come un’onda leggera, portando con sé il primo sole del giorno.
Ci sono risvegli che sanno già di scelta. Anche quando una parte di te cerca ancora una via per tirarsi indietro.

Briciole e leggende
Ho da poco finito il caffè quando sento il mio stomaco brontolare. Forte.
Abbasso lo sguardo e, solo in quel momento, noto le briciole sulla faccia di Skippy, stesa sul letto accanto a me, intenta a giocherellare con una piccola mano di Fatima in metallo che chissà dove ha preso.
Le briciole sono ovunque tra il naso e le guance, come se avesse infilato la testa in un sacchetto di pane.
«Ma avete fatto colazione?» chiedo, indicando il vuoto che ho davanti. «Niente da mangiare per me?»
Veronika scoppia a ridere.
«In realtà lo avevo preso… ma Skippy ha pensato che fosse per lei. Ha lasciato solo il caffè, giusto per cortesia.»
«Maledetta mangiona!» borbotto.
Allungo le braccia, la afferro e la tiro verso di me. Lei si divincola fingendo una fuga ma è già troppo tardi: le faccio il solletico sotto la pancia, come si fa con i bambini.
Skippy ride e si dimena con le zampette in aria.
«Dai, è la scusa perfetta per farti alzare e muoverci» dice Veronika, alzandosi con energia.
«Ti vesti?»
Annuisco riluttante, infilando la maglietta mentre lei, appoggiata al davanzale, sfoglia la guida.
«Sai che il nome “Tunisi” potrebbe derivare dal verbo berbero ens, che vuol dire “addormentarsi”? Ironico, vero? Visto che non hai dormito quasi per niente.»
«Molto spiritosa.»
«Oppure da Tynes, una dea fenicia. Qui tutto ha radici profonde. Anche Cartagine era la capitale di un vero e proprio impero. Hanno combattuto Roma per secoli.»
«E hanno perso.»
«Sì. Ma prima l’hanno fatta tremare.»
Prendo lo zaino, controllo che ci sia tutto e, con un cenno, le faccio strada.
Uscendo dalla porta veniamo subito inghiottiti dai vicoli della medina. Luce obliqua, odori pungenti, voci che si rincorrono tra le pietre antiche. Tunisi ci accoglie come una città che non ha mai davvero dormito.
Ogni risveglio è una scelta: restare dove sei o iniziare, passo dopo passo, a farti strada nel mondo.

Decollo da Tunisi
In attesa dell’autorizzazione della torre, con le cuffie già in testa e le dita leggere sulla cloche, sento ancora in bocca il sapore della colazione fatta poco prima di arrivare in aeroporto.
Un paio di makroud presi al volo tra i vicoli della medina: morbidi, profumati di datteri e miele, con quel retrogusto di semola che sa di casa anche se è lontanissima dalla mia.
La voce della torre arriva mentre sto ancora pensando alla differenza tra il caffè lungo e rotondo che bevo ogni mattina e quello tunisino, denso, speziato, che lascia una scia persistente sul palato.
Più un rituale che una bevanda.
«SWA172 pronto al decollo.»
Entriamo in pista e do subito manetta.
Il Cessna risponde con un ruggito sommesso e in pochi secondi lasciamo la pista dietro di noi.
Tunisi si stende sotto di noi, ampia, bianca, brulicante. I tetti piatti, le cupole, i cortili nascosti.
Scivoliamo verso nord-est in direzione della costa, quando improvvise folate di vento forte mi colgono di sorpresa facendomi pensare che potrebbe essere un volo più movimentato del solito.
«Eccole» dice Veronika, indicando le rovine all’orizzonte.
Cartagine. Fondata dai Fenici nel IX secolo avanti Cristo. È una delle città più leggendarie del Mediterraneo.»
Poi apre la guida sulle ginocchia.
«Sai cosa colpiva di più i Romani? Le terrazze affacciate sul mare. Le chiamavano “le ville delle lacrime”. Perché quando Cartagine fu distrutta, molti dei suoi conquistatori… ci tornarono come turisti.»
«Piuttosto morbosi, come turisti.»
«Be’, qui è nata anche Didone. La regina che, secondo Virgilio, si è innamorata di Enea… e poi si è uccisa per lui.»
«Romanticismo antico.»
«O propaganda latina. I Fenici erano commercianti geniali. Hanno lasciato tracce ovunque: in Spagna, in Sardegna, a Malta… e soprattutto qui.»
La guardo.
«Ti piace questa parte del viaggio, vero?»
«Moltissimo. È come sorvolare una pagina di storia… che non ci hanno mai fatto leggere davvero.»
Le rovine si fanno sempre più nitide sotto di noi.
Le colonne, il promontorio, il mare che riflette il sole come uno specchio antico.
Volare sopra le rovine di Cartagine è come sfogliare una pagina strappata di storia, che ancora oggi chiede di essere riletta.

Verso Sousse
«Cartagine è stata rasa al suolo dai Romani, che poi l’hanno ricostruita. Per secoli è rimasta una delle città più importanti dell’Africa romana. Quando passavano di qui le navi, la vedevano brillare sul promontorio… come un faro silenzioso» continua Veronika, mentre io completo la virata verso sud lungo la costa.
Alla nostra sinistra il Mediterraneo luccica. A destra, il paesaggio si apre su strade sottili, palmeti, campi brulli. La Tunisia moderna scorre a tratti: capannoni industriali, piccole città dai tetti piatti, villaggi che sembrano appoggiati sulla sabbia. Una linea sottile tra antico e presente.
«E Tunisi oggi…» riprende lei «è un mix strano. C’è la parte europea con i boulevard, le caffetterie, le vetrine… e poi la medina. Dove si entra e si esce come da un altro tempo. In un solo pomeriggio puoi attraversare tre secoli diversi.»
Annuisco ma non rispondo. Proprio mentre raggiungiamo il litorale del Golfo di Hammamet, una nuova raffica improvvisa ci investe di lato. Il Cessna si sbilancia bruscamente e per un attimo perdo l’assetto. Stringo i comandi, correggo, respiro. Torniamo stabili. Faccio una leggera virata e mi accorgo che il vento ora ci spinge alle spalle. Un alleato inatteso.
«A cosa stai pensando?» chiede Veronika, poggiando la guida sulle ginocchia.
«A quell’uomo… quel custode. A quello che ci aspetta.»
Lei non risponde subito. Skippy sbuca con la testa tra i sedili, incuriosita, come se avesse capito che non stiamo parlando di monumenti.
«Il figlio di Adnen ha detto che è anziano. Che non parla con nessuno da anni. Che si è isolato per scelta… o forse perché gliel’hanno chiesto.»
«È stato un custode dell’Ordine, no?» chiede lei piano.
«Sì. E speriamo che sia ancora tra quelli che vogliono far emergere la verità.»
Veronika mi osserva. «Tu che pensi?»
«Penso che siamo finiti in mezzo a qualcosa che va ben oltre la curiosità storica.»
Sorvoliamo la medina di Sousse: le mura squadrate, la casba, i minareti bassi, il mercato coperto. Il mare lambisce la città, come se volesse trascinarla via e, invece, lei resta lì ancorata al tempo.
Veronika sfoglia un paio di pagine della guida. «Lo sai che Sousse ha una delle medine meglio conservate del Maghreb? È più piccola di quella di Tunisi ma incredibilmente compatta. Qui dentro hanno girato anche delle scene di Indiana Jones. E poi c’è il ribat… un’antica fortezza-monastero dove vivevano i guerrieri religiosi. Dormivano sulle terrazze per avvistare le navi nemiche.»
«Ma quindi» chiedo, stranito «medina non vuol dire solo una cosa di Tunisi?»
Lei sorride. «No. Medina vuol dire “città vecchia”. Ogni città araba ne ha una. È il cuore. Il labirinto. Il luogo che resiste.»
Guardo giù. Sousse si allontana. La costa continua. E qualcosa, dentro di me, stringe appena.
Non tutte le città antiche sono fatte di rovine: alcune respirano ancora, anche sotto il peso del tempo e dei segreti.

El Djem e il respiro sospeso
Continuo verso sud, rientrando leggermente nell’entroterra. Veronika mi guarda e poi indica un punto sulla guida. «Ma non dovevamo andare a Kairouan? Secondo questa mappa dovrebbe essere più a ovest.»
«Sì» le rispondo, accennando un sorriso «ma prima vorrei sorvolare l’anfiteatro romano più famoso del Nord Africa. È una deviazione, ok… ma fidati, ne vale la pena.»
«Lo stai facendo per Skippy, vero?» sorride lei.
«Anche per lei. Ma soprattutto per me. Ti sto assecondando in questa tua ricerca ed è giusto. Ma nonostante tutto, io voglio ancora scoprire il mondo dall’alto. Questa avventura non mi cambierà fino a quel punto.»
Skippy batte le zampette contro la plancia in segno di approvazione.
Qualche minuto dopo, la distesa urbana di El Djem appare all’orizzonte. Un groviglio di strade, case, tetti piatti… e proprio al centro, come un gigante intrappolato tra le epoche, l’anfiteatro romano.
«Eccolo» sussurra Veronika. «È l’anfiteatro di El Djem. Terzo per grandezza nel mondo romano, dopo il Colosseo e quello di Capua. Ma il meglio conservato di tutti. Trentacinquemila spettatori, nel cuore della città.»
«È surreale. Sembra il Colosseo… ma circondato da una periferia africana.»
«E pensa che ancora oggi lo usano per concerti. A volte di musica classica, altre per i festival locali. La pietra restituisce il suono in modo perfetto.»
Giriamo in cerchio sopra questa magnifica creazione dell’uomo. Le arcate si rincorrono, uniformi. I livelli sono quasi intatti. Dal cielo sembra un monumento dimenticato in mezzo alla vita quotidiana.
Skippy resta immobile, incantata. Poi si volta verso di me e fa un suono basso, prolungato, come a dire “questo sì che vale il viaggio”.
Sorrido. Ne valeva davvero la pena.
Riprendiamo la rotta verso Kairouan, lasciandoci alle spalle l’anfiteatro. Quando ormai stiamo risalendo verso nord-ovest, succede.
Un rumore netto mi gela. Un colpo secco sotto ai piedi. Un singhiozzo metallico. Il motore comincia a tossire. Il Cessna vibra. La potenza scende di colpo. Un allarme si accende per un secondo, poi scompare.
«Cos’è stato?» Veronika è già tesa. Skippy ha gli occhi spalancati.
«Pressione carburante… momentaneamente in calo» dico tra i denti, mentre controllo in rapida sequenza tutti gli strumenti. «Nessuna perdita. Nessuna temperatura fuori norma.»
Agisco come mi hanno insegnato, effettuando tutte le procedure di emergenza e alla fine il motore ruggisce, tossisce ancora… e finalmente si riprende.
Per qualche secondo restiamo sospesi in una bolla. Il silenzio nelle cuffie pesa più del suono.
Poi, lentamente, tutto torna alla normalità. Il rombo si stabilizza. L’altimetro è stabile. La pressione regolare.
«Tutto ok?» chiede Veronika, cercando i miei occhi.
«Sì… credo di sì. Forse un residuo nel carburatore. O una bolla d’aria. Niente di grave.»
Ma non ci credo nemmeno io.
Ora che torniamo verso nord-ovest, il vento ci viene incontro. Ma il Cessna, fedele e ostinato, avanza con determinazione.
Un singhiozzo nel motore, un battito sospeso nel petto ma il volo continua. Testardo, come noi.

Avvicinamento a Kairouan
Il cielo è limpido. Il motore sembra stabile ma io non riesco a rilassarmi. Controllo gli strumenti ogni trenta secondi. Vibrazioni, giri motore, pressione dell’olio. Tutto sembra in regola… ma non mi fido.
Skippy, con la testa tra i sedili, osserva gli indicatori con la mia stessa attenzione. Veronika sfoglia la guida, ma lo fa con quel gesto rigido che tradisce la tensione. Tiene il segnalibro troppo stretto.
Alla nostra destra, una vasta superficie biancastra si estende fino all’orizzonte. «Quella è la Sebkha Sidi El Hani» dice, cercando di rompere il silenzio fitto che avvolge la cabina. «Un lago salato. In estate si asciuga quasi del tutto ma, d’inverno, può trasformarsi in un pantano. In passato lo consideravano un luogo magico. O maledetto.»
Non rispondo. Guardo fuori ma senza vederlo davvero. Poi noto qualcosa.
Il livello del carburante ha iniziato a scendere più velocemente del previsto. Un valore che non dovrebbe essere così. Spengo l’allarme sul Garmin con un tocco secco e resto in ascolto. Il motore gira regolare ma se la discesa continua così… potremmo restare a secco prima di vedere la pista. Manca poco. Ma quel “poco” ora pesa.
Sotto di noi compare Kairouan o Qayrawān, come la chiamano qui. Una città di tetti piatti, minareti squadrati, strade dritte che si incrociano come trame in un tessuto.
«È la quarta città santa dell’Islam» riprende Veronika. «La Grande Moschea è una delle più antiche del mondo musulmano. Un tempo qui passavano carovane, pellegrini e studiosi. Oggi sembra più quieta… ma il cuore spirituale pulsa ancora.»
Vorrei ascoltarla ma la mia attenzione è altrove. Una vibrazione secca, sotto i piedi, mi riporta al presente.
«Spero di trovare velocemente quella pista» mormoro, stringendo la cloche con più forza del necessario. «E spero anche che Ali abbia attrezzi, qualcosa per controllare il Cessna come si deve. Prima di ripartire voglio essere sicuro.»
Veronika si gira verso di me. «Se, come dice Carlo, ha un aereo anche lui… vedrai che ha tutto quello che ci servirà.»
Non riesco a scrollarmi di dosso questa sensazione. Lì sotto ci aspetta qualcuno. E qui sopra… qualcosa potrebbe ancora rompersi.
Lì sotto ci aspetta qualcuno. E qui sopra… qualcosa potrebbe ancora rompersi.

Atterraggio brusco
Siamo sopra la zona indicata da Carlo. Ho inserito nel Garmin le coordinate che mi ha inviato ma da quassù tutto sembra identico: lingue di terra, campi chiari, tratti sterrati, piccole costruzioni isolate.
Giro in tondo, cercando un riferimento preciso. Qualcosa che dica: qui è sicuro. Ma non posso sbagliare. Non posso atterrare nel campo sbagliato o, peggio, nella proprietà di qualcuno che non ci aspetta.
La mano mi trema leggermente sulla cloche. Veronika prova a dire qualcosa, forse per calmarmi ma la zittisco con tono troppo brusco. «Scusa» aggiungo subito dopo, abbassando lo sguardo per un istante. Lei annuisce. Capisce. Non è il momento per le parole.
Skippy, silenziosa, si allaccia le cinture e fissa il parabrezza, lo sguardo teso e vigile come il mio.
Poi, finalmente, lo vedo. Una sagoma familiare: le ali larghe, l’assetto alto da bush flying. Uno XCub, parcheggiato sul bordo di una striscia chiara di terra battuta.
«Eccolo.» Punto il muso in direzione della pista e verifico il vento. Soffiando da nord-est. Mi allineo per l’atterraggio controvento, come previsto.
Il terreno è più sconnesso di quanto immaginassi. L’atterraggio è pieno di sobbalzi secchi e ravvicinati. Anche la pista è più corta del previsto e, per un istante, ho la sensazione che potremmo arrivare lunghi.
Tiro indietro la manetta, freno con decisione. Il Cessna ruggisce, vibra, si siede sulle ruote.
Ci fermiamo. Un sospiro. Un battito lento. Solo ora il mio cuore riprende un ritmo normale. Solo ora noto due figure che si avvicinano dalla casa poco distante: un uomo con passo deciso e una donna dai capelli raccolti sotto un foulard chiaro.
Ali e, probabilmente, sua moglie stanno venendo verso di noi. E non sembrano affatto sorpresi.
In certi momenti, l’unico suono che conta è il battito che torna lento nel petto.
Riassunto
Camillo, Veronika e Skippy decollano da Tunisi con una nuova meta: un incontro segreto poco fuori Kairouan, con un ex custode dell’Ordine. Il volo, pur breve, è carico di tensione. Sorvolano Cartagine, Sousse ed El Djem, dove l’imponente anfiteatro romano si staglia al centro della città moderna. Ma proprio mentre si allontanano da lì, il Cessna mostra un’anomalia al motore, che Camillo riesce a risolvere in volo. Il dubbio resta. L’avvicinamento alla pista indicata da Carlo è difficile: sabbia, silenzi, nessun riferimento certo. Ma quando finalmente scorgono uno XCub e atterrano, trovano ad attenderli Ali e sua moglie. È il momento di scoprire se questa tappa sarà solo una deviazione… o un punto di svolta.
verso nuove storie da raccontare.