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Tra incontri, rivelazioni e scelte difficili
Diario di Volo
Una cena a Cagliari e un incontro inatteso accendono nuove domande. Il professore, ormai vicino alla fine, ci lascia una scelta: fermarci… o andare oltre.
Punti di interesse VISITATI
Cagliari
Cagliari
La sera scivola lenta tra i vicoli di Cagliari, con il cielo che conserva ancora un riflesso dorato mentre l’aria inizia a farsi più fresca. Abbiamo scelto una trattoria fuori dal centro turistico, in una piazza poco illuminata, dove il tempo sembra dilatarsi. Pochi tavoli, luci calde e tovaglie consumate dal tempo: tutto suggerisce che qui la gente viene per mangiare davvero, non per fare fotografie.
L’oste ci accoglie con uno sguardo rapido e profondo, il tipo di sguardo che ti inquadra in un istante. Non dice subito niente, ci lascia sistemare, ci porta l’acqua e un menù scritto a mano, poi torna con un sorriso di quelli veri, senza mestiere. Si ferma accanto al tavolo, osserva Skippy che, curiosa ma composta, si sistema sulla sedia tra me e Veronika.
«Non siete turisti» dice all’improvviso, quasi tra sé e sé.
Ci scambiamo un’occhiata. Veronika sorride. «No, in effetti. Stiamo viaggiando ma non nel senso classico.»
L’oste annuisce, si appoggia allo schienale di una sedia vuota e poi si siede. Il locale è quasi vuoto e il profumo che viene dalla cucina è quello di qualcosa che cuoce piano. «Lo si vede dallo sguardo. I turisti guardano. I viaggiatori cercano. Voi… osservate come chi ha tempo, come chi è in ascolto.»
Skippy inclina la testa, forse lusingata anche lei.
«Cagliari non si mostra subito» continua lui. «È una città che ha vissuto con il vento in faccia e la schiena contro la roccia. I suoi quartieri sono salite e discese, come la sua storia. È stata punica, romana, pisana, spagnola… ma sempre sarda. Non ha mai smesso di esserlo.»
Prende una caraffa e ci versa del vino senza chiedere. Poi aggiunge, abbassando un po’ la voce: «Qui il tempo ha imparato a fare silenzio. Chi resta, spesso ha scelto di farlo. Chi va, se ne porta dietro il sapore. E chi arriva, se è come voi, capisce che le storie vere non si raccontano in piazza… ma tra un boccone e l’altro.»
Veronika si sporge, affascinata. «E quali storie vale la pena ascoltare, qui a Cagliari?»
Lui ci guarda un attimo, poi si volta verso la cucina e grida: «Due piatti di malloreddus alla campidanese. E una terza porzione per la mascotte.» La cuoca, invisibile, risponde con un “sì” cantato.
Poi si rimette comodo, si strofina le mani e abbassa un po’ la voce, come se stesse per raccontare qualcosa di importante. «Qui a Cagliari ci sono strade che poggiano sopra altre strade. Case costruite sopra grotte. Cripte sotto chiese. Non so se l’avete vista ma sotto il quartiere di Castello c’è un tunnel che un tempo usavano i frati cappuccini. Serviva per portare i corpi dei poveri al cimitero, senza che nessuno li vedesse. Lì sotto c’è ancora una cappella scavata nella roccia, con una scritta che dice: Ricordati che anche tu sarai polvere.»
Skippy sgrana gli occhi. Veronika si appoggia allo schienale in silenzio.
«La gente vive qui sopra e non lo sa nemmeno. Ma le storie di questa città non sono tutte nei libri. Alcune… si respirano nei muri. Basta restare in silenzio e ascoltare.»
Ci guardiamo, tutti e tre. Nessuno dice niente per un istante. Poi l’oste ci osserva uno a uno e conclude:
«Voi… state cercando qualcosa, vero? Non so cosa sia ma qualunque cosa sia… la troverete. Basta che non vi dimentichiate da dove siete partiti.»
Poi sorride. «Ora mangiate. E ricordate: qui, chi sa ascoltare, trova più risposte che domande.»
Qui, chi sa ascoltare, trova più risposte che domande.

Mattino e Parole di Sardegna
La notte è passata irrequieta. Veronika si è girata e rigirata tra le lenzuola più volte, mormorando parole a metà in un sonno agitato e Skippy, accoccolata accanto a lei, si muoveva a scatti come se stesse inseguendo qualcosa in sogno. A un certo punto si è alzata, ha camminato per la stanza sbuffando e poi si è riaccomodata al mio fianco, posandomi la testa sul braccio come se volesse dirmi che era stanca persino di dormire.
Io? Ho chiuso occhio a tratti. Di sicuro non abbastanza. Ho sonno, penso mentre entriamo in una piccola caffetteria appena fuori dal centro, scelta a caso seguendo l’aroma che usciva dalla porta semiaperta. Dentro ci sono solo un paio di clienti abituali e una barista con lo sguardo sveglio di chi ha già vissuto una giornata intera prima delle otto del mattino. Ci avviciniamo al bancone e lei ci scruta con un sorriso complice.
«Due cappuccini?» chiede.
«Per loro» rispondo indicando Veronika e Skippy. «Per me… due caffè americani. L’uno dietro l’altro. Nottata lunga.»
«Uhm…» la barista ci osserva. «Notte lunga o notte pensante?»
Veronika sorride. «Entrambe.»
La donna annuisce senza aggiungere altro. Prepara con calma, in silenzio. Quando ci serve le tazze, appoggia anche un piattino con delle seada tagliata a metà. «Sono avanzata da ieri ma hanno dormito meglio di voi, sicuro.»
Ci accomodiamo a un tavolino vicino alla vetrina. Fuori la città si sta svegliando ma non ha fretta. La luce è limpida, con quel tono gentile che solo certe mattine mediterranee riescono ad avere. Skippy, ancora un po’ frastornata dal sogno notturno, si arrampica sulla sedia accanto a Veronika, si sistema composta e afferra il cucchiaino con aria studiata. Non dice nulla ma osserva il mondo passare come se stesse aspettando che qualcosa si sveli.
Dopo qualche minuto, la barista si avvicina di nuovo, appoggiando una zuccheriera con calma. «Voi non siete di qui. Ma non siete nemmeno turisti. Si vede da come vi muovete.»
«L’ha detto anche l’oste ieri sera» commento, incuriosito.
Lei sorride. «Noi sardi lo capiamo. Abbiamo vissuto per secoli tra chi arrivava e chi partiva. E chi resta, impara a leggere gli occhi.»
Veronika si sporge un po’ in avanti. «E cosa vede nei nostri?»
«Vedo gente in viaggio ma non solo per vedere cose nuove. State cercando qualcosa, anche se magari ancora non sapete cosa.»
Ci fermiamo un attimo. È la seconda volta in meno di dodici ore che qualcuno ci legge dentro così, senza bisogno di sapere nulla.
La barista si siede accanto a noi, poggiando il gomito sul tavolo. «La Sardegna è strana» dice. «È piena di verità che non vengono raccontate e di storie che la gente ha paura di dire. Abbiamo paesi che esistono da tremila anni e nessuno sa cosa c’è sotto le loro fondamenta. Gente che parla lingue antiche e non lo sa. Territori che sembrano deserti ma nascondono più vita di una metropoli.»
Poi si ferma, prende una bustina di zucchero e la fa ruotare tra le dita. «Qui ogni verità è nascosta dentro il silenzio. Ma non è un silenzio vuoto. È un silenzio che parla. Solo che bisogna restare abbastanza fermi da sentirlo.»
Veronika annuisce, colpita. Skippy, come sempre, sembra capire. Io finisco il secondo caffè con un sospiro più lungo del previsto.
«Grazie» dico alla fine, mentre ci alziamo. «Per il caffè. E per tutto il resto.»
«Buona fortuna, viaggiatori» risponde lei. «Ma ricordate: se state cercando qualcosa che non si vede è perché non vuole farsi trovare. E se un giorno lo farà… vi chiederà di cambiare qualcosa dentro di voi.»
Qui ogni verità è nascosta dentro il silenzio. Ma non è un silenzio vuoto. È un silenzio che parla.

Nora
Il viaggio da Cagliari a Nora scorre in silenzio. Sto ancora cercando di far girare a pieno regime il cervello, avvolto nella stanchezza di una notte insonne. La strada segue la costa, il mare si allunga alla nostra sinistra come un nastro d’argento frastagliato di luce. Il vento trasporta l’odore del sale e della macchia mediterranea, un profumo che sa di tempo e di storie sospese.
Arrivati al Centro di documentazione archeologica di Nora, il cortile è deserto. Il piccolo edificio dalle pareti chiare sembra quasi assopito sotto il sole ma, dentro, il suono delle voci e il rimbombo leggero dei passi ci accolgono con il respiro di un luogo vissuto.
Ci avviciniamo alla reception. Una donna anziana, con i capelli corti e ordinati, ci osserva con aria pratica da dietro il bancone. È una di quelle persone che ha visto passare centinaia di visitatori e che sa distinguere con un’occhiata chi è davvero interessato e chi è solo di passaggio.
Veronika si schiarisce la voce. «Buongiorno, cercavamo il professor Lissia.»
Un attimo di esitazione. La donna stringe le labbra, lo sguardo si fa più attento. «Lissia?» ripete, come se il nome le suonasse familiare ma al tempo stesso fuori posto.
«Sì» intervengo. «Ci ha mandato la direttrice del museo di Cabras. Dobbiamo parlargli di una ricerca.»
La donna sospira piano e si sistema gli occhiali. «Ah… il professore. Sì, certo. È in pensione da un po’ ma continua a venire sempre qui. Ora che ci penso… è qualche giorno che non lo vedo.»
Si volta verso un collega poco distante, un uomo robusto, sulla cinquantina, con una camicia a quadri e i baffi folti. «Efisio, hai visto per caso il professore in questi giorni?»
Lui si ferma un attimo, ci guarda e poi scuote lentamente la testa, senza dire una parola.
Veronika inclina la testa. «Sa quando torna? O dove possiamo trovarlo?»
La donna si irrigidisce appena, poi risponde con calma: «Non lo so. Di solito è abbastanza metodico, sì, ma non ci ha mai detto se e quando sarebbe venuto.»
Il cuore mi scivola in gola. Sento Veronika trattenere il fiato accanto a me. Skippy, seduta sulla mia spalla destra, solleva le orecchie e osserva la donna con attenzione.
«Non avete provato a cercarlo?» insiste Veronika, la voce tesa.
La donna si irrigidisce visibilmente. «No» risponde con un tono che questa volta ha una sfumatura secca. «Come le ho detto è in pensione. Non lavora più qui. Non è tenuto a dirci dove va e noi non siamo tenuti a saperlo.» Fa una breve pausa. «Magari ha solo deciso di prendersi qualche giorno. Non sarebbe la prima volta.»
Il silenzio che cala subito dopo non è di quelli pieni di preoccupazione. È un silenzio che pesa per un altro motivo, come quando si nomina una persona che ha lasciato una traccia troppo lunga nel posto sbagliato.
Veronika stringe le mani a pugno. Il pensiero è chiaro: e se fosse successo qualcosa? E se fossimo arrivati troppo tardi?
Non diciamo nulla. Solo un attimo di vuoto. Usciamo nel piazzale, il sole ci investe in pieno ma non scalda. Veronika estrae il telefono con un gesto rapido e seleziona il numero di Gavina.
Mentre aspettiamo che risponda sento la tensione crescere dentro di me. Qualunque fosse la traccia che stiamo seguendo… qualcuno o qualcosa, sembra volerla cancellare.
Qualcuno o qualcosa, sembra volerla cancellare.

Attesa a Pula
Veronika cammina avanti e indietro nel piazzale assolato, con il telefono all’orecchio e lo sguardo basso. La voce di Gavina, dall’altra parte, è ferma ma prudente. Le parole arrivano a tratti: “Non ne so molto… lasciami fare un paio di chiamate… vi faccio sapere.” Poi il silenzio.
Quando Veronika chiude la chiamata ha lo sguardo teso. «Ha detto che proverà a informarsi, che ci richiamerà appena ha notizie certe.»
Annuisco, cercando di alleggerire la tensione. «Allora perché non facciamo due passi? Magari scendiamo fino a Pula. Ci sediamo, beviamo qualcosa… io ho ancora bisogno di caffeina. E magari anche di pensieri meno pesanti.»
Veronika annuisce. Skippy fa un piccolo salto giù dalla mia spalla e ci segue camminando al nostro fianco, con la coda che si muove piano, quasi in sintonia col nostro stato d’animo.
Pula ci accoglie con il suo ritmo lento e le strade ordinate, costeggiate da basse costruzioni color pastello. Sembra un paese dove il tempo si è fermato un attimo prima di diventare fretta. Ci fermiamo in una piazza tranquilla, scegliamo un tavolino all’ombra di un ficus e ordiniamo due caffè e un succo di frutta per Skippy, che si siede composta con le zampe incrociate.
Mentre aspetto il mio caffè, lo sguardo mi cade su un piccolo pannello turistico accanto alla fontana della piazza. Mi alzo, incuriosito, e leggo: “Secondo alcuni studi sotto l’attuale centro abitato di Pula si troverebbero ancora i resti sommersi di un’antica necropoli punica non ancora del tutto esplorata.” Alzo lo sguardo verso la cittadina ordinata e silenziosa e mi viene da pensare: quanti segreti possono restare nascosti semplicemente sotto le scarpe di chi non sa che ci sta camminando sopra?
Torno al tavolo. Il caffè è arrivato, lo sorseggio lentamente ma il gusto non ha il tempo di lasciare traccia.
Il telefono di Veronika vibra sul tavolo. Gavina.
Veronika risponde subito con una voce tesa. Dall’altra parte la voce di Gavina si è fatta più calma. Finalmente una risposta. «L’hanno trovato. Il professor Lissia è all’ospedale di Cagliari. È stato male ma ora sta meglio. È vigile, lucido. La direttrice gli ha parlato di voi. Vi sta aspettando.»
Veronika mi guarda, stavolta con un’ombra di sollievo. Skippy fa un piccolo battito di mani silenzioso, poi si rimette seria come se capisse che non è ancora il momento di festeggiare.
Non diciamo nulla per qualche secondo. Qualcosa si è sbloccato. Non abbiamo ancora capito dove stiamo andando… ma almeno non siamo più fermi.
Bevo l’ultimo sorso di caffè. È diventato freddo ma in questo momento va bene anche così.
Quanti segreti possono restare nascosti semplicemente sotto le scarpe di chi non sa che ci sta camminando sopra?

L’incontro con il professore
L’ospedale di Cagliari ha quell’odore che mescola disinfettante e attesa. Cerchiamo il reparto indicato da Gavina e all’ingresso chiediamo della stanza del professor Lissia. Un’infermiera ci accompagna lungo un corridoio silenzioso, dove la luce entra obliqua dalle finestre, accarezzando i pavimenti come a rallentare ogni passo. Camminiamo in silenzio. Veronika tiene Skippy stretta a sé, come se temesse che qualcosa potesse dissolversi al primo rumore.
«Pochi minuti» ci dice l’infermiera prima di lasciarci davanti alla porta.
La stanza è semplice, con le pareti chiare e un’unica finestra aperta sulla luce del tardo pomeriggio. Il professor Lissia è seduto con la schiena leggermente sollevata. Magro, il volto scavato dal tempo e dalla malattia ma gli occhi… gli occhi sono vigili, profondi, quasi brillanti.
«Allora… siete voi» mormora e nella voce c’è più ironia che debolezza.
«Buongiorno, Professore» risponde Veronika. «E’ un piacere conoscerla di persona. Ci manda… la direttrice del museo di Cabras. Ci hanno detto che poteva aiutarci.»
Lissia chiude per un istante gli occhi, come se stesse cercando un punto da cui iniziare. Poi li riapre e ci guarda, uno a uno. «Ho sperato per anni che qualcuno si facesse avanti. Che qualcuno portasse… un tassello, un frammento. Anche solo una nuova domanda. Ma il silenzio è durato troppo a lungo.»
Si interrompe, il respiro lento ma stabile. «I Giganti… erano veri. Non simboli, non statue rituali. Veri. Erano parte di qualcosa che oggi abbiamo paura perfino di immaginare. L’ho sempre saputo ma dire una cosa simile ha un costo. Un prezzo che si paga con l’emarginazione, con le porte che si chiudono… con le carriere che si spengono. Io non sono mai riuscito, mio malgrado, a dimostrarlo con la prova finale.»
Non lo interrompiamo. Capiamo entrambi che ogni parola ha un peso.
«Ampsicora…» dice poi, lasciando il nome nell’aria come se stesse evocando un fantasma. «Non è morto dove dicono. Non si è tolto la vita. Ne sono convinto da decenni. Aveva una rete… nascosta, ramificata, determinata. Un ordine segreto e non parlo di leggende o folklore: parlo di nomi, lettere, simboli. Nella mia carriera ho trovato più volte frammenti che sembravano fuori contesto. Frasi cifrate, mappe incomplete, nomi antichi celati dietro parole nuove. Segni che raccontavano di una fuga… e di un sapere che non doveva essere perduto.»
Abbassa la voce, ci fa cenno di avvicinarci. «Quando sono stati sconfitti, per non far cadere questo sapere nelle mani romane che lo avrebbero sicuramente distrutto lo hanno portato lontano. In Tunisia. Non so dove esattamente, né chi li abbia protetti dopo ma c’è chi non ha mai voluto che questa storia venisse alla luce. Non si può dire chi… ma erano in molti. E molto potenti. Non solo qui, non solo in Italia. Persone con voce nelle accademie, nei fondi di ricerca, nelle pubblicazioni. Gente che sorveglia e cancella.»
Si ferma un istante, il respiro più affannoso. Poi prosegue, più piano. «Una verità sui Giganti, se davvero confermata… sconvolgerebbe tutto. La storia, la fede, le fondamenta di ciò in cui crediamo. Ci sono forze che da secoli impediscono che emerga. Non posso fare nomi ma… non servono. Voi avete già capito.»
Fa una pausa, poi aggiunge, con un filo di voce: «Una volta ci sono arrivato vicino. Forse troppo. Avevo in mano qualcosa che avrebbe potuto cambiare tutto. Ma non ero pronto o, forse, ero troppo legato a tutto ciò che avevo: la cattedra, i miei studenti, mia moglie…»
Guarda il soffitto per un istante, poi torna su di noi. «Non lo dico con vergogna. Scelsi la vita. Scelsi di restare, di proteggere quello che amavo. Ma a volte mi chiedo cosa sarebbe successo se avessi avuto più coraggio.»
«Io ho solo trovato tracce. Il mio lavoro… è stato un inseguimento. Sempre a metà. Sempre ai margini di qualcosa che si nascondeva appena oltre la carta. E ogni volta che mi avvicinavo… bastoni tra le ruote. Tagli ai fondi. Minacce velate. Colleghi che si allontanavano. Ma voi… voi siete liberi. Non siete legati a istituzioni, né appesi ai contratti. Voi potete arrivare dove io non sono mai riuscito.»
Poi ci fissa con intensità. «Ora… io non ho più niente da perdere ma non ho nemmeno più le forze per investigare. Voi sì. Voi avete ancora una strada davanti e questa strada, se la percorrete fino in fondo… non sarà facile, sappiatelo.»
Veronika si stringe a me. Skippy si avvicina al letto e appoggia una zampa sul lenzuolo, in silenzio.
Il professore accenna un sorriso stanco. «In Tunisia… cercate un uomo che si chiamava Adnen. Era un archeologo, un uomo onesto. Aveva un piccolo negozio di antiquariato nel souk della Medina di Tunisi, il cuore antico della città. Ci scrivevamo spesso. Non so se sia ancora vivo. Ma aveva un figlio… più giovane, attento. Mi disse che avrebbe continuato il lavoro del padre. Forse lui… potrebbe aiutarvi.»
Un colpo di tosse gli interrompe la voce. L’infermiera si affaccia alla porta e ci fa cenno che il tempo è finito. Lissia solleva una mano, solo un attimo. «Aspetti…» dice.
Ci guarda ancora. Stavolta con un’ombra più fragile ma anche più intensa. Poi fa cenno a Skippy di avvicinarsi. Lei si avvicina piano, in silenzio.
Il professore le prende la zampa tra le dita, con un gesto lento. Poi si sfila dal dito un anello antico, in bronzo, decorato da un piccolo motivo geometrico incassato, simile a quelli visti nei nuraghi. Lo porge con delicatezza. «Se servirà per farvi riconoscere… mostrate questo. Adnen ne aveva uno identico. Era un riconoscimento per un lavoro che facemmo insieme, anni fa. Una piccola grande soddisfazione. So che lui lo indossava sempre. Se lo vedrà, capirà che vi mando realmente io.»
Skippy prende l’anello con entrambe le zampette, senza dire nulla, ma i suoi occhi si fanno lucidi.
«Io non ne ho più bisogno ormai» aggiunge Lissia, con voce più bassa. «Ma forse… voi sì.»
Veronika si avvicina e gli stringe la mano con delicatezza. «Grazie, Professore. Faremo il possibile. E se scopriremo qualcosa… glielo faremo sapere.»
Lui annuisce, con un filo di sorriso. «Portatemi almeno la fine di questa storia. Perché possa scriverla… anche solo nella mente.»
Usciamo in silenzio mentre la porta si chiude alle nostre spalle. E per la prima volta da giorni non sappiamo più se siamo noi a seguire le tracce… o se sono le tracce a seguire noi.
Scelsi la vita ma a volte mi chiedo cosa sarebbe successo se avessi avuto più coraggio.

Ritorno in Albergo
Usciamo dall’ospedale ancora scossi. Veronika accende il telefono, seleziona l’ultimo numero: quello di Gavina.
Risponde subito.
«Gavina… abbiamo parlato con Lissia. Ci ha confermato che l’Ordine segreto esiste, che Ampsicora non è morto dove dicono. E’ convinto che siano fuggiti in Tunisia portando con loro qualcosa di importante… sapere, forse reperti. Ci ha dato un contatto: un uomo che lavorava nel souk della medina di Tunisi. Un archeologo. Siamo pronti a partire. Anche domani.»
Dall’altra parte il silenzio si fa lungo. Poi Gavina sospira.
«Veronika… io vi voglio bene, lo sai. Ma vi state muovendo in un terreno pericoloso. E non parlo solo di archeologia. La Tunisia non è la Sardegna. Lì ci sono altri codici, altre regole. E questa storia… non è finita. È viva. A volte mi chiedo se sia davvero il caso di andare avanti.»
Solo adesso la sua voce tradisce una cautela, quasi un timore. Come se solo nel sentirci parlare così apertamente, così vicini al cuore del mistero, avesse compreso la portata reale di ciò che stiamo affrontando.
«Ma se ci fermiamo adesso che senso avrebbe tutto quello che abbiamo fatto finora?» risponde Veronika, con la voce ferma. «Ci siamo spinti fin qui. Siamo arrivati a lui. Ora abbiamo una direzione.»
Ancora silenzio. Poi Gavina, con voce bassa: «Solo… fate attenzione.»
La chiamata si interrompe.
Veronika resta qualche secondo a fissare lo schermo, poi si gira verso di me. «Io ci voglio andare, Cami. Anche da sola se serve.»
«E se stessimo facendo un errore?» dico piano, quasi senza volerlo. «E se questa storia non fosse solo archeologia ma qualcosa che ancora oggi qualcuno vuole tenere nascosto?»
Veronika non risponde subito. Si siede sul bordo del letto, con lo sguardo basso. «Forse è così. Ma se è ancora viva… allora vuol dire che conta.»
Mi guarda. Gli occhi non hanno esitazione. «Io non voglio avere rimpianti, Cami. Se anche ci fermassimo adesso… non potrei mai più dormire tranquilla.»
La sua voce non è accesa, non è rabbiosa. È solo vera.
«E tu?» mi chiede. «Tu davvero vuoi tornare indietro adesso?»
La guardo. È stanca, lo siamo entrambi. Ma i suoi occhi brillano di una determinazione che non vacilla.
Rientriamo in albergo senza dire una parola. La strada è la stessa dell’andata ma ora ha perso i contorni. Le luci dei lampioni scorrono come scie stanche sui vetri e tutto sembra sospeso, rallentato. In camera, appoggiamo le nostre cose senza pensarci troppo. Skippy si rannicchia in un angolo della poltroncina, in silenzio. Sembra stanca, triste. Forse per lei è stato difficile vedere il professore in quelle condizioni… sapere che la sua vita gli sta scivolando via.
Mi stendo sul letto, le mani intrecciate dietro la testa, guardo il soffitto. Veronika si avvicina piano. Si infila sotto le coperte e mi abbraccia, poggia la testa sul mio petto. Skippy si trascina sul letto e si accoccola accanto a me, dall’altro lato, con un sospiro felino. Cercano conforto. Protezione.
Provo a darne. Anche se dentro di me non ne ho più di loro.
«La Tunisia fa parte del mondo, no? E noi stiamo facendo il giro del mondo.»
Veronika mi stringe. Un grazie silenzioso.
Le luci si spengono. Il silenzio torna.
Io resto sveglio. Con gli occhi aperti nel buio e la mente piena di domande.
E se questa traccia non fosse solo una traccia? Se ci stesse portando in qualcosa che non possiamo controllare? Che non posso controllare? Qualcosa che le possa mettere in pericolo?
Non lo so.
So solo che domani voleremo verso sud.
E che, per la prima volta da quando siamo partiti, non sono sicuro di voler conoscere la verità.
Non sono sicuro di voler conoscere la verità.

Riassunto
Il diario di viaggio della Tappa 14 si apre con un’intensa serata a Cagliari, dove l’incontro con un oste saggio e una barista attenta fa emergere la profondità di chi osserva più che guardare. Il giorno successivo, dopo una notte agitata, Camillo, Veronika e Skippy si recano a Nora, ma scoprono che il professor Lissia è sparito da giorni. Dopo momenti di tensione e attesa, lo ritrovano in ospedale. L’incontro è commovente e decisivo: Lissia rivela ciò che ha taciuto per tutta la vita, ammettendo di essersi fermato per paura e amore, ma affidando loro l’ultima parte del cammino. La sera, in albergo, Camillo e Veronika si confrontano. È tempo di decidere: seguire quella traccia in Tunisia… o restare. Il diario si chiude in silenzio, tra incertezza e promesse.