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segreti sepolti e nuovi indizi
Diario di Viaggio
A Cabras scopriamo due reperti inediti legati ai Giganti e ad Ampsicora. Qualcosa ci porta verso sud. E qualcuno sembra osservarci.
Punti di interesse VISITATI
al Museo di Cabras
Colazione Sarda
La pancia di Skippy continua a brontolare, un ritmo nuovo dopo il russare regolare del volo. Ora trotterella nervosa con il musetto all’insù, visibilmente affamata e decisa a farcelo notare: ha bisogno di energie per affrontare una giornata del genere.
Mentre siamo in viaggio verso il museo di Cabras, Gavina indica una piccola panetteria lungo la strada e ci propone di fermarci. Il profumo di grano e dolci fritti riempie l’aria come una promessa difficile da ignorare.
Gavina ci consiglia di provare le pàrdulas, piccole tortine di ricotta e scorza d’arancia dal profumo intenso, e Veronika, incuriosita, la segue senza esitazioni. Io mi lascio tentare da un pezzo di pan’e saba, un dolce scuro, umido e speziato a base di mosto cotto, perfetto per queste giornate di vento salmastro. Skippy, invece, si appropria con solennità di una mezza seada, una frittella ripiena di formaggio e ricoperta di miele caldo, che le cola giù dalla zampetta con una lentezza quasi cerimoniale. La annusa con rispetto, la tocca delicatamente con le zampette, poi dà un primo morso e si ferma, immobile, come se il sapore meritasse qualche secondo di silenzio. E non ha tutti i torti.
Riprendiamo il tragitto verso Cabras. La strada taglia i campi e le nuvole grigie corrono basse sopra di noi. Gavina abbassa la voce, con gli occhi fissi sull’orizzonte. «Non sono certa che vorrà mostrarvi quei reperti» dice, quasi parlando a sé stessa.
L’ho sospettato sin da quando ho incrociato il suo sguardo all’aeroporto. Ora quel dubbio prende forma ma lo tengo per me. Se c’è qualcosa che ho imparato da quando siamo arrivati in Sardegna è che certi silenzi sono più utili delle rassicurazioni.
Veronika, seduta accanto a Gavina sul sedile posteriore, si sporge appena in avanti. «E se dovesse rifiutare? Se fosse un altro vicolo cieco?»
Gavina non risponde subito. Poi volta leggermente il capo, con un sorriso sottile e fermo. «Penso di sapere come parlarle. In fondo anche lei ha sempre avuto una fame latente di risposte. Più di quanto lasci credere.»
Arriviamo al museo di Cabras mentre il vento comincia ad alzarsi, sollevando piccole spirali di polvere e odore di salsedine. Skippy salta giù dal sedile e si stiracchia. Sembra tornata alla sua solita energia: ora è pronta a seguire quel filo invisibile che ci ha portati fin qui.
Alcuni oggetti non chiedono di essere spiegati. Vogliono solo essere visti da chi è pronto.

Museo di Cabras
Appena scendiamo dall’auto inizia a piovigginare. Gocce leggere, quasi timide, che si posano sui vetri del museo come dita curiose. Skippy ci segue a passo svelto fino all’ingresso, annusando l’aria come se il profumo della pioggia le raccontasse qualcosa.
Il Museo ci accoglie con un silenzio composto. Ha aperto le porte da poco e sembra svegliarsi insieme a noi. Le voci basse dello staff si mescolano al rumore lieve della carta sfogliata nei cataloghi, l’odore della pietra e del legno cerato si confonde con quello dell’umidità appena entrata dall’esterno.
Alla reception una ragazza sui trent’anni ci saluta con gentilezza ma senza particolare entusiasmo. Gavina le chiede della direttrice con tono tranquillo. «Arriverà tra poco, accomodatevi pure nella sala principale» risponde la ragazza, indicando una porta alla nostra sinistra.
Così ci addentriamo tra le prime teche, ancora soli, mentre fuori le nuvole si addensano un po’ di più.
«Quando il museo fu aperto» inizia a dire Gavina con voce bassa ma piena «questa urna qui fece discutere non poco.»
Ci fermiamo davanti a una vetrina: al centro, un’urna funeraria in pietra con incisioni geometriche e un volto appena accennato. Antica, scolpita male, si direbbe… ma c’è qualcosa di inquieto in quelle linee.
«Alcuni dicevano che era una falsificazione. Troppo diversa da tutto il resto. Troppo “moderna”. Ma io mi sono sempre chiesta se fosse il contrario… se non fosse antichissima, al punto da non avere più niente in comune nemmeno con ciò che pensiamo di sapere del passato.»
Ci scambiamo uno sguardo breve. Veronika sembra incuriosita. Skippy si accoccola davanti alla teca e fissa il volto dell’urna come se volesse capirne l’umore.
Sto per fare una domanda quando sentiamo la voce della ragazza che ci aveva accolti. «Signora… ci sono delle persone che chiedono di lei.»
Gavina si gira. I suoi occhi brillano di un riflesso che non le vedevamo da tempo. Tra sguardi antichi e silenzi da decifrare.
La direttrice arriva qualche minuto dopo, avvolta in un impermeabile grigio scuro, i capelli raccolti in una coda morbida ancora umida di pioggia. Avrà poco meno di cinquant’anni, forse una ventina in meno di Gavina ma nei suoi occhi c’è lo stesso sguardo deciso di chi è cresciuto su questa terra, tra vento e pietra. Non è bella, almeno non nel senso canonico del termine, ma ha un volto sincero, un portamento gentile e un modo di guardare che non sfugge mai.
Appena la vede Gavina le va incontro con un passo incerto ma sorridente. Si ferma a pochi centimetri da lei e, per un attimo, le due donne si osservano, come a misurare il tempo che è passato. Poi, senza dire nulla, si abbracciano. Un abbraccio lungo, vero, che affonda nel passato. La direttrice chiude gli occhi per un istante, stringendola con forza.
«Quanti anni, Gavina…» sussurra, lasciando uscire le parole come un soffio.
«Troppi» risponde lei, mentre si staccano lentamente. Poi si volta verso di noi con naturalezza. «Ti presento due amici: Camillo e Veronika. Viaggiano per terra e per cielo… e oggi hanno bisogno di un po’ della tua luce.»
La direttrice annuisce cortese ma non sorride più. I suoi occhi passano su di noi con attenzione e il suo sguardo si fa più misurato, quasi protettivo. Intuisce qualcosa. Gavina lo capisce e cerca di essere delicata.
«In realtà… volevo chiederti se possiamo vedere alcuni dei manufatti che mi avevi menzionato anni fa. Quelli che…»
La donna la interrompe subito alzando appena la mano. Lo fa senza durezza ma con decisione. «Vieni. Meglio parlarne in privato.»
Si allontanano verso una saletta con pareti vetrate, lasciandoci soli tra le teche e i riflessi opachi del mattino. Da dove siamo non sentiamo nulla ma vediamo abbastanza. La direttrice gesticola, sembra agitata, a tratti infastidita. Gavina invece resta calma, in piedi, come se ogni parola fosse già stata pesata prima ancora di essere pronunciata.
«Non ci farà vedere nulla» borbotta Veronika, le braccia incrociate e lo sguardo fisso. «Ti avrò fatto perdere ancora tempo.»
«O forse sta solo cercando di capire se può fidarsi» rispondo io, lasciando il dubbio in sospeso.
Skippy emette un piccolo verso, poi si sistema contro la mia gamba e mi guarda con quell’espressione da piccola sentinella che conosce il mondo meglio di quanto sembri.
E poi succede.
Le vediamo avvicinarsi. Prima un ultimo scambio a bassa voce, poi un abbraccio stretto, più forte, più carico. Quando si staccano Gavina si volta verso di noi e sorride. È un sorriso calmo, sollevato, quasi complice. Ci fa cenno con la mano: possiamo andare.
La direttrice ci passa accanto senza dire nulla. Il suo volto è serio ma non freddo. Conduce il passo senza voltarsi lungo un corridoio laterale e ci invita a seguirla con un gesto discreto. Mentre entriamo in quella parte del museo dove i visitatori non arrivano mai, l’aria cambia.
Come se stessimo attraversando una soglia invisibile.
Ci sono incontri che non servono a ricordare il passato ma a riaccenderlo.

L’attesa dentro la pietra
La luce si fa più discreta e l’aria odora di umidità trattenuta da anni. Entriamo in una stanza d’archivio, ordinata ma vissuta, con scaffali metallici e casse impilate contro il muro. Una di queste, rivestita di legno chiaro, giace quasi nascosta su uno scaffale defilato.
La donna ci si avvicina e resta un attimo ferma, come se dovesse prendere fiato. La solleva, la posa su un tavolo al centro alla stanza, la osserva… Gavina si fa avanti con una lentezza quasi sacra, gli occhi lucidi e pieni di attesa. La direttrice la guarda. Le due si guardano e io noto la stessa luce nei loro occhi. La voglia di scoprire, dopo anni, se sono in grado di comprendere quello che anni fa le era sfuggito.
Poi la direttrice inserisce una chiave, ruota con calma e solleva il coperchio.
Gavina sembra sul punto di scartare un regalo che ha desiderato da tutta una vita.
All’interno, avvolta in un telo di lino spesso, c’è una lastra di pietra calcarea, lunga forse mezzo metro, scolpita in bassorilievo. La direttrice la poggia con delicatezza su un supporto imbottito.
«Questa è stata trovata vicino a Mont’e Prama, in un’area ancora poco scavata» mormora. «Non rientra nelle tipologie ufficiali. Alcuni pensano che sia un falso, altri che sia troppo frammentaria per raccontare qualcosa.»
Ci avviciniamo anche noi. La lastra raffigura quattro figure umane stilizzate, disposte in linea. Tre di loro hanno proporzioni simili, rudimentali, con teste rotonde e corpi appena abbozzati. Ma la quarta, quella in fondo, è diversa. Molto più grande. Almeno il doppio. Ha braccia più lunghe, un torso più spesso, e qualcosa che assomiglia a un elmo o una cresta sopra la testa.
«Potrebbe essere un capo tribale, un antenato divinizzato o solo un errore di scala» dice la direttrice con voce neutra. «Nessuno ha voluto rischiare un’interpretazione.»
Veronika la osserva senza parlare. Skippy, seduta sulla sua spalla, inclina la testa e, mantenendosi al collo di Veronika con una zampetta, si avvicina come se volesse capire meglio cosa stia guardando.
Io osservo la figura più grande, quella anomala. C’è qualcosa di potente, quasi disturbante, in quell’eccesso di proporzioni.
Ma non parla.
Non ci guida.
Ed è questo che mi preoccupa. Perché se anche il secondo reperto non ci dice nulla… allora forse, stavolta, non avrò nulla da offrire né a Veronika né a Skippy.
A volte il silenzio della pietra pesa più di qualunque risposta.

Il Codice Interrotto
Veronika mi guarda con un velo di delusione negli occhi. Non dice nulla ma mi basta uno sguardo per capire.
Io, pur con il pensiero ancora annidato in fondo al petto, le sorrido lo stesso. Non è finita. Non ancora. E poi, comunque, qualche possibile riferimento ai Giganti lo abbiamo trovato.
La direttrice apre il secondo involto con un gesto lento, quasi rituale. Il lino si srotola con delicatezza, lasciando emergere una tavoletta in pietra grigia, leggermente più piccola della precedente ma densa, viva, quasi vibrante.
Scolpita su entrambi i lati con una cura minuziosa, la superficie è attraversata da simboli geometrici, archi concentrici, linee spezzate che sembrano rincorrersi, segni simili a lettere, ma che non appartengono ad alcun alfabeto conosciuto.
Non è decorazione.
È scrittura. Un codice, come lo aveva definito Gavina. Ma non uno lineare.
Questo si curva, si ripete, si mimetizza. Come se volesse essere compreso solo da chi ne conosceva la chiave.
«È molto più antico di tutto quello che abbiamo mai trovato a Mont’e Prama» mormora la direttrice, senza staccare gli occhi dalla tavoletta. «Ma nessuno è mai riuscito a leggerlo. È troppo distante da ogni logica nota. E troppo… coerente per essere un caso.»
Gavina si avvicina. Le dita tremano appena. Poi, con un gesto preciso, estrae dal suo zaino una fotografia plastificata e la appoggia accanto al reperto. È l’immagine sbiadita di un frammento inciso, più rozzo, più recente.
«Questo l’ho fotografato anni fa, in un deposito. Non sapevano cosa fosse. Ma guarda qui…» Indica un tratto in alto, dove due archi si incrociano. «È una copia. Non moderna ma realizzata in epoca punica o romana. Il tratto è meno profondo, meno fluido. Come se qualcuno avesse tentato di salvare un linguaggio perduto, imitandone la forma per impedirne l’estinzione.»
La direttrice si irrigidisce. Si china, osserva entrambi i reperti e per un lungo momento non dice nulla. Poi alza lentamente la testa e le sue labbra si muovono in un sussurro appena udibile.
«Ampsicora».
È un nome che cade nella stanza come una pietra nell’acqua ferma.
Il suo effetto è immediato.
«Da tempo» continua la direttrice, con voce più tesa «ho il sospetto che non fosse solo un ribelle. Ci sono tracce, minime, nascoste che lo collegano a un clan, a un gruppo chiuso, quasi invisibile, che agiva parallelamente ai poteri noti. Forse un ordine. Forse una confraternita. Nessuno ha mai voluto approfondire. Nessuno ha osato. E anche quando ci ho provato io ho avuto più volte la sensazione che mi fosse impedito di proposito.»
Gavina annuisce. «E se questo gruppo avesse cercato di proteggere un sapere che affondava le radici prima della conquista romana? Prima ancora dei Giganti?»
«O di tramandarlo in silenzio» aggiungo. «Anche a costo di frammentarlo.»
La direttrice si allontana un passo, come se stesse mettendo insieme un puzzle di cui aveva solo i bordi. Poi si volta lentamente verso di noi.
«Uno dei frammenti più simili a questo… fu trovato a Nora, vicino a Pula. Ma non era tra i materiali esposti. Era accanto a una struttura muraria fenicio-punica, rinvenuta sotto uno strato di sabbia compatta, dove si dice che si svolgassero riti riservati. Nessuno lo ha mai collegato a nulla. Fino ad ora.»
Skippy si stringe a Veronika. Io fisso quella tavoletta come se potesse ancora aggiungere qualcosa.
Non siamo più davanti a semplici reperti.
Siamo davanti a una catena interrotta, spezzata e poi ricostruita in segreto. E adesso una parte di quella catena sembra chiamarci da Nora.
Forse è davvero da lì che dobbiamo passare.
Forse il tempo non ha dimenticato tutto.
E forse… c’è ancora qualcuno che ricorda.
Alcuni segreti non si perdono. Si nascondono aspettando occhi pronti a leggerli.

Ombre tra le Sale
La direttrice ripone con cura la tavoletta e richiude il contenitore con un gesto lento, quasi protettivo. Un vero e proprio rituale.
Nessuno parla mentre usciamo dalla stanza d’archivio. C’è una strana solennità nel nostro passo, come se stessimo portando fuori un segreto ancora caldo. Camminiamo nel museo con lentezza, seguendo il percorso che ci conduce verso la sala dove si ergono le statue dei Giganti di Mont’e Prama.
Le luci sono più intense qui, il silenzio più carico. Il rumore dei nostri passi sembra amplificarsi. «Ampsicora era un magistrato di Cornus» racconta la direttrice, la voce calma ma piena. «Un uomo colto, potente. Non un guerriero qualsiasi. La rivolta contro Roma fu studiata, non improvvisata.»
«Eppure è finita male» dice Gavina. «La battaglia persa, il figlio morto, lui che si toglie la vita. Almeno, così raccontano.»
«Ma se non fosse andata così?» chiede Veronika. «E se non fosse morto? E se lui… o chi era con lui… fosse riuscito a scappare?»
«Portando via quel sapere» aggiungo. «Un frammento. Una tavoletta. Magari delle copie, come quella che ci hai mostrato, Gavina. Qualcosa che doveva essere protetto a ogni costo.»
«Forse cercavano qualcuno in grado di custodirlo» riflette Gavina. «O un luogo. Un passaggio.»
«Ma dove?» sussurra la direttrice, più a se stessa che a noi. «Dopo una sconfitta così grande… chi li avrebbe accolti?» Camminiamo lentamente tra le vetrine, le teche laterali. Il museo sembra stringersi attorno a noi, come se stesse ascoltando.
Poi lo vedo.
Un uomo, a una decina di metri da noi. È fermo davanti a una delle vetrine ma non guarda i reperti. Guarda noi. È vestito in modo anonimo, forse un addetto alla sicurezza o qualcuno dello staff, ma qualcosa in lui stona. Forse lo sguardo, forse la postura. E… sì.
Sta ascoltando. Attento. Troppo.
Mi volto verso Veronika. «Ehi, guarda quel…» Indico la direzione con lo sguardo. Ma quando ci giriamo, non c’è più. Nessuna traccia.
Resto un istante in silenzio, cercando di capire se me lo sono solo immaginato. Poi scuoto appena la testa e torno al gruppo.
Il dialogo è ancora in corso, le ipotesi si rincorrono tra sussurri e domande. Ma qualcosa, dentro di me, ha cambiato ritmo. E quella figura sfuggita al mio sguardo ora cammina, silenziosa, nei miei pensieri.
Ci sono sguardi che non cercano oggetti. Cercano chi li guarda.

Sotto lo sguardo dei Giganti
«Aspettate…» dice Veronika, interrompendo il flusso di ipotesi. «Guardate queste statue. Non è incredibile che siano arrivate fino a noi?»
Ci giriamo. Le statue dei Giganti di Mont’e Prama si stagliano davanti a noi con la loro imponenza muta. Alcune sono intere, altre parzialmente ricostruite, ma tutte emanano la stessa, antica autorevolezza. Hanno occhi grandi, scolpiti a cerchi concentrici, e volti scolpiti con forme geometriche essenziali ma ipnotiche.
La direttrice sorride. È la prima volta che la vediamo davvero rilassata.
«Sono qui da anni e ogni volta che passo davanti a loro mi sembrano cambiate» dice. «Non solo per la luce o per l’ombra. Ma per come le guardiamo. O forse… per come ci guardano loro.»
Camminiamo lungo la fila e lei ci accompagna senza fretta. Ogni statua sembra avere un proprio linguaggio.
«Lui è un pugilatore» indica una figura con un grande scudo tondo piegato sul braccio sinistro. «Si riconosce dal guantone che indossa sull’altro braccio. E dalla posa: il busto un po’ inclinato, come se fosse pronto a colpire.»
Poi passa a un’altra. «Questo è un arciere. Lo vedete il copricapo? Probabilmente era in cuoio o in lino rinforzato. Ha ancora parte dell’arco nella mano sinistra. Ed è uno dei pochi con i piedi ben piantati al suolo. Come se stesse proteggendo qualcosa.»
Ci fermiamo davanti a una statua diversa dalle altre, più slanciata, con uno scudo squadrato e una veste accennata.
«E questo è un guerriero. Alcuni pensano che rappresentassero degli eroi. Altri che fossero divinità. Ma la teoria più affascinante, secondo me, è che fossero… antenati. Figure reali, idealizzate, rese immortali nella pietra per vegliare sulle tombe.»
Mi avvicino, osservando la scala.
«Ma… se erano raffigurati così… è vero che le statue erano a grandezza naturale? Parliamo di… tre metri?»
La direttrice annuisce. «Alcune erano alte anche più di due metri e mezzo, forse tre. Considerando la testa, la base, e le armi che tenevano, sì… potrebbero aver raggiunto quella misura. E questo ha alimentato l’idea che non fossero solo ritratti ma rappresentazioni di veri e propri… Giganti. Soprattutto per l’epoca.»
«Il mistero è che non esiste nulla di simile in Europa, in quel periodo» continua la direttrice. «Erano scolpite a tutto tondo, in un’epoca in cui si lavorava la pietra solo in rilievo. È come se qualcuno sapesse già cosa sarebbe venuto dopo. Ma in anticipo di secoli.»
«E allora chi le ha fatte?» chiedo. «E perché proprio lì, a Mont’e Prama?»
«Forse un centro spirituale. Forse una necropoli. O forse… il punto d’incontro tra la memoria e la paura. Metterle lì significava custodire qualcosa. O avvisare qualcuno.»
Le statue ci osservano in silenzio.
E in quello sguardo di pietra, scolpito tremila anni fa, sento qualcosa che non riesco a spiegare.
Una promessa.
O un avvertimento.
Alcune statue non celebrano. Vegliano.

Voci che restano
Quando ci allontaniamo dalle statue la conversazione rallenta fino a fermarsi del tutto. Restiamo in silenzio qualche istante, come se avessimo bisogno di uscire lentamente da quel tempo antico.
Poi la direttrice si ferma. Si gira verso Gavina e le prende le mani con entrambe le sue.
«Tu non vai da nessuna parte» le dice con un tono che non ammette repliche ma che trasuda affetto. «Non ci devi nemmeno pensare. Ora che ti ho ritrovata, ho intenzione di tenerti qui almeno qualche giorno. Voglio parlarti di tutto. Voglio ascoltarti. E… be’, il museo è grande. E casa mia ha ancora una stanza libera.»
Gavina accenna un sorriso, poi ci guarda. «Per voi… va bene?»
«Certo che va bene» rispondo subito. «Ti terremo aggiornata. Promesso. Ti diremo tutto quello che troveremo a Nora».
Skippy si avvicina a Gavina e la abbraccia, stringendole le braccia con delicatezza. Lei si intenerisce, le accarezza il capo e si guarda intorno. Raggiunge il bancone dei souvenir e prende una piccola riproduzione in pietra del volto di un Gigante, con una lieve scheggiatura su un lato. Guarda la direttrice che annuisce senza dire nulla.
«È un po’ storto» dice Gavina sorridendo, porgendoglielo. «Ma ha qualcosa che somiglia al tuo sguardo.»
Skippy lo prende con una cura commovente, lo osserva in silenzio e poi la abbraccia di nuovo, più forte. C’è dolcezza e una gratitudine che non ha bisogno di parole.
La direttrice si volta verso di noi. «Quando sarete là, andate al Centro di documentazione archeologica di Nora. È piccolo ma conserva reperti che non sono visibili sul sito. Chiedete del professor Lissia. È in pensione da anni ma vive praticamente tra quelle sale. Non so se sarà facile trovarlo ma se c’è qualcuno di cui mi fido… è lui.»
«È esperto di questo codice?»
«Ha visto più reperti di quanti ne possiate immaginare. E soprattutto… conosce Ampsicora. Lo ha studiato, inseguito, ricostruito a modo suo. Se c’è una mente capace di mettere ordine tra le tracce è la sua.»
Ci salutiamo davanti all’uscita del museo. La luce è cambiata, la pioggia ha lasciato un’aria pulita e frizzante. Gavina ci abbraccia, un abbraccio lungo e silenzioso. La direttrice ci stringe la mano con calore e un rispetto nuovo negli occhi.
Poi usciamo.
E dietro di noi, le statue tornano al loro silenzio.
Ma ora so che ci stanno seguendo. Anche loro.
Il viaggio verso Oristano scorre in silenzio. Ognuno di noi è immerso nei propri pensieri, come se tutto quello che abbiamo visto, sentito e toccato oggi avesse bisogno di tempo per sedimentare. Il cielo si è rasserenato ma nell’abitacolo resta una tensione lieve, fatta di domande non dette e intuizioni che cominciano appena a prendere forma.
Ci sono incontri che vanno custoditi. Come i reperti più fragili.

Verso sud
Arriviamo in città poco prima di pranzo, quando le prime ombre iniziano ad accorciarsi e il centro si riempie dell’odore di pane caldo e carne arrosto. Troviamo una piccola trattoria nascosta tra le vie del centro storico, una di quelle con i tavoli in legno grezzo e il profumo di cucina vera che ti accoglie ancor prima di sederti.
Ordiniamo piatti della zona: un piatto abbondante di porceddu arrosto, il maialetto da latte sardo cotto lentamente allo spiedo su legna di mirto e lentisco, dalla carne tenera e profumata e la crosta croccante che scricchiola sotto i denti. Lo servono su un letto di rami aromatici, ancora caldo, con accanto patate dorate e pane carasau. Poi una bottiglia di rosso sardo, corposo, che sa di terra e vento.
Durante il pranzo, le parole tornano a fluire. Parliamo a bassa voce di ciò che abbiamo scoperto, di Nora, del professor Lissia, di quella tavoletta e del codice spezzato.
Ogni tanto ci fermiamo. Per mangiare, per pensare. Per osservare Skippy che affronta il suo porceddu con un rispetto quasi cerimoniale… salvo poi divorarlo con un entusiasmo che fa voltare un paio di tavoli vicini. Alla fine, si lecca le zampette come se avesse appena firmato un trattato di pace col popolo sardo.
«Ok, finito di mangiare partiamo» dice Veronika con gli occhi già rivolti al sud. «E niente deviazioni stavolta. Dritti a Nora.»
«Un attimo…» rispondo sorridendo. «Che ne dici se partiamo nel tardo pomeriggio? E poi c’è un tratto di costa che voglio sorvolare. Merita.»
Lei mi guarda, un po’ contrariata, un po’ divertita. «Un compromesso?»
«Un compromesso» confermo. «Come sempre. Tu insegui la storia, io inseguo la bellezza. E a volte, si incontrano.»
Skippy approva sollevando il cucchiaio verso di me, come a dire “ha ragione lui”. Anche lei ama volare. E lo sa bene.
Usciamo che il sole è ancora alto. L’aria profuma di terra bagnata e legna accesa, anche in pieno giorno.
Camminiamo tra le strade di Oristano, le parole che si diradano, sostituite dal rumore dei nostri passi.
Tra poco saremo nuovamente in volo.
Ma la vera avventura sarà quello che ci aspetta a terra.
E se davvero c’è ancora qualcosa da trovare…
questo Professore sarà disposto a farcelo scoprire?
Ci sono storie che aspettano in cielo. Ma il cuore le trova camminando.

Riassunto
Durante la visita al Museo di Cabras, grazie all’intercessione di Gavina, accediamo a due reperti mai esposti al pubblico: il primo, una lastra scolpita con figure stilizzate, suscita più domande che risposte. Il secondo, una tavoletta incisa con simboli misteriosi, sembra collegarsi a un antico codice e, sorprendentemente, al nome di Ampsicora. La direttrice suggerisce un collegamento con un reperto trovato a Nora, tra le rovine fenicio-puniche. Un misterioso osservatore nel museo e un piccolo souvenir per Skippy chiudono una giornata intensa. Dopo un pranzo a Oristano e un compromesso tra rotta e destinazione, ci prepariamo a volare verso sud, sulle tracce di un nuovo indizio.