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un segreto che potrebbe riscrivere la storia.
Diario di Viaggio
Ad Alghero, sotto una pioggia carica di presagi, Camillo, Veronika e Skippy incontrano Gavina, ex ricercatrice e archeologa. Il frammento trovato a Bonifacio si rivela più prezioso del previsto. Tra vecchie carte, simboli dimenticati e nomi nascosti, prende forma una pista che conduce a Cabras.
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Alghero
La pioggia ci accoglie appena entriamo in città. Non è un acquazzone violento ma di quelli sottili, insistenti, che si infilano ovunque e ti obbligano ad abbassare lo sguardo, quasi a invitarti a camminare in silenzio.
Alghero ci appare sfocata, con i vicoli lucidi e le pietre che riflettono i lampioni come specchi opachi. I tetti rossi sembrano più scuri del solito, quasi bagnati anche nei ricordi e il cielo plumbeo, pesante, schiaccia ogni pensiero verso il basso.
Veronika cammina al mio fianco in silenzio. Skippy ci segue senza fiatare, lo sguardo fisso in avanti, le orecchie appena abbassate. Nessuno dei due ha fame, lo capisco dal modo in cui guardano o meglio, evitano le vetrine delle panetterie e i profumi che provano comunque a farsi strada tra le gocce.
«Prendiamoci almeno qualcosa di caldo» propongo, cercando di mantenere un tono più leggero, anche se lo sento forzato persino a me stesso.
Ci infiliamo sotto una piccola tettoia accanto a un forno che profuma di focaccia e cipolla, dove il calore si appiccica ai vetri appannati. Ordino qualcosa in fretta, senza nemmeno leggere tutto il menù, mentre loro si limitano a stringersi nel cappuccio.
Mangio io per tutti o almeno ci provo. Il boccone ha il sapore di una tregua ma solo a metà. L’aria resta sospesa, gonfia di aspettative e timori. È la stessa tensione che ci accompagna da ieri. Quella paura sottile che tutto possa ridursi a una suggestione, a un altro indizio che non porta da nessuna parte.
«Stai bene?» le chiedo a bassa voce, mentre appoggio il bicchiere ancora mezzo pieno su un barile usato come tavolino.
Lei annuisce ma non mi guarda. Poi si aggiusta la sciarpa e rompe il silenzio.
«È che… non so. Più ci avviciniamo a questa storia, più ho paura che si dissolva come nebbia. Ho bisogno che ci sia qualcosa, Camillo. Qualcosa di vero.»
Annuisco, anche se dentro di me il dubbio è lo stesso. È difficile ammetterlo ma la linea tra intuizione e illusione diventa ogni giorno più sottile.
«Anche se ci fosse solo una traccia, una persona che ha visto qualcosa, sarebbe già un passo avanti» dico. «Non abbiamo bisogno di risposte oggi. Solo di un segno.»
Veronika inspira profondamente e finalmente mi guarda. Nei suoi occhi vedo lo stesso miscuglio di paura e speranza che sento dentro di me.
Sotto i nostri piedi l’acciottolato bagnato ci riflette come ombre spezzate. Un bambino corre tra i vicoli ridendo sotto la pioggia, come se il mondo fuori fosse solo un dettaglio. E per un attimo penso a quanto sia diverso il nostro sguardo da quello dei bambini. Quanto il desiderio di capire possa diventare un peso.
Poi alzo gli occhi verso il cuore del centro storico, dove le case antiche si stringono l’una all’altra come a proteggersi dal vento. I balconi in ferro battuto, le persiane socchiuse, le tende leggere che danzano appena.
Alghero ci osserva. E oggi sembra volerci mettere alla prova.
A volte non cerchiamo risposte ma solo un segno che ci dica che non stiamo sbagliando strada.

Nel salotto del passato
La pioggia ci accompagna fino al portone di legno segnato dal tempo ma curato con attenzione. Ai lati, due piante in vaso. Il campanello antico risuona con un “drinn” secco, come quelli di un altro secolo. Poco dopo la porta si apre lentamente.
Gavina è lì, in piedi davanti a noi. Indossa un maglione in lana grezza e ha una sciarpa chiara poggiata sulle spalle. L’aspetto è semplice ma dignitoso. Gli occhi, più di ogni altra cosa, raccontano una vita passata a osservare e a studiare. Ci accoglie con un mezzo sorriso, quasi sorpresa dalla nostra puntualità.
«Entrate, per favore. Ho messo su qualcosa di caldo. Anche se oggi… ci vorrebbe il sole più del tè.»
L’appartamento è al primo piano, in una via tranquilla del centro storico. Odora di carta antica, di cera e di lavanda. Le pareti sono tappezzate di libri, fotografie in bianco e nero, e scaffali colmi di oggetti, molti dei quali probabilmente raccolti in anni di ricerche. Non è una casa… è un archivio che respira.
Skippy si ferma incantata davanti a una mensola ricolma di statuette e piccoli frammenti catalogati. Muove la testa a scatti, poi si siede composta accanto alla poltrona, con l’aria di chi ha capito che qui dentro c’è qualcosa di importante. Qualcosa di importante anche per lei, ora.
Dopo pochi convenevoli è Veronika a prendere la parola. Le mani intrecciate, lo sguardo fisso su Gavina.
«Abbiamo trovato un frammento di stoffa a Bonifacio, per caso» racconta. «Era nascosto in un vecchio manufatto con un doppio fondo, in un antiquario del borgo vecchio. A prima vista sembrava solo un tessuto antico ma aveva inciso sopra un simbolo… molto particolare.»
Fa una breve pausa, poi aggiunge:
«E se lo si guarda in controluce… compare una scritta. È in una lingua mista, forse antica. Dice: “…su tempus… nos eramus… su tempus… torneremos…”.»
Le sue parole restano sospese nell’aria per un istante, dense di significato.
«Non sappiamo cosa voglia dire con esattezza» continua. «Ma sembra qualcosa come: nel tempo eravamo, nel tempo torneremo. L’ho vista per caso. Solo alla luce giusta si riesce a leggere.»
Gavina solleva appena le sopracciglia ma non dice nulla. Segno di chi sa ascoltare prima di parlare. Veronika prosegue.
«Ho fatto delle ricerche online e ho trovato qualcosa di simile a Lu Brandali. Ci ha fatto pensare ai Giganti di Mont’e Prama o a qualcosa legato a loro. Ma poi, quando siamo arrivati lì… nulla combaciava. È stato un po’ scoraggiante. Ed è lì che un collega del sito ci ha parlato di lei. Ci ha detto che anni fa aveva condotto ricerche simili.»
Gavina resta in silenzio per un attimo, poi si alza. Skippy la segue con lo sguardo mentre cammina fino a una piccola scrivania e apre un cassetto. Torna con una cartellina consumata dal tempo e si siede con lentezza. Quando inizia a parlare, la voce è calma ma porta con sé un peso silenzioso.
«Non siete i primi a seguire una traccia che sembra dissolversi all’improvviso. E non sarete gli ultimi. Ma vi dirò qualcosa… anch’io, tanti anni fa, mi sono trovata nello stesso punto. Stessa tensione, la stessa sensazione di essere a un passo da qualcosa… eppure continuamente spinta via.»
Apre la cartellina e ci mostra una vecchia fotografia: una pietra incisa, i simboli appena visibili, scolpiti con precisione incerta.
«Questa l’ho trovata vicino a Paulilatino, in un deposito mai catalogato ufficialmente. Doveva essere trasportata a Cagliari per essere studiata ma… sparì. Come tante altre cose.»
Abbassa lo sguardo per un momento, come se stesse rivedendo tutto con gli occhi della memoria.
«Ogni volta che facevo una domanda i colleghi mi guardavano storto. I fondi sparivano. Le collaborazioni si interrompevano. Una volta, un progetto che avevamo costruito per anni venne bloccato senza spiegazioni. E sai cosa mi dissero? “Forse è meglio concentrarsi su argomenti meno… speculativi.”»
Accende una lampada da tavolo e la luce calda si posa sulle sue mani.
«Speculativi… come se la storia potesse essere solo quella già scritta.»
Veronika la ascolta in silenzio. Io incrocio le braccia, sentendo in quelle parole qualcosa di familiare. Quel senso di ostacolo sottile, mai dichiarato apertamente, ma sempre presente.
«Non ho mai avuto la certezza che ci fosse una volontà precisa dietro tutto questo. Ma troppe volte, proprio quando stavo per fare un passo avanti, accadeva qualcosa che mi riportava indietro. Come se qualcuno o qualcosa volesse che certi dettagli restassero sepolti.»
Skippy alza un orecchio, incuriosita. Gavina la nota e sorride.
«Tu lo capisci, vero, piccola? Anche gli animali sentono quando il silenzio pesa più del rumore.»
Poi si volta verso di noi.
«Fatemi vedere questa stoffa.»
Veronika apre lo zaino con attenzione e le porge il frammento. Gavina lo prende tra le mani, lo osserva per lunghi istanti, lo inclina verso la finestra per vedere meglio le scritte in controluce. Poi annuisce, come se avesse ritrovato un vecchio amico.
«È bisso marino» dice a voce bassa, quasi con rispetto.
«Cosa?» chiedo, sorpreso.
Lei non risponde subito. Continua a fissare il tessuto, poi inizia a spiegare con calma, quasi parlasse a sé stessa.
«È fatto con i filamenti di un mollusco… la pinna nobilis, una grande conchiglia che viveva nei fondali sabbiosi del Mar Mediterraneo. Pochissimi sapevano farlo.»
«Con… un mollusco?» chiedo, ancora più sorpreso.
Ma lei non mi risponde. Troppo intenta ormai a valutare quella stoffa, come se cercasse qualcosa che non ci aveva ancora detto. Alza lo sguardo e i suoi occhi brillano appena, non per l’emozione ma per la concentrazione. Poi, senza preavviso, cambia tono.
«Venite. C’è qualcosa che voglio mostrarvi.»
Ci sono storie che restano nascoste finché qualcuno non osa chiederle.

Tracce nascoste
Ci guida in una stanza più piccola, forse il suo studio. Alle pareti mappe antiche appese con puntine d’ottone e una serie di fotografie in bianco e nero, alcune ingiallite, altre recenti. Un piccolo scrittoio è ricoperto di carte, taccuini, vecchie schede manoscritte.
Apre con cautela un cassetto e ne estrae una scatola piatta, di cartone spesso, consumata ai bordi. Ne tira fuori alcune fotocopie, poi qualche ritaglio di giornale e infine una serie di lucidi trasparenti con tracciati di simboli a confronto.
«Negli anni ho raccolto più di quanto riuscissi a spiegare. Simboli, incisioni, frammenti. Molti erano stati archiviati male, dimenticati o etichettati come “decorazioni rituali di epoca imprecisata”. Ma alcuni… alcuni erano troppo simili tra loro per essere solo decorazioni.»
Sfoglia i lucidi, li sovrappone, li confronta con gesti metodici.
«Guardate questo» dice, mostrandoci un disegno tratto da una stele vicino a Tharros. «E ora questo». lo sovrappone a un altro simbolo inciso su un piccolo oggetto rinvenuto a Ittiri, nella Sardegna nord-occidentale.
«Non identici. Ma… coerenti. Come se parlassero una stessa lingua dimenticata.»
Veronika si avvicina, attratta come da un magnete. Io osservo in silenzio, lasciando che siano loro due a connettere i fili.
«Tra le annotazioni più strane ce n’era una che tornava spesso. Una definizione vaga, sempre scritta in margine: “Il gran maestro” oppure semplicemente “Amsk’r”. Una forma corrotta, incompleta, che nessuno sembrava più in grado di decifrare.»
Gavina apre un quaderno logoro, scritto a mano, fitte annotazioni in corsivo elegante.
«Questo me lo passò un collega di Cagliari. Disse che era una raccolta di appunti su simboli non classificati. Ma guardate qui» indica una pagina con una nota ‘simbolo simile a frammento ligneo trovato a Tharros – possibile collegamento con Amsk’r – vedi nota 1972.’
Veronika si sporge. «E lei è riuscita a collegarlo a un nome vero?»
Gavina annuisce ma con prudenza.
«Ci ho messo anni. Ma un giorno, durante un convegno a Sassari, un ricercatore più anziano mi mostrò un documento trascritto da una fonte punica. Parlava di un “capo della rivolta” chiamato Ampsicora… e a margine, in una nota manoscritta, qualcuno aveva scritto: “Amsk’r?” col punto interrogativo. Per me fu come una scintilla. Quella sigla che avevo letto ovunque… combaciava. Non era una coincidenza.»
Fa una pausa. Lo sguardo si fa più severo.
«Da allora, ogni volta che provavo ad approfondire… qualcosa si metteva di traverso. Reperti spostati. Accessi negati. Progetti che venivano tagliati senza spiegazioni. Come se quel nome, quel vero nome, non dovesse riemergere.»
Alcuni nomi non spariscono: aspettano solo che qualcuno li riconosca.

Una lingua nascosta
Gavina si siede accanto alla scrivania e resta in silenzio per un attimo. Poi prende un foglio stropicciato da un raccoglitore aperto, lo osserva per qualche secondo e parla con voce più bassa, come se stesse per raccontare qualcosa che finora aveva tenuto solo per sé.
«C’è una cosa che non ho mai scritto in nessuna relazione. Né detto apertamente, nemmeno ai colleghi più vicini. Ma dopo quello che mi avete raccontato…»
Ci guarda, uno per uno, in cerca di una conferma silenziosa. Veronika annuisce attendendo una rivelazione. Io resto fermo ma il mio sguardo le dice che può andare avanti.
«Una volta, anni fa, mi permisero di accedere a un piccolo deposito vicino a Tharros. Non c’erano grandi reperti, solo materiale che nessuno aveva ancora avuto tempo o interesse di studiare. Tra quei resti c’era una lastra, poco più grande di un foglio A4, con un’incisione particolare.»
Si interrompe, come se stesse ancora visualizzando quella lastra nella mente.
«Sembrava una decorazione. Ma c’era qualcosa nella ripetizione di certe forme, nella posizione degli elementi. Non era arte casuale. Era ordine.»
Veronika si sporge leggermente. «Come un codice?»
Gavina annuisce, con un’espressione quasi colpevole.
«Sì. Non ne ho mai parlato con nessuno ma ho iniziato a confrontare quei segni con altri trovati in contesti completamente diversi: piccole incisioni sui bordi di ceramiche, schegge di legno intagliate, persino segni lasciati su un’ansa metallica di origine incerta. Non erano identici ma… sembravano seguire una logica, un modulo ricorrente.»
Apre un fascicolo e ci mostra un tracciato a mano: simboli schematizzati, frecce, linee tratteggiate, connessioni come se stessimo guardando una mappa invisibile.
«Alla fine ho iniziato a pensare che non fossero solo simboli religiosi o decorativi. Ho iniziato a credere che fossero una lingua. Una lingua segreta, nata in epoca nuragica o subito dopo… e usata per trasmettere messaggi solo a chi era in grado di leggerli.»
Il peso delle sue parole riempie la stanza. Non ha detto nulla di “clamoroso” in superficie ma il sottotesto è potente: qualcuno ha lasciato volontariamente una traccia, un codice. E nessuno, finora, è riuscito a leggerlo per davvero.
Gavina ci guarda di nuovo. «Forse erano solo suggestioni. O forse ho voluto vedere un disegno dove c’erano solo coincidenze. Ma… c’è una cosa che non riesco a dimenticare.»
Si alza e prende una fotografia sbiadita da una scatola. Ce la porge. Mostra una piccola pietra ovale, trovata, ci dice, nei pressi di un vecchio insediamento punico.
Al centro un simbolo incastonato in un anello di linee concentriche. In basso, quasi impercettibile, una lettera incisa al contrario. La stessa che avevamo notato anche noi sul tessuto ma senza sapere cosa fosse.
«Questo» sussurra «è comparso almeno tre volte. Sempre in luoghi marginali, lontani dai reperti ufficiali. E ogni volta… associato a resti che non avevano mai trovato una collocazione precisa.»
Si volta verso la finestra poi, a bassa voce, quasi parlando a sé stessa, aggiunge:
«Se avessero voluto nascondere un messaggio nei secoli… lo avrebbero fatto così. Non in un unico segno. Ma spargendo pezzi incompleti ovunque. Lasciando a chi viene dopo il compito di rimetterli insieme.»
Chi vuole davvero trasmettere un messaggio non lascia una verità intera. Lascia frammenti da ricomporre.

Una pista ancora aperta
Gavina resta in silenzio per qualche secondo, poi si alza e torna a sfogliare alcune carte accatastate sul mobile accanto. Non sembra cercare qualcosa in particolare. Sembra piuttosto ritrovare un ricordo.
«Sapete… non è del tutto vero che non ho più messo mano a queste ricerche. Alcune cose le ho solo messe… in pausa. Per anni.»
Prende un taccuino, lo apre a metà, poi lo richiude.
«C’è una persona. Una mia ex collaboratrice. All’epoca era giovane, piena di entusiasmo. Lavorava con me quando iniziai a mettere insieme i primi confronti tra quei simboli. Era brillante, curiosa. Poi, per motivi personali, decise di lasciare la ricerca accademica.»
Fa una pausa e ci guarda, come per misurare le nostre reazioni.
«Ora dirige un museo nella zona di Cabras. Un luogo apparentemente fuori dal tempo. E so per certo che tra le collezioni che conserva… ci sono almeno due reperti che non sono mai stati esposti al pubblico.»
Veronika si raddrizza. «Reperti come quelli che ha studiato lei?»
Gavina annuisce. «Sì. Uno in particolare… me lo mostrò anni fa, in privato. Era uno di quei frammenti anonimi che nessuno voleva più studiare ma io vidi subito che portava un’incisione familiare. Le dissi di conservarlo, di non lasciarlo finire in magazzino. E lei lo fece.»
Si volta verso la finestra, dove la pioggia continua a scorrere lenta lungo il vetro.
Poi torna a guardarci.
«Non le ho mai chiesto nulla in cambio. Ma… mi deve un favore. Uno importante. E se ci presentassimo lì all’improvviso, con me al vostro fianco… non potrà dirci di no.»
Veronika sorride. Io incrocio le braccia. Gavina ha già deciso e, a questo punto, anche noi.
Skippy, come se avesse capito tutto, salta leggera giù dal tappeto e si dirige verso la porta, pronta a ripartire.
A volte le risposte non stanno nei documenti ma nelle persone che li hanno custoditi in silenzio.

Sapori che Raccontano
Quando usciamo dallo studio, il cielo è diventato più scuro. La pioggia ha rallentato ma l’aria è ancora satura di umidità. Ci accorgiamo che il pomeriggio è volato via, le parole, le immagini, le connessioni ci hanno rapiti più di quanto pensassimo.
Veronika si volta verso Gavina con un sorriso che ha il sapore della gratitudine.
«Le va di venire a cena con noi? È il minimo dopo tutto quello che ha condiviso. E poi… finalmente ho fame.»
Skippy, come se fosse stata nominata, si scuote e inizia a saltellare intorno a noi. L’appetito è tornato anche per lei e il suo sguardo è quello di chi ha già deciso cosa vuole ordinare, anche se non ha ancora letto il menù.
Gavina ci guarda per un istante, sorpresa. Poi annuisce, quasi commossa da un gesto semplice che non si aspettava.
«Sì… sì, volentieri. Allora vi porto in un posto che conosco io. Niente menù turistici, promesso.»
Poco dopo siamo seduti in una piccola trattoria nascosta tra i vicoli del centro. L’ambiente è caldo, il legno scuro alle pareti contrasta con le luci basse e il profumo nell’aria è una miscela perfetta di spezie, mare e terra.
«Qui fanno uno dei miei piatti preferiti» dice Gavina, sfogliando appena il menù per abitudine, più che per necessità. «Si chiama fregula cun cocciula. È una pasta di semola tipica, piccola, tostata al forno, servita con vongole freschissime e prezzemolo. Semplice… ma se è fatta bene, non la dimentichi più.»
Veronika sorride e si affida ciecamente al consiglio. Io annuisco, curioso.
Skippy, già seduta composta tra me e Veronika, si stropiccia le mani con entusiasmo. Mangia come noi in proporzioni più ridotte e, a giudicare dal modo in cui osserva la cucina, ha già eletto il profumo della fregula come il più buono della giornata.
Quando i piatti arrivano i profumi sono così intensi che per un attimo parliamo poco. Il silenzio si riempie di forchette che sfiorano i piatti e sguardi d’intesa.
Poi, mentre assaporo l’ultimo boccone, mi ricordo di quella domanda rimasta in sospeso.
«Prima ha detto che il tessuto è bisso marino…» mi volto verso Gavina. «Ma non ha finito di spiegare. È davvero fatto con… un mollusco?»
Gavina solleva gli occhi, poi sorride e poggia la forchetta sul bordo del piatto.
«Sì, scusa se ti ho lasciato a metà. Ero troppo presa dai vostri racconti.»
Poi si sistema la sciarpa, quasi a prendersi un momento per trovare le parole giuste.
«Il bisso marino si ricava dai filamenti della pinna nobilis, un mollusco enorme che viveva nel Mediterraneo. Per secoli alcune donne, pochissime in verità, hanno saputo come estrarne quei filamenti, lavarli, filarli a mano, uno per uno. Il risultato è un tessuto leggerissimo, dorato alla luce, che non si deteriora con il tempo. Era usato solo per i paramenti sacri o i vestiti dei re. Cose che non dovevano morire.»
Si ferma un istante.
«In Sardegna c’erano pochissime donne in grado di lavorarlo e ancora meno sono rimaste. Oggi è quasi scomparso. Ecco perché, quando ho visto il vostro frammento… mi si è fermato il respiro. Non si trattava solo di un pezzo raro ma di qualcosa che qualcuno ha voluto proteggere in un modo speciale. Come se il contenuto non dovesse mai essere dimenticato.»
La sua voce si fa più bassa.
«E anche solo per questo… vale la pena continuare a cercare.»
Veronika la guarda in silenzio. Io mi appoggio allo schienale della sedia.
Skippy, con la pancia piena e l’espressione soddisfatta, si avvolge il tovagliolo tra le mani come se fosse una sciarpa e si lascia andare contro la spalliera, occhi chiusi, come a dire: possiamo anche non muoverci più da qui.
È tardi. Eppure nessuno sembra avere fretta.
Ci sono sapori che nutrono il corpo e storie che nutrono il perché.

Un regalo prima di dormire
Quando rientriamo a casa di Gavina l’aria sa di terra bagnata e pietra antica. Alghero sembra essersi acquietata, avvolta in un silenzio che non è solo serale ma quasi cerimoniale.
Stiamo per salutare quando Gavina alza una mano, decisa: «Nessuna discussione. Dormite qui. Partiamo presto domattina e non vi lascio certo vagare per la città in cerca di un posto dove dormire. Qui c’è spazio e per stanotte… siete di casa.»
Veronika la ringrazia con un sorriso gentile. Io accenno un piccolo inchino di resa. Skippy, dal canto suo, è già crollata su un tappeto accanto al divano, le braccia dietro la testa e lo sguardo fisso al soffitto, come se fosse arrivata alla fine di un film che le è piaciuto tantissimo.
Poco prima di andare a dormire Gavina si allontana per qualche minuto, poi torna con un piccolo cofanetto di legno scolpito. Lo apre con cura davanti a Skippy e le porge un oggetto avvolto in un pezzo di lino.
«È un bottone in osso. L’ho trovato anni fa durante uno scavo nei dintorni di Alghero. Non è mai stato registrato, era in mezzo a frammenti senza catalogo ma porta un’incisione molto antica. Alcuni pensano sia una semplice decorazione… io non ne sono mai stata così sicura.»
Skippy lo prende tra le mani con delicatezza. Sul fronte, un piccolo segno curvo a spirale inciso a mano. Lo osserva, poi lo infila subito nella sua taschina laterale, dove tiene le cose importanti. Poi si gira verso Gavina, le prende una mano e l’accarezza con il naso, in quel suo modo silenzioso e dolce che ha solo lei.
«Custodiscilo» le dice Gavina. «Forse un giorno ci servirà.»
Poco dopo, ci sistemiamo per la notte. Gavina ci ha preparato una stanza con un letto comodo, lenzuola profumate e un plaid piegato con cura ai piedi del materasso.
Skippy, come sempre, si rannicchia a terra accanto a noi, avvolta nella sua coperta, la testa appoggiata sullo zaino come fosse un cuscino di casa.
Io e Veronika ci infiliamo sotto le coperte in silenzio.
Per un po’, nessuno dice niente.
Poi Veronika si gira verso di me, la voce bassa, quasi un sussurro.
«Secondo te… troveremo davvero qualcosa?»
La guardo nel buio. Le ombre delle tapparelle si muovono lente sul soffitto, disegnando figure che sembrano danzare.
«Non lo so» le rispondo a bassa voce. «Ma se anche non trovassimo nulla… la storia, in qualche modo, ci ha già trovato.»
Lei sorride. Chiude gli occhi, senza dire altro.
Io resto ancora un attimo sveglio, mentre il respiro di Skippy si fa regolare e il profumo del legno e dei libri antichi ci avvolge.
Domani si riparte ma stanotte dormiamo sotto lo stesso tetto della storia.
A volte non è importante trovare qualcosa. È sentirsi trovati da ciò che cercavi

Riassunto
Ad Alghero, la pioggia accompagna Camillo, Veronika e Skippy in un momento di passaggio tra dubbi e aspettative. L’incontro con Gavina, ex ricercatrice e archeologa dal passato denso di ombre e intuizioni, apre una nuova pista. Nella sua casa piena di libri e reperti dimenticati, la donna conferma che il frammento trovato a Bonifacio è realizzato in bisso marino, un materiale rarissimo usato per custodire ciò che non doveva morire. Condivide con loro simboli ricorrenti trovati in diverse zone della Sardegna, il misterioso nome Amsk’r, forse legato ad Ampsicora e l’ipotesi dell’esistenza di una lingua antica utilizzata per trasmettere segreti. Gavina rivela l’esistenza di due reperti custoditi in un museo a Cabras, inaccessibili al pubblico, ma raggiungibili grazie a un vecchio favore. La serata si chiude con una cena tipica e il dono di un piccolo bottone in osso inciso per Skippy, forse parte di un messaggio più grande. L’indomani, la rotta è già tracciata: verso Cabras, seguendo la scia della storia.