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Tra cielo e addii: il volo che segna un nuovo inizio
Diario di Volo
Durante il volo sopra le Crete Senesi Veronika fatica ad accettare il distacco da Carlo e Irina. Camillo la aiuta a comprendere che gli incontri importanti non si perdono ma restano dentro di noi. Per alleviare la malinconia, le suggerisce di scrivere cartoline ai due amici per condividere il viaggio, un’idea che la fa sorridere di nuovo. Tra paesaggi suggestivi e momenti di leggerezza con Skippy, il viaggio prosegue fino alla laguna di Orbetello, dove un atterraggio su pista erbosa chiude la giornata. Con un nuovo senso di serenità, i due riprendono il cammino, consapevoli che le persone che ci segnano restano parte del nostro viaggio, anche da lontano.
Punti di interesse sorvolati
da Siena ad Orbetello
Tra il silenzio e il volo
Quando arriviamo, l’aeroporto di Siena è immerso in una quiete irreale. L’aria è ancora calda del giorno appena trascorso, ma dentro di noi il vento è cambiato.
Mentre sistemo il Cessna 172 per il volo, il mio sguardo si sofferma su Veronika. Di solito è lei la prima a parlare, a riempire il tempo con osservazioni curiose o battute leggere. Oggi no. Sta ferma accanto all’ala dell’aereo, una mano che giocherella distrattamente con la cinghia dello zaino. Il suo sguardo vaga, perso nei pensieri.
Mi avvicino per aiutarla a sistemare l’attrezzatura, ma il mio gesto sembra spezzare qualcosa. Veronika solleva lo sguardo, mi osserva per un attimo con un sorriso appena accennato, poi torna a concentrarsi sui movimenti meccanici della preparazione al volo.
Anche Skippy è strana. È ferma accanto al finestrino, le orecchie abbassate, gli occhi fissi sulla spilletta di Carlo riflessa nel vetro. Sembra immersa nei suoi pensieri, come se quella piccola insegna dorata contenesse un significato solo per lei.
Per un attimo ho l’impulso di dirle qualcosa, di trovare le parole giuste per confortarle, ma non lo faccio. So che certe emozioni non vanno interrotte, devono semplicemente scorrere.
Come una squadra silenziosa completiamo i controlli. L’abitudine a quei gesti è l’unica cosa che ci ancora alla realtà.
Quando tutto è pronto, Veronika si occupa delle comunicazioni con la torre. La sua voce torna per un momento calma, professionale, ma io sento il peso che porta dentro. L’autorizzazione arriva in pochi secondi. Il Cessna ruggisce in risposta, pronto a riportarci in aria.
Le ruote si staccano dall’asfalto e per un attimo tutto si ferma.
Veronika chiude gli occhi.
Un respiro profondo, poi li riapre, lasciando che lo sguardo si perda tra le colline. Salutiamo Siena, la città che ci ha nuovamente accolti e che ora ci sta lasciando andare.
Dalla sua borsa spunta la fotocamera, sollevata con la precisione di sempre. Un gesto familiare, rassicurante. La osservo mentre inquadra il paesaggio, i suoi movimenti calcolati, il suo modo di guardare il mondo attraverso l’obiettivo sembra lo stesso di sempre, ma comunque con una sfumatura diversa.
Sta cercando di trattenere qualcosa.
Le Crete Senesi si aprono davanti a noi e con esse il nostro viaggio che continua.
Un passo alla volta, un volo dopo l’altro.
certe emozioni non vanno interrotte, devono semplicemente scorrere.

Asciano: un rifugio tra le colline
Il volo sopra le Crete Senesi procede silenzioso. Piloto quasi automaticamente mentre il mio pensiero vaga. Il rombo del motore riempie l’aria, ma l’atmosfera in cabina è troppo pesante.
Poi lei rompe il silenzio.
«Sai…» sembra più un pensiero ad alta voce che una vera domanda. «Non avrei mai immaginato di affezionarmi così tanto a qualcuno incontrato per caso.»
La osservo un istante, poi torna a guardare fuori.
«Non è poi così strano.»
«A me sembra di sì.» Veronika sospira, stringendo la fotocamera tra le dita senza scattare. «Mi sento come se avessi lasciato qualcosa indietro. Come se ci fosse ancora qualcosa da dire, da fare.»
Cerco di confortarla. «Perché fanno parte di te, ormai.»
Lei mi guarda, incerta. «E cosa dovrei farci, con questa sensazione?»
Rifletto un momento, continuando a concentrarmi sul volo. «Accettarla. Non come un’assenza, ma come qualcosa che ti accompagna.»
Veronika abbassa lo sguardo. «E se invece fosse una mancanza? Se certe persone fossero destinate a restare?»
«Alcuni incontri sembrano fatti per durare solo un attimo, altri per accompagnarci più a lungo. Ma il tempo passato con qualcuno non è quello che conta davvero.»
«E cosa conta?»
Le accarezzo la gamba e le dico dolcemente: «Quello che ci resta, quello che ci cambia.»
Un movimento improvviso interrompe la conversazione. Skippy, dal suo posto, allunga il musetto contro il vetro, poi indica con la zampa qualcosa al di sotto di noi.
Veronika segue la sua direzione. «Hai ragione Skippy, scusa. Guarda, credo sia la Grancia di Cuna di cui leggevo prima.»
Abbasso leggermente il muso dell’aereo per osservare meglio la fortezza incastonata tra i campi dorati.
«Era un granaio fortificato» spiega Veronika. «I monaci di Monte Oliveto Maggiore lo costruirono per proteggere le scorte dai briganti. Serviva anche come rifugio per i pellegrini della Via Francigena.»
Osservo le alte mura che racchiudono l’edificio, solido e immutabile nel tempo. Protezione. Rifugio. Accoglienza.
Le parole di Veronika di poco fa riecheggiano ancora nella mia mente. Carlo e Irina sono stati questo per noi. Un porto sicuro. Una lezione su come affrontare il viaggio della vita. Un rifugio per le nostre paure su questa avventura.
La Grancia si allontana sotto di noi e con essa i pensieri ancora sospesi.
«Asciano è proprio davanti» dice Veronika, tornando a concentrarsi sulla guida.
Sorvoliamo il borgo compatto e armonioso, un piccolo centro che sembra abbracciarsi su se stesso.
«Asciano era un crocevia per il commercio del grano» continua Veronika. «Ha origini etrusche, ma nel Medioevo divenne un centro importante. C’è anche un museo con reperti storici e opere d’arte.»
La sua voce ha ritrovato un po’ della leggerezza di sempre, ma resta quell’alone di malinconia.
I luoghi possono essere rifugi ma non possiamo restare per sempre dentro le loro mura. La vita è fatta di partenze, anche di quelle che non vorremmo affrontare.

Montepulciano: il tempo e il valore degli incontri
Il volo prosegue tranquillo. Il sole continua ad abbassarsi, tingendo il paesaggio di una luce ancora più morbida, quasi pittorica.
Veronika è sempre assorta nei suoi pensieri. Le sue dita sfiorano la fotocamera senza alzare l’obiettivo, come se il paesaggio che stiamo sorvolando fosse solo uno sfondo per qualcosa di più grande che le sta passando per la mente.
Poi, come se seguisse un pensiero ad alta voce, chiede: «Secondo te, gli incontri che facciamo sono casuali o c’è sempre un motivo dietro?»
Rifletto per un momento. «Forse certe persone sono destinate a incrociare il nostro cammino, mentre altre le incontriamo perché scegliamo di aprirci a qualcosa di nuovo.»
Veronika tiene lo sguardo fisso sull’orizzonte. «E Carlo e Irina?»
Rifletto un attimo. «Forse non è stato il destino a portarci da loro, ma il fatto che eravamo pronti a lasciarci ispirare.»
Skippy, dal suo posto, inizia a emettere piccoli versi battendo leggermente una zampetta contro il finestrino per attirare la nostra attenzione. Io e Veronika siamo così presi dal nostro discorso che, all’inizio, non la notiamo.
Ma lei non si arrende: con un verso più deciso, quasi seccato, e un gesto esagerato della zampa, ci costringe a guardarci.
«Che c’è piccola? Cosa succede?» chiedo voltandomi verso di lei.
Skippy, con il muso premuto contro il finestrino, sembra dire: “Finalmente vi siete svegliati!”
Veronika si sporge per vedere meglio e scoppia a ridere. «Guarda, è **Montepulciano! La nostra piccola navigatrice ha ragione: non possiamo perdercelo.»
Rallento leggermente l’aereo per osservare meglio il borgo.
«Una chiesa mi cattura subito l’attenzione. E quella?»
Veronika mi risponde quasi subito. «Credo sia il Tempio di San Biagio, un capolavoro rinascimentale progettato da Antonio da Sangallo il Vecchio.»
«Ma Montepulciano non è solo arte» continua Veronika. «La guida dice che il Vino Nobile di Montepulciano è uno dei più antichi d’Italia. Lo sapevi? Più il vino invecchia, più diventa prezioso.»
Skippy, soddisfatta, si accoccola sul sedile con aria fiera.
Alcuni incontri sono come il buon vino: il loro valore si comprende solo con il tempo.

Pienza: la città perfetta e la realtà dell’imperfezione
La manovra per raggiungere Pienza ci porta a virare ampiamente, quasi tornando indietro, seguendo la rotta verso nord-est. Poi, all’orizzonte, la città emerge dal paesaggio con una geometria particolare, come se fosse stata modellata più dalla volontà di un artista che dalla mano del tempo.
Veronika sfoglia la guida, il suo sguardo assorto. «Sai che Pienza era in origine un villaggio chiamato Corsignano?» dice con voce bassa, ancora meno entusiasta del solito. «Poi Papa Pio II, nato proprio qui, decise di trasformarlo in un modello di città rinascimentale.»
Mantengo la rotta stabile e la osservo. «E ci è riuscito?»
«In un certo senso sì» risponde, voltando una pagina della guida. «Tutto qui è stato progettato per trasmettere equilibrio: la disposizione delle strade, la simmetria delle facciate, persino la Piazza Pio II, trapezoidale, che dà l’illusione di essere più ampia di quanto sia realmente.»
Sorvoliamo Pienza lentamente, lasciandoci avvolgere dalla sua armonia. Le sue strade ordinate scorrono sotto di noi come un disegno perfetto, ogni edificio sembra parte di una composizione studiata nei minimi dettagli.
Eppure Veronika continua a rimanere in silenzio. Poi, quasi parlando a sé stessa, mormora: «Irina… mi ha colpita così tanto. Non solo per quello che ha fatto nella sua vita, ma per come si muove, per come parla… sembra sapere sempre dove andare, cosa dire.»
Annuisco, confermando la sua stessa visione. «Sì, è una donna speciale.»
«E io… io non mi sento così. Io mi perdo in mille pensieri, ho sempre paura di sbagliare, di dire la cosa sbagliata.»
La guardo, poi torno agli strumenti con calma. «E pensi che Irina non sia mai stata così?»
Veronika esita. «Non lo so… non me la immagino diversa da come l’abbiamo conosciuta.»
«Forse anche lei ha avuto qualcuno che l’ha ispirata, esperienze che l’hanno fatta evolvere, prima di diventare la persona che è ora.»
Veronika mi osserva a lungo, come se quelle parole stessero trovando il loro posto nella sua mente. «Forse.»
Le prendo la mano. «E poi, chi ha detto che questo è un addio? Abbiamo i loro contatti. Ci rivedremo, in un modo o nell’altro.»
Veronika accenna un sorriso, ma ancora timido. «Dici?»
«Certo. E se anche passasse del tempo, sarà come se non fosse passato nemmeno un giorno.»
La vera perfezione non è ciò che possiamo trattenere ma ciò che lascia un segno dentro di noi.

San Quirico d’Orcia: i luoghi che ascoltano le nostre storie
Poco dopo siamo sopra San Quirico d’Orcia. Veronika osserva i giardini ben curati che si intravedono tra le mura, lo sguardo meno ombroso.
«Guarda laggiù, devono essere gli Horti Leonini. Un esempio perfetto di giardino all’italiana.»
Mi lascio trasportare dal suo tono, che questa volta non è triste e buio. Sorvoliamo lentamente San Quirico, mentre il sole accarezza le sue strade antiche.
«San Quirico era una tappa fondamentale per i pellegrini della Via Francigena» continua Veronika, sfogliando distrattamente la guida. «Gli Horti furono progettati nel XVI secolo per accogliere i viaggiatori. Oggi sono un’oasi di pace, un luogo perfetto per passeggiare e riflettere.»
La guardo mentre si sistema una ciocca di capelli.
«Riflettere…» ripeto piano, come se quella parola avesse un peso in più oggi.
Ci sono luoghi che non si limitano a esistere: sono lì per accogliere chi ha bisogno di essere ascoltato.

Oltre il Monte Amiata: il viaggio come crescita
Il Monte Amiata alla nostra destra è imponente e immobile, mentre il sole gli scorre dietro generando lunghe ombre sul terreno. Il paesaggio intorno cambia lentamente, le foreste scure contrastano con la luce calda del tramonto, come se la natura volesse raccontare una storia fatta di contrasti e trasformazioni.
Il silenzio torna per qualche istante, ma stavolta è più leggero.
Poi, quasi con noncuranza, le lancio un’idea: «E comunque, sai cosa potresti fare?»
Veronika mi guarda, incuriosita. «Cosa?»
«Scrivergli. Una cartolina ogni tanto, dai vari posti che visiteremo. Sarebbe una cosa carina e lascerebbe un ricordo nel tempo anche per Irina.»
Lei mi fissa per un istante, poi i suoi occhi si illuminano. «Una cartolina?»
Annuisco. «Perché no? Un modo per portarli con noi, per condividere il viaggio. Loro hanno viaggiato tanto prima di noi, ma ora siamo noi a essere in cammino. Sarebbe bello mandar loro qualche frammento della nostra avventura. Mantenere un legame.»
Il sorriso di Veronika si allarga. «Mi piace. Mi piace davvero.»
Sorrido soddisfatto. «Allora è deciso.»
Veronika si appoggia al sedile, rilassandosi. «Grazie! Sai, ora mi sento meglio.»
Le lancio un’occhiata complice. «E io che pensavo di essere solo bravo a pilotare.»
Veronika scoppia a ridere, scuotendo la testa. «Sei meglio di un navigatore. Trovi sempre la rotta giusta.»
Ridacchio. «E allora non perderti, che abbiamo ancora tanta strada davanti.»
Con questo pensiero, Veronika torna a sorridere davvero.
Cerco poi di distrarla e farla tornare nello spirito del viaggio: «Sai che ho visitato questa zona anni fa?» le dico con voce entusiasta. «Ero in moto. Un viaggio in solitaria tra Umbria e Toscana. Sono salito fino in cima al monte, cercando un po’ di fresco nel caldo estivo, ma all’epoca non sapevo che fosse un vulcano spento.»
Veronika si volta verso di me, sorpresa. «Un vulcano? Davvero?»
Annuisco. «Già, l’ho scoperto solo di recente in un documentario. È uno dei vulcani più grandi d’Italia, anche se ormai è inattivo. Le sue foreste di castagni e faggi sono immense, e in passato le castagne erano una risorsa fondamentale per le comunità locali.»
«Ma quello che mi ha colpito di più allora è stata la sensazione di pace. Non c’era nessuno per strada, solo io, il rumore del motore e il profumo del bosco. È un posto che mi ha fatto sentire piccolo, ma in un modo positivo. Mi ricordò che c’è qualcosa di più grande di noi.»
Lasciamo scorrere il Monte Amiata, lasciandoci alle spalle le sue foreste e il suo profilo imponente. Veronika ora guarda avanti, sembra più sollevata.
Forse ha trovato la sua risposta, o forse ha solo capito che non serve averne una subito.
Il vuoto che lasciano le persone è il segno che ci hanno cambiati.

La Rocca del Brigante: tra storia e teatro
All’orizzonte, isolata sulla sua collina come un guardiano solitario, appare la Rocca di Radicofani. La sua torre massiccia si staglia contro il cielo del pomeriggio, le mura spesse ancora intatte nonostante il passare dei secoli.
«Eccola» dico, riducendo la velocità e apprestandomi a effettuare la virata in circolo. «Immagina la vista che avevano da lassù.»
Veronika sfoglia rapidamente la guida. «Dice che la Rocca controllava la Via Francigena. Serviva a proteggere i viaggiatori ma anche a monitorare i mercanti… o derubarli. La cosa più interessante, infatti, è che fu il rifugio di un certo Ghino di Tacco.»
«Ghino di Tacco?» chiedo incuriosito. «Chi era?»
«Un brigante famoso, un po’ il Robin Hood italiano» spiega Veronika, sorridendo. «Rubava ai ricchi per aiutare i poveri e si rifugiava proprio nella Rocca. È citato sia nella Divina Commedia di Dante che nel Decameron di Boccaccio.»
Skippy si alza di scatto, con le orecchie dritte e lo sguardo determinato. Inizia a mimare gesti teatrali, afferrando un arco immaginario e lanciando frecce invisibili verso un nemico altrettanto invisibile. Poi lo punta verso di noi.
Io e Veronika ci blocchiamo, sorpresi dalla sua interpretazione.
«Guarda! Sta interpretando Ghino di Tacco!» esclama Veronika, scoppiando a ridere. Io cerco di mantenere la concentrazione sul volo, ma la scena è troppo divertente.
Skippy ci guarda con il musetto serio, aspettando il nostro coinvolgimento.
Le risate riempiono la cabina. «Va bene, hai vinto! Mi arrendo, ecco tutti i miei risparmi» le dico ridendo e mimando il gesto. «Da oggi sei ufficialmente il nostro brigante ufficiale.»
Skippy, soddisfatta del riconoscimento, si lascia cadere sul sedile, apparentemente fiera di averci distratti per un attimo dai nostri pensieri odierni.
Sorvoliamo lentamente la Rocca di Radicofani, lasciando che la sua ombra lunga si mescoli con la luce del tramonto.
Mantenendo lo sguardo fisso sugli strumenti, le dico: «Stavo pensando che forse non è importante quanto tempo passiamo con qualcuno, ma l’impronta che ci lascia.»
Prendo un respiro e la guardo.
«Non possiamo trattenerle, ma possiamo portarle con noi. Non come assenza, ma come parte di quello che siamo diventati.»
La terra ricorda chi l’ha vissuta. Alcuni nomi restano scolpiti nella pietra più di quelli nei libri di storia.

Le acque magiche di Saturnia: un sorvolo tra sogno e realtà
La nuova rotta ci porta su un fiume che serpeggia dolcemente tra le valli: il Fiume Albegna. Le sue curve sembrano disegnare una melodia visiva che si sposa perfettamente con la calma di questo tratto di volo.
«Guarda laggiù!» esclama Veronika, indicando un punto poco più avanti. «Quelle devono essere le Terme di Saturnia.»
Abbasso leggermente la quota, rallentando per osservarle meglio. Le Cascate del Mulino sono ben distinguibili, una serie di vasche naturali scavate nella pietra, da cui si alzano leggere volute di vapore. Il bianco della schiuma contrasta con le rocce grigio-azzurre e il verde della vegetazione circostante.
«Incredibile» mormora Veronika. «Sembrano sculture create dall’acqua stessa.»
Sorvoliamo lentamente il sito, lasciandoci avvolgere dalla vista ipnotica dell’acqua che scorre senza sosta, modellando il paesaggio come farebbe un artista paziente. Per un attimo, mi immagino lì, immerso in una di quelle vasche mentre il calore dell’acqua scioglie ogni pensiero di questa giornata.
«Un giorno ci fermiamo qui, vero?» chiede Veronika, con un tono che è già una decisione.
Sorrido. «Lo faremo. Aggiungilo pure alla lista. Ci servirà un altro giro del mondo per spuntare poi tutte le voci di quella lista» le dico scherzando.
Le Cascate del Mulino restano impresse nei nostri occhi mentre le lasciamo scivolare dietro di noi. L’immagine del vapore che si solleva leggero nell’aria fresca sembra un invito a rallentare, a immergersi nel tempo anziché lasciarselo scorrere accanto.
Davanti a noi la costa si avvicina.
Alcuni luoghi non sono solo paesaggi ma promesse di momenti futuri ancora da vivere.

Orbetello e Porto d’Ercole: il riflesso del tempo
Il paesaggio cambia di colpo. Superata l’ultima collina, la laguna di Orbetello si apre davanti a noi come uno specchio che riflette il cielo viola del tramonto. I due sottili lembi di terra che collegano l’Argentario alla costa sembrano galleggiare sull’acqua, quasi irreali nella loro perfezione.
«Guarda lì» dico, indicando le due strisce che si allungano nel mare. «Sembrano sospese. Sono artificiali, vero?»
Veronika alza lo sguardo dal finestrino, sorpresa e incantata quanto me. «Aspetta, controllo…» sfoglia rapidamente la guida. «Sono i Tomboli della Feniglia e della Giannella. Non sono artificiali, si sono formati nei secoli grazie alle correnti e ai venti. Sono unici nel loro genere.»
Mi lascio incantare dalla loro geometria naturale. «È incredibile pensare che la natura costruisca confini meglio di qualsiasi architetto.»
Sorvoliamo il cuore di Orbetello, la città che sorge come un’isola sulla laguna. Le sue strade strette, le mura antiche, il profilo delle chiese immerse nella luce dorata del tramonto… c’è un non so che di magico.
«Qui il passato si stratifica» dice Veronika. «Gli Etruschi la fortificarono, i Romani ne fecero un porto strategico, gli Spagnoli la trasformarono in una roccaforte.»
Ci sono incontri che durano per sempre, altri si dissolvono nel tempo come un mistero mai risolto.

Sorvoliamo lentamente la laguna, quando Porto Ercole appare poco dopo, abbracciato dalle colline dell’Argentario. Le sue case colorate si affacciano sul porto, mentre le antiche fortezze spagnole si ergono sopra di esso.
«Porto Ercole è famoso per le sue fortificazioni» dice Veronika. «Forte Stella, Forte Filippo e la Rocca Spagnola. Sono state costruite proprio dagli Spagnoli per difendere la costa dagli attacchi dei pirati.»
«Pirati e tempeste» aggiungo, osservando il porto rivolto verso la terraferma. «La posizione sembra studiata per proteggere non solo le persone, ma anche le navi.»
Veronika annuisce, poi si ferma su un altro paragrafo. «Aspetta, aspetta… c’è un’altra storia interessante: pare che Caravaggio sia morto proprio qui.»
«Caravaggio?» chiedo incuriosito. «Che ci faceva a Porto Ercole?»
«A quanto pare stava cercando di tornare a Roma» spiega lei. «Era in fuga da una condanna a morte e cercava il perdono papale, ma venne arrestato per errore vicino Palo Laziale. Quando lo rilasciarono, arrivò qui malato e indebolito, dove morì nel 1610. Non si sa esattamente dove sia stato sepolto, ma alcuni resti trovati in zona potrebbero essere i suoi.»
Resto in silenzio per un momento, osservando il borgo che scorre sotto di noi. Le luci del porto si riflettono sull’acqua, creando un’atmosfera calma e quasi irreale.
«È assurdo» dico infine. «Puoi lasciare un segno enorme nel mondo, cambiare la storia, eppure morire lontano da tutto, quasi dimenticato. La vita è imprevedibile, vero?»
Veronika annuisce pensierosa. «Forse è proprio questo che la rende unica. Non sai mai dove ti porterà né come si concluderà il tuo viaggio.»
Sorvoliamo Porto Ercole, virando lentamente verso la costa, con la laguna di Orbetello che si estende alla nostra sinistra.
La luce violacea del tramonto si riflette ancora sull’acqua, un ultimo saluto prima che il giorno ceda alla notte.
Puoi lasciare un segno indelebile nella storia eppure svanire nell’ombra, lontano da tutto. La vita è imprevedibile, proprio come il viaggio.

Un atterraggio fuori dall’ordinario
Mentre Orbetello sfila lentamente alla nostra sinistra, avverto un leggero peso nello stomaco. L’idea di atterrare su una pista in erba mi preoccupa: è il primo campo di questo tipo da quando ho ottenuto il brevetto. La luce del tramonto è ormai fioca e la mancanza di segnali visivi chiari rende tutto più incerto. Controllo spesso il tablet alla mia destra, dove la rotta tracciata ci porta verso una piccola pista immersa nella natura, vicino al Lago di Burano.
«Tutto bene?» chiede Veronika, cogliendo la mia espressione tesa.
«Sì… o quasi» rispondo, cercando di sorridere. «È la prima volta che atterro su erba. L’asfalto è prevedibile, l’erba no. È più morbida, ma può nascondere insidie. Il Cessna 172 è progettato per questo, ma è comunque una prima volta per me.»
Veronika annuisce con un sorriso rassicurante. «Sei un ottimo pilota. Ce la farai.»
Mentre il Lago di Burano appare poco distante, Veronika scorre la guida tra le mani.
«Dice qui che è una riserva naturale del WWF, una delle più importanti d’Italia. Pare che ci siano tantissimi uccelli rari.»
«Sì, sì, molto interessante» rispondo, mantenendo lo sguardo fisso sulla rotta. «Magari ci torneremo un giorno per esplorarla meglio. Per ora, però, concentriamoci sull’atterraggio.»
La pista erbosa è difficile da individuare nella luce ormai calante. Mi affido ai riferimenti del tablet e agli strumenti, cercando di allinearmi correttamente.
Dal sedile posteriore, Skippy si raddrizza, le orecchie tese, lo sguardo fisso fuori dal finestrino. Poi mi lancia un’occhiata rapida, come se avesse percepito qualcosa nell’aria, una tensione nuova.
Veronika, che ha colto il nervosismo della nostra navigatrice, cerca di alleggerire l’atmosfera.
«Se vuoi, ti racconto una delle mie barzellette terribili.»
«Non peggioriamo la situazione» ridacchio, mentre riduco gradualmente la velocità.
Finalmente scorgo la pista. Stringo i comandi. Il contatto con l’erba è più morbido del previsto, ma il Cessna sobbalza. Mantengo il controllo, rallento dolcemente e alla fine ci fermiamo.
Un lungo sospiro si fa sentire dalla cabina: Skippy, rilassata, emette un suono esagerato che ci fa scoppiare a ridere tutti.
«Direi che qualcuno non si fidava di me» dico, osservandola mentre si lascia andare sul sedile, finalmente rilassata. Poi, con un gesto studiato, afferra gli occhialoni e se li sistema in testa con solennità.
Veronika scoppia a ridere. «Non ci posso credere. Sei proprio tremenda!»
Ogni atterraggio è un nuovo inizio. Ogni volo è un passo verso qualcosa di più grande.

Un nuovo orizzonte ci attende
Mettere in sicurezza l’aereo su una pista erbosa richiede qualche attenzione in più. Assicuro i freni con cura, posiziono i cunei sotto le ruote e controllo che tutto sia stabile. È diverso dall’asfalto, più irregolare, meno prevedibile, ma c’è una certa soddisfazione nel vedere il Cessna 172 fermo, pronto per la prossima partenza.
Veronika si avvicina, sistemando il suo zaino con gesti lenti ma precisi. Mi guarda con un sorriso che tradisce una nuova energia, quella che arriva quando riesci a metabolizzare qualcosa che ti rattristava.
Le sorrido, poi lasciamo l’aereo alle nostre spalle mentre il cielo si oscura lentamente.
Il vento della sera porta con sé la promessa di nuove avventure.
Ogni viaggio finisce con un atterraggio ma le vere avventure iniziano sempre con un nuovo decollo.
Riassunto
Dopo il distacco da Carlo e Irina l’atmosfera è carica di emozioni. Veronika appare più silenziosa del solito, immersa nei suoi pensieri, mentre Camillo cerca di rispettare il suo spazio senza forzarla a parlare. Durante il volo sopra le Crete Senesi Veronika rompe il silenzio esprimendo la sua difficoltà nell’accettare il distacco da persone che, nonostante il poco tempo trascorso insieme, hanno lasciato un segno profondo. Camillo la guida con delicatezza a riflettere sul fatto che gli incontri importanti restano dentro di noi, indipendentemente dal tempo trascorso.
Mentre sorvolano Montepulciano, Pienza e San Quirico d’Orcia, Veronika continua a interrogarsi sul valore delle connessioni umane. Camillo la aiuta a trovare una nuova prospettiva: non si tratta di perdere qualcuno ma di portarlo con sé in modo diverso. L’idea di scrivere delle cartoline a Carlo e Irina come modo per condividere il viaggio e mantenere vivo il legame riporta il sorriso sul volto di Veronika.
Il volo prosegue verso il Monte Amiata, Saturnia e la laguna di Orbetello, con momenti di leggerezza grazie a Skippy che aggiunge un tocco di ironia alla riflessione generale. L’atterraggio sulla pista erbosa di Selva Nera rappresenta una piccola sfida per Camillo ma alla fine si rivela un successo, chiudendo la giornata con una nota di soddisfazione. Con il tramonto alle spalle, il viaggio prosegue con un rinnovato senso di leggerezza e una nuova consapevolezza: gli incontri non si perdono, evolvono.
verso nuove storie da raccontare.