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Prologo

L’inizio di un’avventura

l'inizio di questa Avventura
Prologo
Sky Wander

l’inizio di questa Avventura

Il profumo del caffè inonda la cucina, un aroma avvolgente che si mescola al ticchettio ritmico dell’orologio a pendolo. Un raggio di sole pomeridiano filtra attraverso le tende di pizzo, proiettando ombre delicate sui mobili antichi.

Poco fa, tornando a casa, abbiamo incrociato la signora Emilia davanti al portone, alle prese con borse della spesa troppo pesanti per lei. L’abbiamo aiutata a portarle su per le scale e ora siamo qui, nella sua cucina accogliente, con una tazza di caffè caldo tra le mani.

Mentre chiacchieriamo il mio sguardo vaga nella stanza fino a fermarsi su una serie di fotografie appese alle pareti. Immagini di luoghi esotici e lontani: il Grand Canyon, le piramidi d’Egitto, i vicoli di Kyoto, le scogliere della Scozia. Ogni foto è un invito all’avventura, una finestra su un mondo da lontano.

“È stata in tutti questi posti, signora?” chiedo con curiosità.

La signora Emilia sorride ma è un sorriso che porta con sé il peso di mille sogni rimandati. Le sue mani tremano leggermente mentre accarezza il bordo di una delle cornici. “Ho sempre sognato di andarci. Ogni singolo giorno della mia vita.”

“Non ci è mai stata, quindi?” chiede Veronika, inclinando la testa con una punta di confusione.

La signora Emilia ci osserva per un attimo, poi si alza con la lentezza misurata di chi ha imparato a convivere con i propri limiti. Si avvicina a una credenza antica e tira fuori una vecchia scatola di latta. Con gesti che sembrano parte di un rituale ne estrae una mappa del mondo ingiallita dal tempo, fogli pieni di annotazioni e appunti scritti con inchiostro sbiadito, biglietti ferroviari mai utilizzati, brochure di agenzie di viaggio degli anni ’60. Li stende sul tavolo davanti a noi come un sacerdote che rivela antiche reliquie.

“No” mormora, la voce che tradisce un tremito di emozione. “Non ci sono mai andata. Però ho pianificato ogni viaggio nei minimi dettagli. Ogni singolo passo.” Le sue dita scivolano sulla mappa, seguendo percorsi invisibili. “Mi dicevo sempre: ‘Un giorno partirò’. Aspettavo il momento giusto, i soldi, il tempo. Prima c’era mia madre malata da accudire, poi il lavoro in fabbrica, poi i figli da crescere…” Si interrompe, persa nei ricordi. “Alla fine sapete cosa è successo?” Solleva lo sguardo e lo fissa nei nostri occhi, con un’intensità che ci fa trattenere il respiro. “Ho rimandato così tanto che… sono rimasta qui. E ora sono vecchia e posso solo guardare ogni giorno queste foto, immaginando di essere stata lì.”

Nella stanza cala il silenzio. Un silenzio denso, carico di significato. Le sue parole ci attraversano come una folata improvvisa, scuotendoci dentro. Veronika mi stringe la mano sotto il tavolo – il nostro codice silenzioso quando siamo sulla stessa lunghezza d’onda.

Nella mia testa risuona una domanda insistente: “E se un giorno ci trovassimo anche noi a dire la stessa cosa?” Mi sporgo in avanti, osservando meglio la mappa. Ogni segno, ogni annotazione è il sogno di una vita che non ha mai preso forma. Itinerari studiati nei minimi dettagli, calcoli precisi dei costi, schizzi di monumenti copiati da libri di viaggio. Era pronta a partire ma non lo ha mai fatto.

“Forse è troppo tardi per me” dice con un sorriso stanco, richiudendo delicatamente la scatola “ma non per voi. Se avete un sogno, non aspettate. Il tempo scivola via come sabbia tra le dita.”

Veronika mi guarda e io so che sta pensando la stessa cosa: “Non possiamo permettere che anche i nostri sogni restino chiusi in una scatola di latta.”

“Forse un modo per girare il mondo anche senza tempo e soldi, al giorno d’oggi, c’è” dico, quasi senza rendermene conto, dando voce ai miei pensieri. “Forse possiamo farlo in un modo diverso ma altrettanto intenso.”

Emilia ci osserva con curiosità. “Cosa intendi?”

“Sa, signora… la tecnologia oggi ci permette di esplorare il mondo in modi che un tempo erano impossibili. Non sarà lo stesso che essere lì di persona ma… potrebbe essere qualcosa di altrettanto speciale” le spiego, cercando di tradurre in maniera semplice il turbine di idee nella mia mente.

Veronika annuisce, gli occhi accesi dall’idea che prende forma. “Potremmo raccontare i viaggi, creare storie che ci permettano di viverli almeno con la mente. Creare un’esperienza immersiva che ci emozioni, che ci trasporti… che ci lasci ricordi e sensazioni.”

Emilia sorride, anche se un po’ confusa. “Allora fatelo anche per me. E per tutti quelli che hanno sognato senza mai partire.”

Ci alziamo per andarcene. Prima di uscire Veronika si ferma e indica un piccolo oggetto su una mensola: un pupazzo di stoffa dall’aspetto buffo, con lunghe orecchie e un sorriso malizioso.

“È suo?” chiede.

“Oh, Skippy!” esclama la signora Emilia, con un sorriso nostalgico. “L’avevo comprata anni fa per i miei nipoti, ma è rimasta qui. Le diedi il nome del mio primo cane, quello che, come me, sognava sempre di scappare per esplorare il mondo.” Ci porge il pupazzo con un gesto delicato. “Portatela con voi. Forse lei riuscirà ad arrivare dove io ho solo sognato di andare.”

Quella notte non riusciamo a dormire. Siamo seduti sul letto, circondati da tablet, telefoni, computer e appunti. Il peluche di Skippy è appoggiato sul cuscino tra noi, il suo sorriso ricamato sembra quasi brillare nella penombra.

A un certo punto, Veronika solleva lo sguardo dal tablet e osserva Skippy, la prende tra le mani e accarezza il tessuto consumato.

“Guardala… sembra un’esploratrice vestita di tutto punto eppure, anche lei, è rimasta a prendere polvere su una mensola per anni.” mormora. “Ma noi possiamo darle, anzi dare a tutti noi una possibilità.”

Le sue parole mi colpiscono più di quanto vorrei ammettere. Mi passo una mano sul viso, lasciando che il pensiero si depositi dentro di me. Skippy era pronta da sempre, eppure non ha mai girato il mondo. Proprio come Emilia.

“Se vogliamo farlo, dev’essere più di un esperimento tecnologico: dev’essere un viaggio che ci faccia sentire vivi. Non sarà perfetto ma abbiamo tutto ciò che ci serve. Che dici?” le chiedo con una nuova energia.

“Deve essere un viaggio vero” aggiunge Veronika. “Un viaggio che lasci qualcosa dentro.”

“Skippy potrebbe essere la parte bambina di noi” dico pensiamo ai nostri figli, a come la loro curiosità e voglia di scoprire il mondo siano contagiose. “Porterà con sé la curiosità e l’entusiasmo che spesso dimentichiamo crescendo.”

Veronika sorride. “Mi piace. Sarà la nostra piccola esploratrice.” stringe poi il pupazzo con delicatezza. “Faremo quello che ci ha chiesto la signora Emilia. Viaggerà con noi.”

Dopo ore ci addormentiamo così, con ancora il tablet tra le lenzuola, le idee in subbuglio, il sonno agitato.

La magia di Skippy

Un lieve fruscio mi fa aprire gli occhi. Qualcosa mi ha svegliato ma nel torpore del sonno non riesco a capire cosa. Mi tiro su a metà, stropicciandomi il viso con una mano.

Il respiro mi si blocca. Dev’essere un’illusione… o un gioco di luci. Ma quando strizzo gli occhi e li riapro, Skippy è ancora lì… in fondo al letto. Ha un’aria diversa però. Sembra troppo reale. Sembra… viva.

Con la mano cerco a tentoni il braccio di Veronika e la scuoto per svegliarla. “Dimmi che la vedi anche tu.”

Lei si muove nel sonno, borbotta qualcosa, poi apre gli occhi. Si gira verso di me con espressione assonnata poi segue la direzione del mio sguardo.

All’improvviso scatta a sedersi, spingendosi contro lo schienale come se volesse allontanarsi. Gli occhi sgranati, la bocca che si apre e si chiude senza emettere suoni. Balbetta qualcosa, senza riuscire a formare parole comprensibili.

Skippy, intanto, ci osserva con aria paziente, come se stesse aspettando che ci decidiamo a reagire. Poi inclina la testa e alza una zampetta con fare sornione.

“E allora? Ci decidiamo o restiamo qui a guardarci a vicenda fino a domani?” sembra dirci.

Io e Veronika ci giriamo lentamente l’uno verso l’altra, con la stessa espressione confusa e incredula. Ci guardiamo per un istante in silenzio poi, quasi senza volerlo, sorridiamo.

Il viaggio è iniziato.

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